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The Music Revival Week: The Beatles – Sgt. Peppers’s Lonely Hearts Club Band 

The Beatles – Sgt. Peppers’s Lonely Hearts Club Band

26 Maggio 1967

℗ Calderstone Productions Limited / Universal Music Group 

Il 1967 è stato per i Beatles, l’anno più produttivo di sempre. Durante il suo corso, il quartetto di Liverpool ha messo in fila una serie di pezzi da novanta. Durante il 1967, la band non lavorò soltanto a “Sgt. Pepper”, tra le produzioni erano contenuti spunti e demo contenuti poi nei loro progetti futuri, documentari, video promozionali e addirittura un vero e proprio film. 

Prima di immergersi nel racconto di uno dei dischi più importanti degli anni ’60, occorre aprire una piccola parentesi sul gruppo. Già con il disco precedente, i Beatles avevano raggiunto l’apice della loro fama, diventando la band più conosciuta al mondo, ma come gran parte dei gruppi musicali, quella fama era diventata la causa principale dei loro problemi, dando inizio ad una fase di squilibri all’interno della formazione. Dopo una lunga pausa, si trovarono tutti e quattro agli Abbey Road Studios, verso la fine del 1966.

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La prima canzone che nacque, tra mille peripezie, fu ‘Strawberry Fields Forever’, in cui venne introdotto per la prima volta l’utilizzo del Mellotron. Nonostante lo sviluppo tecnologico, la band decise di non utilizzare quella versione e di affidarsi al produttore George Martin, che se da una parte contribuì a creare un disco mastodontico, composto da archi e ottoni, dall’altra fu una delle cause principali degli attriti fra i membri del quartetto. ‘Strawberry Fields Forever’ non fu inserita in “Sgt. Pepper”, ma nonostante ciò, fu la scintilla che diede inizio al disco. 

Se ‘Strawberry Fields’, viene descritta come il punto di inizio del disco, è perché durante quelle sessions, la band registro la prima vera traccia di “Sgt. Pepper”. ‘When I’m Sixty-Four’ era stata scritta da Paul, circa otto anni prima, come omaggio ai suoi genitori. 

Il disco è un vasto assortimento di sonorità ricercate, a tratti psichedeliche, che sotto molti punti di vista rappresenta il lavoro più importante dei Beatles. Si apre con la title track, una miscela di orchestra e hard rock, caratterizzata da chitarre squillanti, sezioni di ottoni e suoni ambientali. 

Il leggero accenno di art rock si diluisce in ‘With a Little Help for my Friends, una canzone scritta a quattro mani da Lennon e McCartney. A differenza della traccia precedente, questa è più classica, la band non si avventura in soluzioni orchestrali o suoni psichedelici. Questo succede invece in ‘Lucy In The Sky With Diamonds’, il cui strumento guida è un organo processato. Nell’intro vengono inseriti suoni piuttosto interessanti per l’epoca, a partire dal Sitar, proveniente probabilmente dal viaggio spirituale in India che George Harrison aveva condotto nel periodo di pausa dell’anno precedente. ‘Getting Better’, scritta in gran parte da Paul, calza perfettamente con la voce di Lennon. Nonostante la timbrica allegra, la traccia esplora temi particolarmente problematici, come quello della violenza domestica, che risiedono all’interno del passato di John Lennon.

“Fixing a Hole” è piuttosto semplice. Si sviluppa sulla sezione di clavicembalo suonato da George Martin e sui riff crunch di Harrison. Mentre Ringo passa da ritmi swing a progressioni più semplici. Un’arpa sognante accompagnata da una sezione d’archi ci introduce a ‘She’s Leaving Home’. È un duetto tra John e Paul, ispirato ad una notizia su una ragazza scomparsa, dopo essere uscita di casa, e trovata dopo molto tempo. Questa è, insieme a ‘A Day in The Life’, uno degli ultimi duetti tra Lennon e McCartney. Il primo lato del disco si chiude con ‘Being for the Benedit of Mr. Kite!’, un miscuglio contorto di atmosfere deliranti. In questo pezzo la psichedelia dilaga, sotto forma di sezioni di fiati drop down di violini, organi e clavicembali.

È nonostante la baraonda, almeno da un punto di vista compositivo, una delle tracce più studiate, a partire dai campioni a nastro scelti, fino ad arrivare a suoni in stile Beach Boys. Il testo è praticamente copiato/incollato da un poster. 

76+] Sgt Peppers Wallpaper - WallpaperSafari

Nonostante il tempo abbia dato (parzialmente) ragione alla band, per un lungo periodo “Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band”, dopo la sua uscita, aveva generato non pochi segnali contrastanti, non solo dalla critica, ma anche dagli artisti stessi. Frank Zappa, ne ha addirittura tirato fuori un album parodia, mentre Bob Dylan lo ha considerato «Indulgent». Altri artisti, hanno invece provato a cavalcare il suo impatto mediatico. Sto parlando proprio dei Rolling Stones e di “Their Satanic Majesties Request”, uscito proprio nello stesso anno. Per gli Stones, il disco, era stato un suicidio artistico. Sia la critica che il pubblico lo avevano completamente demolito, costringendoli ad un restyling completo del loro sound.

