Kanye west

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Tuesday Music Revival: My Beautiful Dark Twisted Fantasy – Kanye West

  • Kanye West – My Beautiful Dark Twisted Fantasy
  • 22 Novembre 2010
  • ℗ Def Jam / Rock-A-Fella / UMG Recordings, Inc.

“Ogni Supereroe ha bisogno del suo tema musicale”

Nel novembre 2010, al culmine di crisi economiche, scompigli sociali e scandali mediatici, Kanye West esce dalla sua bolla artistica, con il suo disco migliore e probabilmente il più ambizioso nella storia della musica Hip-Hop. 

Prima di arrivare a parlare del disco occorre, fare un piccolo passo indietro. Fino a quel momento, il ragazzo d’oro di Atlanta era riuscito a cambiare i connotati ad un genere strettamente incatenato a precisi paradigmi. Da “College Dropout” a “808s & Heartbreak” Ye aveva introdotto l’importanza della melodia nell’Hip-Hop, uno stile diverso nel sampling, un utilizzo massiccio dell’autotune è un nuovo modo di lavorare un certo tipo di batterie elettroniche.

Con alle spalle un divorzio, la morte di sua madre, un 808s che aveva spaccato l’opinione pubblica e la sua fanbase e lo scandalo dei VMA’s, Mr. West si ritrova in un vortice di hating. Questo vortice porta ad un disco che non trova spazio per i mezzi termini e non accetta margini di errore. Ogni tassello deve essere al posto giusto nel momento giusto, perché chiunque, anche il suo hater più grande dovrà riconoscere l’importanza di Kanye. “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” comincia qui.

Prenotati gli interi Avex Recording Studios di Honolulu, alle Hawaii, cominciano i sei mesi di lavorazione al disco. Saranno sei mesi parecchio pesanti per West, che in balia delle sue insicurezze si circonderà di una schiera infinita di collaboratori. Dalla produzione (MIKE DEAN, RZA, Andrew Dawson), agli autori fino ad arrivare ai featuring, tra i più importanti spiccano Beyoncé, JAY-Z, John Legend, Pusha-T e Bon Iver, che sarà presente, in un modo o nell’altro, in gran parte del disco.

Ogni ruolo è studiato nei minimi dettagli e ancora una volta il rapper esce fuori dai canoni, inserendo artisti fuori dal panorama hip-hop, tra cui anche Elton John. Ancora una volta l’utilizzo dell’autotune supera ogni tipo di aspettativa, dai falsetti di Bon Iver, alle voci robotiche di Monster, così come i campionamenti. Ogni Sample è lì per un motivo, non solo per le sue sonorità, ma per raccontare le tematiche del disco e il personaggio di Kanye West. “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” è un viaggio introspettivo nel rapporto di YE con la fama e con il suo ego.

Il disco si apre proprio con i falsetti di Justin Vernon, sostenuti dalla voce di Nicki Minaj. All’interno della traccia spuntano campionamenti di musica classica (Mozart) e di Wandering Ginza Butterfly di Meiko Kaji. Le orchestrazioni e gli strati vocali culminano su un beat corposo prodotto da SZA. Con “Darkest Fantasy”, Kanye scava a fondo nel lato oscuro della fama, partendo dallo scandalo dei VMAs. 

In “Gorgeous”, la voce cavernosa di Kid Cudi aiuta YE a mettere in fila una serie di colpi contro l’ingustizia sociale dilagante in America. Ancora una volta il campionamento, in questo caso di “You Showed Me”, traccia del 1968 dei Turtles, ha un ruolo fondamentale nel racconto dei temi di questo disco. 

Il primo banger di “Twisted Fantasy” arriva alla terza traccia. I vocalizzi di “Afroamerica” dei Continent Number 6 e le voci filtrate estrapolate da 21st Century Schizoid Man dei King Crimson sono la ciliegina sulla torta per una traccia che ha richiesto cinquemila ore di lavorazione. Così come i King Crimson attaccavano il potere della classe dirigente durante la guerra del Vietnam, Kanye si scaglia verso il rapporto tra Fan e Celebrità, raccontando come però il potere possa essere un qualcosa di cui è quasi impossibile fare a meno dopo averlo ottenuto.

L’interludio orchestrale di “All of the lights”, composto da Elton John, conduce dolcemente verso una delle intro più facilmente riconoscibili nella storia della musica. Estratto come quarto singolo di “Twisted Fantasy” è il racconto dei problemi della fama visti da una situazione familiare sgradevole, tra abusi domestici e divorzi. Il feat. Con Rihanna, nasconde in realtà tanti altri artisti, da Drake a John Legend, passando per Alicia Keys. La cupa “Monster”, con Rick Ross, Jay-Z e Nicki Minaj è la traccia in cui l’ego di Kanye prende il sopravvento, affermando quasi di essere il migliore in quello che fa (E come dargli torto). 

In So Appalled, con Pusha T, Jay-Z, Prynce Cy Hi, Swizz Beatz e RZA, emergono sonorità più vicine all’ambiente Hip-Hop, rispetto al resto del disco, di cui Kanye in prima persona aveva parlato come di un progetto scollegato dai canoni della Rap Music. Questa volta sotto la lente di ingrandimento di YE passano i critici e la pop culture. 