Tornando a “Sgt. Pepper”, anche il pubblico non era rimasto proprio soddisfatto, e tutt’ora non ne è soddisfatto. In un sondaggio della BBC del 2005, su un campione di ascoltatori, il disco ha ricevuto abbastanza voti per essere ritenuto uno dei 10 dischi più sopravvalutati della storia e, probabilmente, complici anche i tre dischi precedenti, non è non è poi così insolito pensare che la fama del gruppo l’abbia preceduto.

Ad ogni modo, abbiamo ancora il lato B da analizzare.

In ‘Within You Without You’, unica composizione di Harrison, emergono nuovamente le atmosfere orientali, figlie della sua esperienza in india. La traccia è un incontro tra strumenti folkloristici orientali e le orchestrazioni di Martin. Durante le sessions presero parte diversi musicisti indiani. La composizione principale raggiungeva circa i 30 minuti, ma durante la stesura del disco è stata poi ridotta a 5. ‘Lovely Rita’ è un’altra rock ballad allegra scritta da McCartney, caratterizzata da un tappeto di organi su cui poggia l’assolo di piano di Martin.

In ‘Good Morning Good Morning’ veniamo risvegliati dal canto di un gallo, che ci catapulta in una canzone piuttosto movimentata, composta da sezioni di ottoni gracchianti e la ritmica serrata di Ringo. È una traccia sarcastica sviluppata sul concept di Andy Warhol, infarcita con suoni ambientali. Il breakbeat di batteria di ‘Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise)’ ci guida verso una delle tracce più importanti, se non la più importante, che è anche colei che chiude il disco. 

‘A Day In The Life’ prende piede tra gli applausi del pubblico. Sono uno strumming leggero di chitarra acustica e un piano a guidare la voce sottile di Lennon. Nonostante la semplicità percepita all’inizio, la traccia si evolve in un crescendo orchestrale. Per Lennon, alla sessione principale, mancava qualcosa, una sezione iconica. Sezione iconica che trovarono con l’orchesta. L’intento del gruppo era creare un orgasmo sonoro. Per faro Martin e McCartney si sono serviti di un’orchestra di 40 elementi. Le tracce vennero poi sovraincise 4 volte, in modo da dare l’impressione che gli elementi fossero 160.

15 Fab Quotes About the Making of 'Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band' |  Entrepreneur

Sono pochi i dischi perfetti, usciti senza sbavature in cui non si riesce a trovare un errore neanche con il carattere più pignolo, e “Sgt. Peppers’s Lonely Hearts Club Band” non è sicuramente tra questi. Ma bisogna dare atto alla band di un paio di cose. Lennon e McCartney riescono a creare, forse per l’ultima volta, un legame nelle tracce vocali che poche altre volte si è visto. Le atmosfere, dettate dagli ambienti psichedelici e dai testi criptici, cantanti con spiazzante tranquillità sono lo specchio perfetto della ‘flower wave’ di quel periodo. L’ultimo punto riguarda l’impatto artistico. Checché se ne dica, ‘Sgt. Pepper’ è stato un disco capace di cambiare, ancora una volta, il modo di fare musica, e il disco degli Stones, citato in precedenza, è solo uno di quelli ispirati all’ottavo disco del quartetto di Liverpool. 

Voto: 9.6/10

/ 5
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Tuesday Music Revival: Abbey Road – The Beatles

  • The Beatles – Abbey Road
  • 26 Settembre 1969
  • ℗ Calderstone Production Limited / UMC

Abbey Road rappresenta a tutti gli effetti l’ultimo tassello mancante di una carriera non lunghissima, ma sicuramente molto prolifica. Questo sarà l’ultimo lavoro effettivo scritto ad otto mani dal quartetto di Liverpool, poiché “Let It Be”, pubblicato nel 1970 era un insieme di inediti scritti durante le sessioni degli album precedenti. In soli sei anni i Beatles avevano costruito, un nuovo modo di fare musica, sotto tutti i punti di vista dal processo di scrittura fino alla registrazione, erano diventati conosciuti e acclamati in tutto il mondo ma, come per tutti gli artisti, erano vicini al capolinea. La pressione, i riflettori costantemente puntati contro e il sopraggiungimento di alcuni attriti all’interno della band, crearono un momento per niente piacevole, durante le sessioni di registrazione di “Get Back”, che finirono per generare nulla che i quattro componenti trovassero accettabile per un nuovo album. Quindi, tornati nel loro posto sicuro, agli studi della EMI, in Abbey Road, e una volta assunto il produttore George Martin, i Beatles si misero a scrivere il loro ultimo capolavoro. Nonostante le tante divergenze i Beatles riuscirono a portare a termine il loro compito e lo fecero alla grande, probabilmente perché ognuno di loro sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta.

Il disco si apre con “Come Together”, canzone politicamente impegnata, tanto da essere utilizzata per la campagna elettorale di Timothy Leary, candidato alla carica di governatore della California, con richiami al Rock & Roll americano e una delle linee di basso più famose della storia della musica. “Something”, ballata scritta da George Harrison e uscita come singolo insieme a Come Together, cambia decisamente il ritmo dettato dalla traccia precedente introducendo un’aura di spensieratezza. Dietro le melodie allegre di “Maxwell’s Silver Hammer”, che la fanno suonare quasi come una filastrocca, si nasconde in realtà la storia di un ragazzo che commette un omicidio. La traccia introduce l’utilizzo di un sintetizzatore Moog e un’incudine. Sebbene sembri una canzone scritta a tempo perso, le sue sessioni di registrazione furono parecchio travagliate. “Oh! Darling” suona estremamente Rock & Roll, con la sezione di piano forte volutamente ispirata a personaggi come Little Richard. La canzone è scritta da Paul McCartney, che l’ha anche cantata. Il suo perfezionismo l’ha portato a registrare la traccia diverse volte, fino ad ottenere il risultato che stava cercando, le urla di un uomo che supplica una ragazza di rimanere al suo fianco. In “Octopus’s Garden”, scritta da Ringo, il gruppo torna una volta ad esplorare il mondo sottomarino, le voci ausiliarie sono quelle di McCartney e Harrison. 

“I Want You (She’s So Heavy)” è fino a questo punto la traccia più sperimentale e piena. Sono presenti vari cambi di ritmo, in alcuni punti sembra come se ci fossero dei richiami al solo di Come Together, ma ad una velocità ridotta. C’è l’utilizzo dell’organo, del Moog e alcuni spunti psichedelici. “Here Comes the Sun”, scritta da Harrison dopo un periodo di forti contrasti con la Apple Records, l’allora etichetta discografica dei Beatles. I problemi con la Apple non sono i soli, in quel periodo Harrison si era dovuto operare e aveva perso sua madre, queste sfaccettature emergono nella canzone in versi come: “È stato un lungo inverno freddo e solitario”, che lasciano spazio a speranza: “Sento che il ghiaccio si sta lentamente sciogliendo”. Il suono del clavicembalo apre l’ultima traccia registrata per Abbey Road. “Beacuse”, ispirata a Beethoven e nata da un giro di pianoforte di Yoko Ono, la canzone introduce una sezione più corposa di sintetizzatori, rispetto alle tracce precedenti, e delle armonie vocali da parte di tre dei Beatles. “You Never Give Me Your Money” è forse una delle canzoni più introspettive della band. Nella traccia vengono messi a nudo tutti i problemi che stanno logorando il rapporto fra ogni membro e che porteranno al loro scioglimento. “Sun King” unisce ispirazioni ai “Fleetwood Mac” e alcuni piccoli richiami a “Don’t let me Down”, nel comparto melodico. La canzone è stata registrata. In una sola ripresa, con “Mean Mr. Mustard”, traccia successiva, ispirata ad un articolo di giornale su un vecchio che teneva i suoi soldi nascosti in casa.  

“Polythene Pam” fu scritta circa un anno prima dell’inizio delle sessioni di Abbey Road, da John Lennon. La protagonista della canzone racchiude alcune esperienze da parte della band, in periodi diversi della loro vita. “She Came In Through the Bathroom Window” continua il medley iniziato con Sun King, raccontando la storia di un fan che sgattaiolò all’interno della casa di Paul McCartney attraverso la finestra del bagno. La chitarra di George è particolarmente graffiante rispetto alle altre tracce del Medley, ma le fondamenta della canzone sono probabilmente la sezione ritmica e il basso. “Golden Slumbers” trasforma il medley in una ballata a base di piano e archi. È probabilmente la canzone più realista insieme a “You Never Give Me Your Money”, in cui i Beatles dicono addio a quello che sono stati, con una delle tracce più belle del disco. Il fill di batteria finale di Golden Slumbers ci porta direttamente dentro “Carry That Weight”, che analizza il peso della fama, quando gli affari si aggiungono al fare musica. L’ultima vera e propria canzone del disco (e dei Beatles) non fa giri di parole. Il titolo è “The End”, canzone composta da assoli di chitarra, di John, George e Paul. 

“Alla fine, l’amore che ricevi è uguale all’amore che dai”, questa è l’ultima frase dei Beatles, seguita dall’ultimo sospiro, per ciò che sono stati e ciò che non saranno mai più.

“Her Majesty” è l’effettiva traccia finale. Fa parte di una porzione del medley, inizialmente posta fra Mean Mr Mustard e Polythene Pam. La scelta di mettere questa come ultima canzone ha attirato diverse critiche, da chi sosteneva che il giusto finale avrebbe dovuto essere “The End”. C’è un motivo ben preciso se l’album si chiude con questa canzone. È come se il gruppo volesse sdrammatizzare la malinconia che aveva portato creare l’ultimo disco.

Voto: 10/10

/ 5
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Beabadoobee: La recensione di This Is How Tomorrow Moves

  • BeabadoobeeThis Is How Tomorrow Moves
  • 9 agosto 2024
  • ℗ Dirty Hit

Nel 2017, Beabadoobee, pseudonimo della cantautrice britannico-filippina Beatrice Kristi Laus, ha fatto il suo debutto con uno stile grunge e lo-fi, ispirato all’indie rock degli anni ’90. L’artista ha catturato l’attenzione con il singolo Coffee, un brano indie-folk intriso di malinconia e speranza che ha risuonato tra gli ascoltatori grazie al suo fascino. Cresciuta in un contesto multiculturale, nata nelle Filippine e trasferitasi a Londra durante l’infanzia, Beabadoobee ha trasformato le sue esperienze di vita – segnata da razzismo e stereotipi – in un’opera musicale che unisce shoegaze, ballate minimaliste e grunge, esemplificata nel suo album di debutto Fake It Flowers del 2020.