“Devil In a New Dress” torna su sonorità morbide, con i campioni di Smokey Robinson lavorati come solo Kanye sa fare. Tra le chitarre, anche loro colme di autotune, di MIKE DEAN e la voce roca di Rick Ross, West, mette insieme religione e famiglia su una traccia probabilmente dedicata a Amber Rose, ex fidanzata. Una menzione d’onore va fatta a Rick Ross, che crea una delle strofe più belle di questo disco, e forse della sua carriera. 

I rintocchi inquietanti del piano di “Runaway”, mai farebbero immaginare cosa in realtà è la traccia in sé. Ancora una volta la strumentale, che vede la collaborazione di Pusha-T, rimane morbida, mentre Kanye sputa barre stonate. Ancora una volta torna sulla questione di Taylor Swift e dei VMAs, mentre Vocoder e corposi bassi sintetizzati danno un tocco di acidità alla traccia. Acidità che pervade anche l’intro di “Hell of a Life”, in cui Kanye attacca la corruzione che si avvinghia alla fama, a colpi di voci melodiche e arpeggi di sintetizzatore. 

“Blame Game” vede John Legend protagonista, mentre sussurra il ritornello sulla melodia di piano di “Avril 14th” di Aphex Twin. Tra le rime di Ye si nasconde un’altra storia d’amore maledetta, quella con la fama. 

Man mano che ci si avvicina alla fine del disco, i beat iniziano a farsi più fini, mentre sezioni percussive quasi orchestrali prendono il loro posto. 

“Lost in The World” altro non è che una visione di Kanye sulla traccia “Woods” contenuta nel disco Blood Bank di Bon Iver, è anche la traccia in cui quest’ultimo ha un ruolo più importante, insieme all’apertura. Ma Mr. West non si accontenta, perché, nella traccia che più descrive il suo stato d’animo nel periodo che ha generato la nascita di questo disco, torna a campionare i vocalizzi di POWER, inserisce come interpolazione il famosissimo “ma ma se ma ma sa ma ma ma co sa” di Wanna Be Startin’ Somethin e catapulta la traccia verso la chiusura del disco “Who Will Survive In America” una stratificazione di percussioni afro che aumentano l’intensità emotiva finchè il “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” non scompare lasciando spazio a un solo applauso. 

Se l’obbiettivo di Kanye West per questo disco era far ricredere tutti i detrattori, quasi sicuramente è riuscito a colpire nel segno. Non solo perché questo disco gli è valso un Grammy, ma perché ogni sua sfaccettatura l’ha reso iconico e gli ha conferito il posto che si merita nella lista dei migliori dischi rap di tutti i tempi.

/ 5
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Tuesday Music Revival: Late Registration – Kanye West

Kanye West – Late Registration

30 Agosto 2005

℗ UMG Recordings, Inc.

“The College Dropout”, uscito nel 2004, aveva fatto di Kanye West uno dei migliori rapper/producer di quel periodo. E si sa che quando un disco di debutto genera così tanti giudizi positivi, diventa parecchio difficile restare in linea con le aspettative per i dischi successivi. Non è il caso di Ye, perché il suo secondo disco, “Late Registration”, supera di gran lunga quello di debutto e ogni tipo di aspettativa. È a tutti gli effetti il punto da cui parte la rivoluzione hip-hop dei giorni nostri. 

Mettetevi comodi perché sta per iniziare il Kanye West Show.

“Late Registration” nasce sotto l’estro creativo non solo di Kanye. A dare una connotazione diversa al disco, è il produttore Jon Brion (Frank Ocean, Fiona Apple, Macy Gray), che porta l’album verso orizzonti sonori parecchio lontani dal disco precedente. Jon Brion non è solo colui che vede produzioni ricche di elementi tradizionali e orchestrazioni, combinate ai suoni soul degli anni ’70. Brion è colui che ha trasformato il Kanye confuso e controverso in un Kanye visionario, in grado di fare delle sue imperfezioni un punto di forza. Su suoni acidi e le voci nitide di Ye, si crea lo spazio perfetto per una serie di collaborazioni che calzano a pennello su ogni traccia, da Nas e Jay-Z all’emergente Lupe Fiasco. 

A livello produttivo, “Late Registration” segna un punto di rottura, dall’hip-hop tradizionale a quello dei giorni nostri. I suoni sono gonfi estremamente studiati e mescolati insieme. Il disco attraversa fasi in cui si distacca dal rap tradizionale per andare a esplorare sonorità trip-hop, salvo poi passare a tracce bom-bap, in maniera quasi perfetta.

Il disco inizia con un loop di pianoforte, accompagnato dalla voce di Adam Levine dei Maroon V, prima dell’ingresso di Kanye. Il vero primo singolo d’oro di questo disco è “Touch The Sky”, prodotta da Just Blaze. La traccia utilizza i campioni di ‘Move on Up’ di Curtis Mayfield. Su un beat caratterizzato da percussioni africane, avviene la svolta di Lupe Fiasco, che per la prima volta entra nel “mondo dei grandi”. “Gold Digger”, mescola loop di Ray Charles alle produzioni concettualmente più visionarie di Mr. West, condite con irriverenza, umorismo e un pizzico di arroganza. C’è inoltre il continuo di una collaborazione che dura tutt’oggi, quella con MIKE DEAN, che ne ha curato il mix. 