Con il successivo Beatopia nel 2022, Laus ha approfondito la sua estetica nostalgica, ma con tocchi contemporanei, esplorando un suono più variegato che ha unito l’indie-rock degli anni ’90 a elementi di jazz-pop e influenze più moderne. Brani come The Perfect Pair e Glue Song hanno consolidato la sua capacità di fondere stili apparentemente differenti, creando pezzi che parlano alla nuova generazione senza dimenticare le radici del rock alternativo.

L’album più recente di Beabadoobee, This Is How Tomorrow Moves, pubblicato il 9 agosto 2024, rappresenta un nuovo capitolo nella sua evoluzione musicale. Prodotto da Rick Rubin nello studio Shangri-La a Malibu, l’album è una riflessione sul dualismo tra l’ascesa alla fama e il desiderio di autenticità e intimità personale. Rubin, noto per la sua capacità di scavare nell’essenza di vari generi musicali, ha aiutato l’artista a mantenere il cuore attitudinale del rock anni ’90, ma con un tocco che risponde alle tendenze musicali odierne. Il disco offre una gamma sonora che spazia dal grunge al pop, con influenze jazz e indie, riflettendo un panorama sonoro ampio e inclusivo.

L’album è ricco di fusioni inaspettate: ritmi bossa nova, atmosfere “zoomer-gaze” e omaggi ad artisti iconici come Elliott Smith, mostrando la crescita di Beabadoobee come artista capace di creare strutture complesse in brani che esplorano temi di amore, perdita e identità.

This Is How Tomorrow Moves

Take a Bite, brano di apertura, cattura l’energia degli anni ’90, con chitarre distorte e produzioni dense che richiamano The Smashing Pumpkins. È caratterizzato da un mix di grunge e pop degli anni 2000, riflettendo le tensioni e le sfide adolescenziali dell’artista. Il tono è rilassato ma determinato, con testi che esplorano le contraddizioni del crescere. California è una traccia tributo all’alt-rock degli anni ’90, con influenze di band come i Pavement. La traccia riflette il “sogno americano” dal punto di vista di una giovane outsider che cerca di trovare il suo posto in un mondo complesso e disorientante. Le sonorità malinconiche e i testi riflessivi enfatizzano un desiderio di fuga e una ricerca di identità.

One Time è un brano che si ispira allo stile di Elliott Smith, con una melodia morbida e sognante. Il ritmo in tempo di valzer aggiunge un tocco nostalgico, mentre i testi esplorano la vulnerabilità e il desiderio di autenticità. È un pezzo che mescola delicatezza e introspezione, con influenze Beatlesiane, mentre su Real Man ci scontriamo con sincerità e genuinità, a confronto con vulnerabilità e disillusione. Beabadoobee utilizza una narrazione personale, descrivendo la sensazione di innamorarsi troppo facilmente per poi rimanere inevitabilmente delusa, comunicando la sua aspirazione a relazioni vere e sincere.

Tie My Shoes riflette sulle relazioni giovanili e la dipendenza emotiva, con una melodia dolce e arrangiamenti minimalisti. I testi evocano immagini di innocenza e intimità, creando un’atmosfera rilassata e contemplativa. La traccia rispecchia le sonorità più delicate di Beabadoobee, con una produzione semplice e diretta. Attraverso una melodia piano-voce, Girl Song affronta con una dolcezza disarmante le difficoltà riscontrate dalle ragazze al giorno d’oggi, sfiorando i temi del giudizio rispetto all’apparenza fisica, il tentativo di rientrare negli stereotipi di bellezza quasi perdendo di vista la propria identità, con una sensazione di dover sempre provare qualcosa alla società che è sempre costante parte della quotidianità.

Coming Home, scritto durante un soggiorno a Los Angeles, è un brano caratterizzato da un’atmosfera tranquilla e contemplativa, con arrangiamenti acustici e uno stile che richiama, ancora una volta, Elliott Smith. La canzone è una porta aperta sulla vita di convivenza, descrivendo tutte quelle piccole azioni quotidiane e le faccende domestiche che si incastrano con il tentativo di trovare tempo per la relazione. Ever Seen è una traccia con una nuova energia, dinamica e vibrante, attraverso la quale viene descritta l’importanza e la potenza emotiva di una relazione riflessa negli occhi di entrambi i componenti della coppia. In A Cruel Affair si fondono elementi indie e bossa nova, creando un’atmosfera particolare che parla di una relazione complicata e non del tutto delineata. Con una melodia leggera e ritmi caldi, il brano cattura la complessità delle relazioni moderne, mantenendo una leggerezza melodica.

Post presenta elementi pop che passano attraverso un filtro “zoomer gaze”, fondendo shoegaze e dream pop. Esplora temi di amore e perdita, utilizzando suoni eterei e riverberi per creare un effetto avvolgente e sognante, ispirato alla produzione pop di Taylor Swift. Beaches è una traccia più vivace che evoca immagini di spensieratezza e libertà tipiche della stagione estiva. La melodia è orecchiabile e incalzante, con testi che parlano del desiderio di fuga e di trovare pace ed equilibrio, richiamando un’estetica estiva senza tempo. Everything I Want può essere identificata come un “seguito spirituale” di Glue Song. Questo brano è estremamente romantico, con testi dolci e una melodia accattivante. Esprime la crescita di Laus nella comprensione delle relazioni, cercando di fare le cose “nel modo giusto questa volta”.

The Man Who Left Too Soon è una riflessione malinconica sulla perdita e il ricordo di qualcuno scomparso troppo presto. Musicalmente minimalista, la canzone mette in risalto la voce emotiva di Beabadoobee, con un arrangiamento semplice che accentua l’atmosfera intimista. Il brano è stato scritto pensando al suo ragazzo che, intorno ai vent’anni, ha subito la perdita del padre. This Is How It Went, il brano di chiusura dell’album, riflette sul processo creativo e sul ruolo della musica come forma di espressione che viene utilizzata per guarire e non per ferire. La canzone esplora il potere catartico della composizione, con testi che rivelano l’introspezione dell’artista e chiudono l’album con una nota sincera e riflessiva.

This Is How Tomorrow Moves è un album in cui traspare chiaramente la capacità dell’artista di fondere passato e presente, rimanendo fedele alla sua identità musicale pur sperimentando nuove direzioni. Con questo album, Beabadoobee dimostra di essere una voce interessante e versatile nel panorama musicale contemporaneo, capace di catturare e rispecchiare le emozioni di una generazione in costante evoluzione e sottoposta a una costante critica.

/ 5
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The Decemberists: La recensione di As It Ever Was, So It Will Be Again

  • As It Ever Was, So It Will Be Again – The Decemberist
  • 14 giugno 2024
  • Yabb Records

All’apertura del sipario, non si sa mai cosa aspettarsi dai personaggi messi in scena dai The Decemberists, menestrelli moderni che si affacciano all’estate con il nuovo As It Ever Was, So It Will Be Again.

Nel panorama musicale ci si può imbattere di tanto in tanto in progetti che hanno infinite sfumature e cambi di rotta spiazzanti. In tal senso può venire in mente la camaleontica produzione dei Motorpsycho o dei più recenti King Gizzard & The Lizard Wizard.

E la band di Meloy e soci fa appunto parte del club di chi scuote l’alternative-rock prendendolo dalle caviglie, cercando sempre di accostare elementi di novità ad episodi più classici. 

A sei anni di distanza dal più elettronico I’ll Be Your Girl si fa un passo indietro, lasciando in consolle la tentazione di provarci di nuovo, vestendo i primi due brani con sonorità di sostegno alla narrazione poetica.

Per cui si passeggia in un cimitero accompagnati dalle melodie pop di Burial Ground, mentre in Oh No! ci si ritrova a ballare ad un matrimonio, una danza balcanica in cui i demoni sono sempre in agguato.
Una volta scaldato il pubblico, arrivano le prime note di The Reapers per stravolgere l’atmosfera fintamente spensierata. I personaggi del racconto sono dei contadini immersi nella quotidianità, scandita dal lavoro e dal naturale corso degli eventi.

Girando pagina si torna a melodie più semplici e di appannaggio country. 
Long White Veil inizia come un qualsiasi pezzo dei Rem. Anzi, come Losing My Religion in una tonalità diversa, solo che qui si parla piuttosto di “losing my love”.
William Fitzwilliam aggiunge alla scaletta una ballad country in rime.

Al centro dell’opera troviamo due momenti importanti ed un altro cambio d’atmosfera.

Don’t Go to the Woods è un canto toccante e dalle tinte medievali, in cui la melodia tratteggia fedelmente l’ambientazione.

As It Ever Was So It Will Be Again

Chitarra acustica, doppie voci e fiati costruiscono la trama di Black Maria, una sorta di marcia dei vinti, di chi non ce l’ha fatta a cambiare vita e viene consegnato alla giustizia traghettato dal Black Maria. 

È in momenti come questi che l’accoppiata Meloy-Conlee (Jenny Conlee è in formazione dagli esordi) dà il meglio di sé intrecciando armoniosamente le voci.

Scorrendo in ordine ci si imbatte nell’amore ostinato di All I Want Is You, le cui parole sono rimaste nel notebook del songwriter per tanto tempo, per poi trovare spazio in quello che, ad oggi, è il lavoro più lungo della band di Portland.
In coda si può ascoltare qualcosa di più rockeggiante come Born To The Morning o dondolare al ritmo di America Made Me, appello alla madre patria concepito come una marcetta a metà tra le ritmiche pianistiche di Elton John e i fiati trionfanti di Sgt. Pepper’s.

Dopo i suoni sixties di Tell Me What’s On Your Mind, arriva Never Satisfied, delicata e minimale, una parentesi agrodolce per una rassegnata insoddisfazione di fondo. Poteva anche terminare così, lasciando in sospeso qualche interrogativo esistenziale ma portando a casa, in fin dei conti, una buona manciata di canzoni.