Kanye West in studio durante "Late Registration"

Dal precedente disco, Ye prende solo le tematiche politiche e sociali, riversate in “Diamonds from Sierra Leone (Remix)”. “Crack Music” affonda le radici nell’Hip-Hop più aggressivo, prendendo in prestito The Game che aggiunge voci rauche a ritmi stile gangsta rap. 

Le armonie di Brandy in “Bring me Down” creano una pista di decollo per una traccia estremamente articolata, costituita da arpeggi di piano forte e potenti orchestrazioni, che però non arrivano dove vorrebbero. A differenza di “Dropout”, questo disco ha delle tracce deboli, come nel caso di “Graduation”, ma questo poco importa quando tutte le altre mantengono in piedi il disco.  

La durata di circa un ora e dieci, da spazio anche a tracce più sentimentali, come nel caso di “Roses” o “Hey Mama”. In “We Major” Ye torna con un boom-bap old school, mescolato ad una produzione estremamente gonfia e le barre intrise di spiritualità di NAS.

“Late Registration” è un disco tentacolare, capace di muoversi tra i generi, capace di mettere insieme personalità estremamente diverse fra loro. È il disco che ha convertito un ragazzo problematico e insicuro in uno dei fiori all’occhiello del rap del nuovo secolo. 

Voto: 8.8/10

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Shangri-La Studios: Dalle Origini alle Radici della musica moderna

Gli Shangri-La Studios sono uno dei nomi più leggendari nel panorama musicale, un vero e proprio templio in cui la creatività artistica si spinge verso confini inesplorati, o almeno questo è quello che si crede. Conosciuto dai molti, per la figura estremamente eclettica del produttore Rick Rubin, che ne è attualmente il proprietario, gli studi hanno una storia molto più grande. È una storia che trascende le epoche musicali, da Bob Dylan e The Band, fino ad Adele e Kanye West

Gli Inizi: Anni ‘70

Lo studio fu fondato nel 1974, dopo che Rob Fraboni, un produttore e ingegnere del suono che aveva lavorato con grandi artisti, tra cui The Band e Bob Dylan, decise di acquistare, un terreno nei pressi di Zuma Beach, dall’attrice messicana Margo. Lo studio non era pensato come un classico studio di registrazione. Per Fraboni doveva essere più un ambiente che gli artisti concepissero come un rifugio, in cui esprimere la loro creatività nel migliore dei modi e, cosa più importante di tutte, dove l’industria musicale non potesse mettere bocca sulle scelte artistiche. Mai più azzeccato fu il nome Shangri-La, un luogo di pace e serenità, un vero e proprio paradiso in terra. 

Fra i primi gruppi a registrare nello studio ci furono proprio The Band. Il disco Northern Lights – Southern Cross, venne registrato nel 1975 e fu il primo disco del gruppo, composto esclusivamente da materiale inedito, da Chaoots, uscito nel 1971. Quello che cercavano per le registrazioni dell’album era proprio l’atmosfera voluta da Fraboni quando ha acquistato il terreno per trasformarlo in uno studio di registrazione. Un ambiente che favorisse l’ispirazione e la collaborazione creativa. Seguirono sessioni di registrazione intense e parecchio produttive e il disco fu uno dei primi prodotti che contribuì a creare l’immagine che lo studio si porta dietro ancora oggi, a distanza di quasi cinquant’anni. 

Anni ‘80: L’Era dei Grandi Classici

Nel corso degli anni ’80, gli Shangri-La erano diventati la Mecca dell’industria musicale, attirando tantissimi artisti di fama mondiale, da Eric Clapton a Joe Cocker. Uno degli ospiti più ambiti di quel periodo fu sicuramente Bob Dylan, che registrò una parte del suo disco Shot of Love. Lo studio è sempre stato dotato di tecnologie all’avanguardia e un team di persone estremamente qualificato, eppure quella magia non sembra venire attribuita a questi due fattori. A dirla tutta, nessuno è mai stato in grado di spiegarla, ma tutti gli artisti l’hanno percepita. 

Anni ’90 e 2000: Declino e Rinascita

Durante gli anni ’90 lo studio attraversò un periodo di “magra”, uscendo dai radar dell’industria, tranne che per gli affezionati, ma nei primi anni 2000, cambiò di nuovo tutto. Lo studio fu acquistato da Rick Rubin, uno dei più influenti e tentacolari produttori di sempre. I suoi lavori andavano oltre i generi musicali, passando da Red Hot Chili Peppers a Johnny Cash. Rubin sentì in quello studio una magia che sembrava quasi dimenticata e riporto lo Shangri-La al suo antico splendore.

Rick Rubin Shangri-La

Sotto la sua guida, lo studio tornò nuovamente sulla bocca di tutti. Al suo interno vennero registrati gran parte dei dischi della nuova generazione, da 21 di Adele a Yeezus di Kanye West. In questo senso, il lavoro di Rubin è stato più forte rispetto a quello di Fraboni. Mentre Rob creò tutto da zero, Rubin è riuscito a creare un ponte fra le radici storiche dello studio e le esigenze dell’industria di oggi, pur riuscendo a mantenere l’atmosfera unica che lo aveva contraddistinto. 