Ma la band affila le matite e disegna l’ultima traiettoria, Joan in the Garden, una suite di oltre 19 minuti in cui prende forma la figura di Giovanna D’arco. La novità non sta tanto nella proposta di un brano che, per sintetizzare, si può definire progressive, perché queste scelte compositive si erano già notate in passato (i più curiosi potrebbero ascoltare l’EP The Tain o The Hazards of Love). Piuttosto è la durata, che non aveva mai raggiunto questo minutaggio, la vera sorpresa. Il cantante ha usato l’espediente della vicenda di Giovanna D’arco per raccontare la sua visione della donna moderna. 
Parte come un classico brano dreamy-folk, per poi aumentare l’intensità drammatica aggiungendo sempre più strumenti, batteria, campane, distorsioni e chitarre in feedback, sfiorando l’epicità di pietre miliari come “Dogs” dei Pink Floyd
Al suo apice la suite si sgretola in un tappeto di rumoristica e psichedelia in cui i primi Porcupine Tree sarebbero stati a loro agio. Poi il risveglio finale, una cavalcata hard’n’heavy in cui i synth di Jenny Conlee dirigono la storia verso la conclusione, anzi verso il titolo, sottolineando che “come è sempre stato, così sarà di nuovo” (“As It Ever Was, So It Will Be Again”, appunto).

E al calar del sipario, una raccolta di nuove storie da portare a casa, o dentro le cuffie. E per capire a che punto sono i The Decemberist nella loro storia musicale, basta aprire le pagine dei loro capitoli per tracciare la linea che da menestrelli li ha condotti ad essere abili narratori.

1,0 / 5
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I migliori album del 2024, finora

Mentre il 2024 ha fatto il suo giro di boa, lo staff di Stereophonic Magazine ha creato una lista dei dischi che hanno lasciato il segno in questa prima parte dell’anno. Ovviamente non siamo riusciti a recensire tutti i dischi che abbiamo inserito, ma ne abbiamo ascoltato parecchi e abbiamo cercato di riassumere quelli che secondo noi possono aver dato un valore aggiunto al contesto musicale attuale.

Non siamo ovviamente giunti ad una lista completa, per quella dovremo aspettare fino alla fine dell’anno. Continua a leggere questa pagina e scopri quali sono i progetti musicali che secondo noi hanno fatto da driver per questi primi sei mesi del 2024.


1.

Cindy Lee - Diamond Jubilee

Indie Rock – 29 Marzo 2024

2.

Beyoncé - Cowboy Carter

Country – 29 Marzo 2024

3.

Mannequin Pussy - I Got Heaven

Indie Rock – 1 Marzo 2024

4.

Jessica Pratt - Here in The Pitch

Singer/Songwriter – 3 Maggio 2024

5.

Vampire Weekend - Only God Was Above Us

Indie Rock – 5 Aprile 2024

6.

Ty Segall - Three Bells

Garage Rock – 26 Gennaio 2024

Sembrano ormai lontani anni luce gli esordi garage, con lunghe e ripetute schitarrate rumorose. L’evoluzione verso un rock alternativo sofisticato, notevolmente influenzato dalla psichedelia di beatlesiana memoria, trova pieno compimento in “Three Bells”, un album maturo, completo che consacra una carriera già lunga di un artista non propriamente veterano, ma ormai tra i più influenti della scena alternative. 

7.

English Teacher - This Could Be Texas

Indie Rock – 12 Aprile 2024

8.

Kim Gordon - The Collective

Noise Rock – 8 Marzo 2024

The Collective è la seconda tappa della carriera solista di Kim Gordon, rocker che non avrebbe bisogno di presentazioni, ma è doveroso ricordare che è stata co-fondatrice di una delle band alternative rock/noise più note del pianeta: i Sonic Youth.

9.

St. Vincent - All Born Creaming

Art Rock – 26 Aprile 2024

10.

Mdou Moctar - Funeral For Justice

Blues Rock – 3 Maggio 2024

11.

Adrianne Lenker - Bright Future

Singer/Songwriter – 22 Marzo 2024

12.

Beth Gibbons - Lives Outgrown

Chamber Folk – 17 Maggio 2024

The Collective è la seconda tappa della carriera solista di Kim Gordon, rocker che non avrebbe bisogno di presentazioni, ma è doveroso ricordare che è stata co-fondatrice di una delle band alternative rock/noise più note del pianeta: i Sonic Youth.

13.

The Smile - Wall of Eyes

Art Rock – 26 Gennaio 2024

Dove Thom Yorke mette mano, difficilmente fuoriesce qualcosa di anonimo. Il suo estro non lascia indifferente neppure l’ascoltatore più distratto. Risulta pertanto inevitabile il confronto e l’eco dei Radiohead, anche per la presenza all’interno del gruppo di Jonny Greenwood, ma l’eleganza nel tocco di Tom Skinner conferisce ai The Smile una sonorità più personale.

14.

SPRINTS - Letter to Self

Post-Punk – 5 Gennaio 2024

L’ondata di revival Post-Punk, che sembrava aver raggiunto il picco nel 2022, con artisti del calibro dei Fontaines D.C. non ha alcuna intenzione di eclissarsi. La dimostrazione è “Letter To Self”, il perfetto album di debutto degli “Sprints”. Con 11 tracce esplosive, il quartetto di Dublino, corona un percorso, segnato da ottimi EP e incredibili capacità nelle esibizioni dal vivo.

15.

Brittany Howard - What Now

Psychedelic Rock – 9 Febbraio 2024

Torna Brittany Howard con What Now e la risposta è sì, si tratta di un grande ritorno. L’artista si è affacciata al pubblico internazionale con gli Alabama Shakes, band che ha mandato in confusione la critica, tra dubbi e aspettative sulla proclamazione della leader a nuova Janis Joplin.

16.