Gli Shangri-La Oggi: Tra Innovazione e Tradizioni

L’evoluzione dello studio non è mai passata inosservata. Lo Shangri-La oggi presenta le più avanzate tecnologie di registrazione, pur mantenendo un forte legame con elementi più tradizionali. Questo equilibrio è stato fondamentale per far si che, ad oggi, lo studio rimanga al passo con i tempi, offrendo tutti gli scenari possibili immaginabili per sviluppare una canzone. Tra i progetti più recenti spiccano Harry Styles, Lady Gaga e In Times New Roman dei Queens of the Stone Age. Ancora oggi ogni dettaglio continua ad essere curato per favorire la massima espressione artistica. 

Un tempio Creativo per gli artisti

Una delle caratteristiche che rendono lo studio così unico è il contesto naturale. Esistono centinaia di studi di registrazione immersi nella natura, o costruiti sulle rovine di quelli che prima erano casali o fienili, ma per lo Shangri-La è diverso. Situato sulle colline di Malibu, lo studio si affaccia, da una parte sulle montagne circostanti, dall’altra sull’oceano Pacifico. 

È stato progettato per trovare l’equilibrio perfetto tra comfort e funzionalità. Le sale di registrazione sono curate nei minimi dettagli, con materiali di altissima qualità, per favorire l’acustica, pur mantenendo l’ambiente caldo e accogliente. Ogni dettaglio, dalle luci soffuse all’arredamento è pensato per mettere gli artisti a proprio agio e stimolare la loro creatività.

La combinazione di un’ambiente naturale incredibile è la cura nella progettazione ha reso lo studio un vero e proprio tempio creativo. Sono svariate le personalità dell’ambiente musicale che hanno raccontato di aver trovato nello Shangri-La, non solo uno spazio di lavoro, ma un luogo in grado di tirare fuori tutto il loro potenziale. Questa filosofia, è la più importante motivazione per cui, ancora oggi, gli artisti continuano a tornarci.

Shangri-La Interno 1

L’impatto Culturale

Nel corso degli anni lo studio è diventato uno dei punti di riferimento in tutto il panorama musicale. I progetti registrati al suo interno hanno avuto un impatto significativo a livello culturale e sulla carriera degli artisti. Tornando indietro ad esaminare i progetti usciti da questo studio, si nota in poco tempo che molti di loro hanno spesso ridefinito e portato avanti l’evoluzione dei generi musicali più disparati. 

L’influenza dello Shangri-La non è solo musicale. Documentari, film e articoli, nel corso degli anni, hanno celebrato ciò che è stato e ciò che è lo studio, rendendolo uno dei luoghi di creazione della musica più conosciuti al mondo. 

Ad oggi, quest’oasi discografica ha contribuito ad influenzare il modo in cui altri studi vengono concepiti, il modo in cui operano e addirittura, il tipo di tecnologia che utilizzano. Questo approccio ha dimostrato che non è solo chi ha il microfono più costoso, o la console più grande o il produttore migliore, a generare la musica migliore, ma anche l’ambiente che ti permette di farla uscire dalla tua testa. 

Ogni artista che ha lavorato dentro le mura dello Shangri-La ha scolpito qualcosa nell’anima dello Studio. Ha contribuito a costruire, mattone dopo mattone, nota dopo nota, la sua eredità. A distanza di cinquant’anni, questo studio rimane un faro di creatività nell’industria musicale. Speriamo non smetta mai di brillare.

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Kendrick Lamar: La recensione di “Mr.Morale & The Big Steppers”

  • Kendrick Lamar – Mr. Morale & The Big Steppers
  • 13 Maggio 2022
  • ℗ pgLang/Top Dawg Entertainment/Aftermath/Interscope Records

“Ho scelto me, mi dispiace”

Tutti i dischi di Lamar sono sempre stati collegati da un filo indistruttibile: un concetto. Ogni album raccontava una storia a sé stante, che si apriva e chiudeva tra l’inizio e la fine. In “Section.80” il rapper affrontava il razzismo. “good kid, m.A.A.d city” era un’istantanea della sua infanzia. “To Pimp A Butterfly” era il canto della rivolta delle comunità oppresse. E “DAMN”, un’analisi interiore fra battaglie con sé stesso e con gli altri. Il concetto dietro “Mr. Morale & The Big Steppers”, non si distacca totalmente da quello espresso nel disco precedente. Abbiamo ancora a che fare con un Lamar intento a fare luce su chi è veramente. 

C’è contraddizione, durezza rifiuto e accettazione. Il rifiuto per il ruolo di importanza nell’Hip-Hop che, complice la vittoria del Pulitzer, il mondo gli ha conferito. L’accettazione del non essere in grado di risolvere i problemi del mondo (e chi lo è). Ci sono confessioni e litigi, incorniciati da un contesto sociale segnato dalla pandemia. Al centro del quadro c’è Kendrick Lamar, che cerca di mettere a fuoco il personaggio sfuggente contro cui sta combattendo: sé stesso. 

Mr. Morale & The Big Steppers

Lungo tutta la durata di questo doppio LP, il rapper resetta completamente la struttura delle tracce, abbandonando qualsiasi tipo di forma-canzone utilizzato fino a quel momento. Le atmosfere Funk, Jazz e R&B, si mescolano squisitamente fra loro e vengono cucite alla perfezione alle rime di Kendrick, creando una nuova struttura, in cui testo e melodia non possono funzionare se non insieme. Il tutto è caotico. Versi disordinati duellano con accordi di piano apparentemente suonati a casaccio. È uno spettacolo di free-jazz in cui tanto più cresce il caos, tanto più il disco si solidifica. 

Per tutto il viaggio di Mr. Morale & The Big Steppers, Lamar si circonda di alcune fra le più eclettiche personalità nel mondo musicale, ma, tra Sampha e Beth Gibbons dei Portishead, o Thundercat e Kodak Black, la personalità più importante dentro questo disco è quella della sua compagna dai tempi della scuola, Whitney Alford. Sarà lei a guidarlo attraverso il percorso introspettivo dell’album. 

Prima di andare oltre, è necessario fare una precisazione sul modo in cui “Mr. Morale” è strutturato, perché c’è un motivo se il disco è diviso in due parti. Nella prima parte, siamo davanti al Kendrick che conosciamo, quello che si scaglia contro le ingiustizie del mondo, sempre dalla parte degli oppressi. È nella seconda parte che tutto cambia, dove Mr. Morale diventa protagonista della scena. 

Ad aprire la prima parte del disco è “United In Grief”, con un intro che diventerà in seguito uno degli “anthem” principali dell’album. Ci scontriamo con un Kendrick che riversa tutti i problemi della società nei beni materiali che ognuno di noi possiede. Compri orologi che indossi una sola volta, hai un’enorme piscina in cui non hai mai nuotato, eppure tutto questo non è servito a niente. La traccia defluisce su una sostenuta progressione di accordi di piano. Il piano sarà uno dei punti principali nelle 18 tracce di questo disco.

“N95” è liberatoria, sotto tutti i punti di vista. La produzione minimale, esplode in stratificazioni di sintetizzatore, mentre Kendrick si spoglia di tutto ciò che reputa superfluo. [Togli la caccia al prestigio / Togli il Wi-Fi / Togli le rate dell’auto]. Nei viscidi sintetizzatori di “Worldwide Steppers” mette a nudo in maniera più completa la sua dipendenza dal sesso. Sebbene non sia la prima volta (ne aveva già parlato ai tempi di “To Pimp a Butterfly”), questa volta scende nel profondo dell’utilizzo del sesso come vendetta. 

Con “Die Hard” e “Father Time” entriamo in uno dei punti più alti di questo disco. Ciò che avviene nelle due canzoni è una “conversazione” tra il rapper e la sua compagna. Durante la prima traccia, featuring con Amanda Reifer e Blxst, unico punto dai sentori vagamente pop, Lamar si interroga su ciò che potrebbe succedere nel momento in dovesse tradire Whitney. La risposta arriva nel Banger numero uno del disco. Fra archi e arpeggi di piano, la Alford invita il rapper ad iniziare un percorso terapeutico. Risposta? Un capolavoro di beatmaking, fa da collante tra il ritornello di Sampha e un Kendrick che prende coscienza dei suoi problemi e cerca un modo per risolverli. L’interludio “Rich” evidenzia nel modo più crudo possibile il fatto che la comunità afroamericana ha anche delle sfaccettature di violenza, di cui bisogna tener conto. 

“Rich Spirit” porta avanti quel concetto di produzione minimale sviluppato all’inizio del disco, con Lamar intento a espiare i suoi peccati addentrandosi nella relazione tossica di “We Cry Together”. Le armonie vocali si frantumano nel momento in cui il beat prende il controllo della traccia. Ancora una volta testi e metriche sono cuciti magistralmente all’arrangiamento mentre il rapper e l’attrice Taylour Paige mettono in scena un litigio tra lui e la compagna. Il litigio si dissolve in “Purple Hearts”, con Ghostface Killah e Summer Walker. La traccia che chiude il primo disco è leggera e meditativa. Un attimo per prendere una boccata d’aria prima di tornare a lavorare su sé stesso. 

Torna l’anthem di “United in Grief”, ma con una variazione nel testo, per l’apertura della seconda parte del disco. In “Count Me Out” la consapevolezza è l’argomento centrale, concetto che si estende anche su “Crown”, in cui il rapper losangelino fa i conti con ciò che rappresenta per il mondo. Da “To Pimp a Butterfly” è stato visto come il salvatore dell’Hip-Hop, un messia. Lui stesso si è comportato come se lo fosse. Almeno fino a Mr. Morale. “Crown” è la traccia che manda in frantumi quello status. La verità è che è stata tutta un’illusione, non può salvare sé stesso, figuriamoci qualcun altro. Il sogno è finito. Torna con Kodak Black in “Silent Hill” in un’altra traccia più leggera, in cui danza fra ipocrisia e serpi.

Nell’interludio “Savior”, la traccia si apre con un monologo di Eckhart Tolle sui traumi infantili. Mentre, questa volta il cugino di Lamar, Baby Keem, fornisce all’ascoltatore un’ulteriore prospettiva sull’ambiente familiare in cui sono cresciuti, sopra una produzione ai confini della tensione. Sul tiptap di “Savior”, Kendrick cala la pietra tombale sul suo ruolo di salvatore del Rap. Il punto più importante arriva quando lui stesso abbandona il suo modello. [Tupac è morto, devi arrangiarti]. Mentre analizza la transizione di genere di sua zia in “Auntie Diaries” si rende conto di non essere stato poi così diverso da tutti gli altri. Mentre cerca redenzione dal suo lato discriminatorio, mette in discussione la sua fede nei confronti della chiesa. 