Nailah Hunter - Love Gaze

Art Pop – 12 Gennaio 2024

17.

The Last Dinner Party - Prelude to Ecstasy

Glam Rock – 2 Febbraio 2024

Countdown terminato: è uscito Prelude To Ecstasy, l’atteso esordio delle The last dinner party, quintetto british tutto al femminile attivo dal 2021. I singoli del 2023 e le performance dal vivo (vantano anche un’apertura ai Rolling Stones) avevano già fatto conoscere la proposta artistica della band. Si tratta di ragazze che sanno bene quello che fanno e quello che vogliono raccontare, non a caso hanno di recente vinto il BBC Sound Off e il British Award nella sezione “Rising star”.

18.

Jimmy Montague - Tomorrow's Coffe

Singer/Songwriter – 28 Febbraio 2024

19.

Kali Uchis - ORQUIDEAS

Latin Pop – 12 Gennaio 2024

Ritmi caraibici e una pioggia di fiori sul quinto disco, secondo in poco meno di un anno, dell’artista colombiana. Circa un anno fa, nella recensione di “Red Moon In Venus”, avevamo sottolineato, come già il titolo faceva capire, che la Uchis si stava spostando verso un linguaggio standard, quello della lingua inglese, mantenendo, seppur solo nelle sonorità, alcuni tratti caratteristici della musica latina.

20.

Shellac - To All Trains

Noise Rock – 17 Maggio 2024

21.

Julia Holter - Something in the Room She Moves

Art Pop – 22 Marzo 2024

Avantgarde è una parola da usare con cautela ma non se si parla di Julia Holter, che con Something in the Room She Moves esplora nuove soluzioni artistiche esaltando i cinque sensi e ascoltando i ritmi naturali della vita. Considerata come una delle artiste più talentuose degli ultimi quindici anni, il suo è un art-rock sofisticato che cambia colore ad ogni album, accostandosi a musicisti che hanno fatto della sperimentazione il loro marchio di fabbrica.

22.

Hovvdy - Hovvdy

Indie Pop – 26 Aprile 2024

23.

IDLES - TANGK

Art Rock – 16 Febbraio 2024

Nella quinta fatica in studio, il quintetto di Bristol esplora l’amore, in un connubio tra nuove sperimentazioni sonore e suoni in perfetto stile IDLES. Con “Crawler”, disco del 2021, la band aveva messo in discussione i tratti canonici del Post/punk, abbracciando scelte elettroniche. In “Tangk” (Pronunciato Tank), la band lo fa di nuovo, da prima scegliendo un produttore insolito per il tipo di sonorità a cui ci hanno abituati.

24.

Maggie Rogers - Don't Forget Me

Singer/Songwriter – 12 Aprile 2024

25.

Billie Eilish - Hit Me Harde and Soft

Alt Pop – 17 Maggio 2024

Maya Hawke: La recensione di Chaos Angel

  • Chaos Angel – Maya Hawke
  • 31 maggio 2024
  • MOM + POP 

Saltando da un set all’altro, Maya Hawke ha ripreso in mano penna e microfono consegnando ai fan Chaos Angel, terza tappa discografica che allontana l’idea di una semplice parentesi musicale.
Figlia d’arte d’eccellenza, la venticinquenne è la primogenita dell’ex coppia Uma Thurman (Pulp Fiction)-Ethan Hawke (L’attimo fuggente). Per qualcuno sarà scontato, per altri invece va detto, o ricordato, che ha trovato il successo internazionale interpretando uno dei personaggi più amati di Stranger Things (Robin), serie che proprio alla musica attribuisce un’importanza centrale. E per chi non lo sapesse, alcuni membri del cast si sono dedicati a diversi progetti musicali negli ultimi anni: Finn Wolfhard (Calpurnia, The Aubreys), Joe Keery (Post Animal, Djo) e Charlie Heaton (batterista per un breve periodo) potrebbero, chissà, suonare al prossimo disco di Maya Hawke.

Fantasie a parte, l’attrice ha messo insieme dieci canzoni gradevoli di stampo folk-pop, sulla scia dei precedenti Blush (2020) e Moss (2022).
L’angelo del caos non porta disordine in queste storie, facendo emergere la bellezza e la semplicità delle cose nonostante tutto, anche dalla tristezza.
Le melodie semplici e orecchiabili rispecchiano la leggerezza e i toni pacati adagiandosi come piume sulla poetica di Hawke, che concede rari passaggi di spigolosità riflessiva e una maggiore attenzione a ricordi, ragionamenti per immagini e deduzioni per contrasto.

Chaos Angel

Ad aprire le danze in Chaos Angel c’è la compagna di avventure Sadie Sink (Max in Stranger Things), che interviene come voce narrante in Black Ice. Gran parte degli arrangiamenti recuperano gli insegnamenti del folk d’annata, mentre la voce sottile e leggera tende all’emulazione per apprezzamento della contemporanea Taylor Swift.
Un po’ di chitarre beatlesiane invece in Missing Out e Okay, il cui finale insiste su “If you’re okay, then I’m okay”, una parte che sembra uscita da un intermezzo musicale di  “Tutti dicono I love you” (Woody Allen).
Wrong Again, Big Idea e Promise scorrono lisce e senza pretese.
L’unico brano che passa il turno velocemente è Better, che consuma in poco più di un minuto il tentativo di mettere insieme voci elettroniche a cappella, abbozzando quella che potrebbe essere la sigla di una serie TV per ragazzi in stile Hannah Montana.