“Mr. Morale” è cupa, gli ottoni gracchiano mentre Lamar tira sospiri rabbiosi prima di sputare traumi generazionali e sofferenza. Come un ex-alcolista che riesce finalmente a vedere il mondo con gli occhi di un sobrio, in “Mother I Sober”, con Beth Gibbons dei Portishead, Kendrick Lamar sembra aver ottenuto il suo gettone dei 100 passi. Si accorge di come, se non trattati, i traumi subiti da piccoli si possano riflettere sulle generazioni successive e sono essi stessi figli di traumi delle generazioni precedenti.

È probabilmente una delle tracce più importanti del disco, perché oggi Kendrick è padre, e sa che tutto ciò che farà si rifletterà sulla sua famiglia. E deve essere un buon padre. Sui violini del finale, arriva alla totale comprensione. Lui, Whitney e i loro figli possono vivere felici. L’emozione più forte arriva quando la canzone è finita e tutto ciò che resta è la cosa più importante. La voce di sua figlia che lo ringrazia. 

Il disco arriva a compimento con “Mirror”. Ora Kendrick è libero. Ha lasciato andare il suo personaggio, lui non è dio, non è il paladino di nulla. Lui è solo un artista e una persona. Quello su cui vuole concentrarsi ora è solo la sua famiglia. Nudo fino all’osso, vulnerabile e ancora una volta autore di un disco generazionale, Kendrick Lamar questa volta ha scelto sé stesso. 

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André 3000: La recensione di “New Blue Sun”

  • André 3000 – New Blue Sun
  • 17 Novembre 2023
  • ℗ Epic Records / Sony Music Entertainment

Tutti quelli che avevano sperato in un ritorno Hip/Hop della stella degli OutKast, hanno dovuto rivedere le loro prospettive. Dopo 17 anni, il rapper di Atlanta, torna con un album. Un secondo debutto, si potrebbe dire, in cui fa piazza pulita di rime, in favore di strumentali sperimentali. Negli ultimi 17 anni non è stato certo con le mani in mano. Ha riservato a fan e non solo dell’hip/hop, una serie di chicche, dai featuring sui progetti di artisti come Kanye West, Kid Cudi e Frank Ocean, al suo EP da solista uscito nel 2018 attraverso SoundCloud. 

Quello che colpisce di più, anche se in un certo senso André 3000 ha abituato il suo pubblico ad un certo tipo di atteggiamento, non solo artistico, è la noncuranza verso le tendenze, musicali e non. Avrebbe potuto fare un disco rap e invece ha scelto ben altro. “New Blue Sun” è un disco strumentale di un ora e mezza, colorato da ambientazioni che spaziano dall’Ambient alla New Age, dalla Worldwide al Jazz, guidate dalle linee melodiche del flauto di André. 

In “New Blue Sun”, André 3000 trova il connubio perfetto tra elementi digitali e elementi tradizionali, aiutato dal suo co-produttore Carlos Niño, che ha aggiunto sprazzi di strutture percussive. Una lunga lista di musicisti ha portato poi ad una serie di sfaccettature sonore, forse in alcuni casi ripetitive, ma completamente distanti da qualsiasi tipo di genere musicale moderno, facendo del disco, un viaggio quasi spirituale. 

Andre 3000

L’apertura “I swear, I Really Wanted to Make A “Rap” Album”, segue il filo satirico, portato avanti dall’artista negli ultimi tempi. A tratti sembra scusarsi per essere andato in una direzione diversa rispetto a quella sperata dai fans. 

Lungo i dodici minuti di canzone si sviluppano strati di sintetizzatori, mescolati a cinquettii svolazzanti, percussioni metalliche e loop stridenti. Il vero protagonista, come nelle altre tracce del resto, è il flauto, o più largamente la sezione di fiati. 

“The Slang Word P(*)ussy” si apre con sonorità minimali. Da prima un piano sintetizzato, che si trasforma in calde strutture melodiche vagamente somiglianti al Vangelis anni ’80, mentre “That Night In Hawaii” introduce sezioni percussive ritmate e rumori di fondo, a creare un’ambientazione quasi selvaggia. In “BuyPoloDisorder’s Daughter”, Niño e compagni danno prova dell’incredibile dote creativa, con loop e stratificazioni di Synth, che si mescolano in quella che è la traccia migliore del disco. 

Purtroppo, l’hype finisce qui, dopo sole quattro tracce e circa 50 minuti di Album.

Le successive quattro canzoni, somigliano più ad un miscuglio di elementi già ampiamente sviluppati nelle tracce precedenti.  Nonostante ciò i primi quattro componimenti riescono a tenere in piedi il disco.

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Yves Tumor: La recensione di “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume”

  • Yves Tumor – Praise a Lord Who Chews But Which Does Not Consume
  • 17 Marzo 2023
  • ℗ Warp Records

Nel suo quarto album in studio “Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)”, che abbrevieremo in “Praise a Lord”, Yves Tumor gioca allusioni sessuali, suoni atmosferici e sfocati incanalate dentro un genere al limite fra punk e art-rock. In aiuto alla stesura di questo disco compaiono due personaggi molto importanti nel panorama musicale, il primo è Noah Goldstein, ingegnere del suono di Kanye West da “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” a “Ye” e produttore di questo disco, il secondo è Alan Moulder, Mixing Engineer per “The Smashing Pumpkins”, “Nine Inch Nails”, “The Killers”, “Arctic Monkeys” e tanti altri.

Urla, respiri affannati in loop e drum machine danno un’atmosfera cupa, dall’anima punk a “God Is a Circle”, prima traccia di questo disco. La tinta glam di “Lovely Sewer”, mescolata a serrate sezioni ritmiche e effetti sonori, ti porta in un panorama a tratti dream-pop. In “Meteora Blues” incontriamo la maestria di Alan Moulder, nel trovare dei suoni di chitarra perfetti per ogni occasione. Sopra gli imponenti strati distorti di chitarra alla “Blur”, Tumor canta di Dolci sogni e labbra del colore delle ciliegie. In “Parody” lo stile sonoro si sporca sempre di più, andando a creare un netto contrasto tra l’arrangiamento distorto e i falsetti di Tumor.

Sampling e grosse linee di basso conducono a maestosi fill di batteria e suoni graffianti in “Heaven Surrounds Us Like a Hood”. “Operator” è una traccia ironica. “Mi sono unito a una coppia di sposi / Pronto? / Ho pensato di risparmiare un po’ di soldi” biascica Tumor. “In Spite of War”, le chitarre filtrate incontrano sezioni ritmiche elettroniche da club. Echolalia è completamente abbandonata al punk più puro, almeno finché non sopraggiungono i sintetizzatori e i sussurri del cantante. Anche il testo di questa canzone è stracolmo di ironia. “Trattami come una bambola / Mettimi in una casa con un cane e una macchina luccicante”.

“Fear Evil Like Fire” si sviluppa in cori angelici e effetti sintetizzati distorti e inquietanti, mentre la voce sembra uscita da un vocoder. In “Purified by the Fire” tornano i campionamenti, sotto un beat bom bap. È la traccia di questo disco che esce più dagli schemi, mescolando l’R&B già sperimentata a melodie industrial. La traccia, come “Interlude”, è priva di testo. Un grosso fill di batteria esplode nelle melodie disco di “Ebony Eye”, traccia di chiusura dell’album. “Guardiamo i fiori sbocciare nella casa degli sciocchi / Queste ombre passeggere nelle tue fotografie”.

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Kali Uchis: La recensione di “Red Moon in Venus”

  • Kali Uchis – Red Moon in Venus
  • 3 Marzo 2023
  • ℗ Geffen Records

Prova superata a pieni voti per il terzo disco della cantante statunitense di origini sudamericane. Le sperimentazioni funk, R&B e Bossa Nova degli album precedenti confluiscono tutte in “Red Moon in Venus”, è il secondo album della Uchis ad essere quasi completamente in inglese. Tra suoni e arrangiamenti esotici, curati da una lunga lista di producers, da Rodney Jerkins, conosciuto anche come “Darkchild” (Michael Jackson, Spice Girls, Beyoncé), a Benny Blanco (Ed Sheeran, Kanye West, Camila Cabello), si sviluppano testi che parlano d’amore, in tutte le sue forme con un’aura astrologica, come sottolinea il titolo stesso del disco. 

In “in My Garden…”, introduzione di pochi secondi, ci troviamo di fronte a suoni esotici, uccelli e un piano elettrico. La prima traccia effettiva di questo disco è “I Wish you Roses”, ritmi rallentati e linee melodiche calde e leggere. “Worth the Wait” con Omar Apollo, mischia drum machine e suoni percussivi a sensazioni tra il funk e l’R&B degli anni ’90. “Love Between…” prosegue sulle atmosfere funky, ma quello che caratterizza tutto l’album è proprio la contrapposizione fra generi che viaggiano a velocità diverse. “All Mine” molto essenziale, il ritmo lo detta la linea melodica di basso. 

“Fantasy” con Don Toliver contamina il genere predominante del disco con elementi afropop, generando una traccia sensuale. “Como Te Quiero Yo” e “Hasta Cuando” è la prima delle tre tracce per la maggior parte in spagnolo. I vocalizzi e le sensuali atmosfere rievocano sfaccettature più tristi, che raccontano della sofferenza legata all’amore. In “Endlessly”, prodotta da Darkchild, si torna verso un groove funky, in cui le sezioni di ottoni lasciano spazio a sintetizzatori analogici. “Deserve Me” con Summer Walker e “Moral Conscience”, introducono elementi trap, i testi parlano di consapevolezza e relazioni tossiche.

L’interludio “Not Too Late” spicca una ritmica Hip-Hop old school all’interno di una traccia profondamente R&B. “Blue” richiama strumenti tradizionali, si può sentire una tuba e un mandolino, tra le ritmiche serrate e i synth, mentre tra gli elementi di astrologia del testo di “Moonlight” la cantante si diverte in frasi come: “Voglio solo sballarmi con il mio amante. “Happy Now” affronta il perdono, per essere felice e continuare ad essere innamorata. 

Voto: 8/10

/ 5
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Tuesday Music Revival: Frank Ocean – Channel Orange

  • Frank Ocean – Channel Orange
  • 10 luglio 2012
  • ℗ The Island Def Jam Music Group

Aveva attirato parecchia attenzione su di sé circa un anno prima, quando aveva preso parte alla lista di featuring di Watch The Throne, di Kanye e JAY-Z. Sembrava essere piaciuto parecchio ai due colossi del rap game, tant’è che gli avevano lasciato spazio addirittura in due tracce. Una cosa piuttosto insolita per un artista emergente. A meno che tu non sia Frank Ocean, ma questo noi ascoltatori lo abbiamo capito solo dopo, più o meno nello stesso momento in cui abbiamo realizzato che era la stessa persona dietro John Legend, Alicia Keys, Beyoncé. La lista continua, ma focalizziamoci su “Channel Orange”.

Quello che rende straordinario Channel Orange è il modo in cui racconta una realtà perfettamente ordinaria. Il quadro di questo disco raffigura un’America frenetica, quella degli spot televisivi, traffico e videogiochi, popolata dai reietti della società. Ricchi e Infelici, Drogati e Signori della Droga, Prostitute e Papponi, al centro Christopher (Frank Ocean). Quello che di solito ci si aspetta da progetti di questo tipo, è un’aura di cupezza che parte dalla melodia e si insinua fino all’ultima parola dei testi. Ma qui è diverso. Quello fra Musica e Lyrics è il contrasto più evidente di Channel Orange.

Eliminati i testi, le melodie sarebbero la cornice perfetta per una giornata al mare, o una grigliata di metà estate. Groove elettrizzanti in cui il funky e l’R&B diventano un tutt’uno. Poi arrivano i testi e il panorama si stravolge. Ocean non ha bisogno di ridare a qualcuno quello che sta raccontando, questo si traduce in una narrazione incredibile in cui la performance vocale dell’artista californiano tocca livelli altissimi. 

Ad aprire il disco è una traccia di poco meno di un minuto. Sembra l’attimo in cui stai per accendere il tuo videogioco preferito, prima che i suoni a 8 bit si convertano nei sintetizzatori filtrati di “Thinkin Bout You”, la traccia cardine di questo progetto. Sopra i ritmi cadenzati di cassa e clap, Ocean passa da cifre stilistiche che strizzano l’occhio al rap ai falsetti del ritornello. Poi di nuovo quaranta secondi di pausa. “Fertilizer” appare come uno spot pubblicitario e, mentre cambi canale, finisci in “Sierra Leone”. Un sogno lucido su un giovane che ha messo incinta una ragazza. I sottili arpeggi di Rhodes di “Sweet Life” esplodono in un vortice di Soul, mentre la voce di Ocean analizza quanto e in che modo la troppa ricchezza ci renda insensibili ai problemi del resto del mondo. 

Channel Orange

In Super Rich Kids, ritorna sul concetto di ricchezza, che diverrà uno dei punti fondamentali di questo disco. La traccia ha un’atmosfera luccicante, mentre la virata verso l’hiphop da parte di Ocean si fa più evidente. Più avanti, con “Lost”, diventerà sempre più evidente quanto sia importante mettere in luce le tensioni e i divari tra le classi sociali.

Ne è un esempio forse perfetto “Crack Rock”. Quello è il punto in cui l’intento del disco tocca il suo picco. Seppur a livello melodico sia una traccia che mette un’irrefrenabile voglia di danzare, il suo testo è molto di più. È uno spaccato di vita nel bel mezzo del nulla. Un paesello del centro America. È la storia di un tossico dipendente assuefatto dal crack. Ha perso qualsiasi cosa, è diventato un reietto della società, e nemmeno la sua famiglia ora lo supporta più. È forse la traccia più evocativa di questo disco. Per Ocean, le storie di queste persone sono importanti, forse più di quelle dei “Bambini Ricchi”. 

Nei quasi dieci minuti di “Pyramids” l’R&B gioca con il pop elettronico stile “Graduation” che in quel periodo viveva ancora il suo periodo migliore. Se “Crack Rock” aveva il testo più evocativo, “Pyramids” ha la composizione migliore. Assoli di chitarra di John Mayer, Vocoder, stratificazioni di sintetizzatori, cambi di stile. Ha tutto. “Bad Religion” è forse l’unica traccia che a livello di immaginario collettivo potrebbe rispecchiare la “pesantezza” degli argomenti trattati nel disco. È una balld in cui questa volta il protagonista è il dolore. Il dolore di un amore non corrisposto. Con l’organo di “Bad Religion” i toni del disco si raffreddano. In “Pink Matter”, con Andre3000, il rap trova l’incastro perfetto per completare la traccia, diventando a tutti gli effetti il suo punto forte. 

“Forrest Gump” è un’altra lucente composizione con l’amore al centro della storia. La traccia sfocia in un outro dai tratti particolari. Qui forse è l’unico momento in cui questo disco fa uscire degli attimi di cupezza. È una conversazione in macchina, con la radio accesa. Poi le voci si sfocano. Qualcuno apre la portiera. E va via. Torna a casa, accende quello che sembra un registratore, ma il disco è finito.

/ 5
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