E sul podio delle prime tre arrivano (senza ordine):
Dark, struggente ma non troppo, un brano in cui ci si può riconoscere per qualche amore fallito, che nel complesso ha quel qualcosa in più, fosse solo per l’intervento della chitarra elettrica insieme alla batteria dopo un lungo inizio in sordina.
Hang In There, una ballad consolante che poteva far venire in mente all’attrice di chiedere un featuring a Glen Hansard;
Chaos Angel, il momento in cui Maya Hawke concentra le sue riflessioni simboliche per poi farle esplodere orchestrando una dichiarazione d’amore in crescendo.

Chaos Angel è un’opera delicata che si inserisce bene nel filone indie folk-pop da ascoltare in modo spensierato e senza impegno (almeno fino a questa prova discografica). Adatto per tutte le stagioni, da ascoltare davanti al fuoco, in riva al mare, sotto la pioggia o durante un pic-nic di primavera.


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Arctic Monkeys: la recensione di “The Car”

  • Arctic Monkeys – The Car
  • 21 Ottobre 2022
  • ℗ Domino Recording Co. Ltd.

Tesoro, è stato bello

È tardo pomeriggio e, sul Sunset Boulevard di Los Angeles, un uomo passeggia. L’aria è tranquilla, i raggi del sole iniziano a farsi sempre meno caldi, mentre un frastuono si leva dai pressi del Roxy Theatre. Una folla urlante insegue quattro ragazzi con capelli laccati e i giubbotti in pelle. L’uomo si volta. Li fissa con un mezzo sorriso, mentre loro, non curanti di lui guardano agli schiamazzi con gli occhi scintillanti. Con lo sguardo di chi ce l’ha fatta. 

Uno dei pregi più importanti degli Arctic Monkeys è sempre stato quello di saper evolversi in maniera incredibile, disco dopo disco. Ogni progetto ha seguito passo passo la loro crescita e maturazione personale. Dopo che “AM” li ha catapultati sui palchi più importanti di tutto il mondo, la band ha dato prova di quanto tentacolare fosse la sua visione di musica quando, nel 2018 ha eseguito una potente virata verso “Tranquility Base Hotel & Casino”. Le intriganti atmosfere “Kubrickiane” di un hotel dello spazio avevano creato l’abitazione perfetta per rinchiudere tutti i dubbi e le paure di un Turner intimo come mai era stato, almeno fino a quel momento. Se in quel disco iniziavamo a sentire dei richiami piuttosto forti al crooner, con spruzzi di Jazz e Soul qua e là, nel settimo lavoro, abbiamo capito che il cambiamento dei Monkeys non era solo una nuvola passeggera. 

“The Car” trasuda teatralità da tutti i pori. Il disco si interseca nelle linee vocali labirintiche di Turner, aiutate da ampie orchestrazioni e synth vaporosi. Questo è quello che si può considerare a tutti gli effetti un progetto da solista per il frontman della band, che ne ha scritto tutti i testi e composto le melodie, tra Parigi e Los Angeles. Sebbene al primo ascolto possa risultare strano e scollegato, come per altri dischi dei Monkeys, più ci fai l’abitudine e più riesci a capire dove le canzoni si intrecciano fra di loro. Tra gli ambienti sfocati è l’astrattismo di “The Car” volteggiano nell’aria, storie d’amore, dubbi e desideri di un giovane non più così tanto giovane. 

The Car

Per quanto, in un’intervista prima dell’uscita dell’album, Turner parlava di un ritorno a sonorità energiche, simil primi lavori della band, lungo le 10 tracce di The Car, non riusciremo mai a trovare qualcosa di simile. E non per forza è un male. The Car nasce da un periodo di riflessione, dopo il tour di “TBHC”. La band aveva preso una pausa per schiarire le idee e cercare di buttare giù nuovi progetti. Alla fine Alex ha prevalso. È riuscito a catturare l’essenza del momento che stava vivendo e l’ha rinchiusa nelle tracce. Il processo creativo è stato però più collaborativo. Insieme a James Ford, produttore di lunga data, la band si è ritrovata ai “La Frette Studios” di Parigi, dove sono riusciti a bilanciare cifre stilistiche vintage e suoni comunque innovativi. 

L’album si apre con quella che è forse la traccia più importante. “There’d Better Be a Mirrorball” è nostalgica. L’arrangiamento orchestrale brilla sotto la voce di Turner a metà fra amara malinconia e profondità. Ogni suono è nel posto giusto al momento giusto. Quasi ci si scorda di quell’intervista di Alex. E forse quelle sonorità energiche cercate e ricercate, non sono più poi così importanti.

“I Aint’t Quite Where I Think I Am” affonda in un incrocio di Soul e Funk, dove le liriche introspettive e incerte, si assottigliano per dare spazio a groove vivaci, mentre “Sculptures of Anything Goes” ci scontriamo con cupe sperimentazioni elettroniche e testi ipnotici e criptici. In “Jet Skis on the Moat” torniamo a ambientazioni soffici. È tutto delicato, dai sussuri di Alex ai puliti suoni di chitarra. Desideri e rimpianti creano un dolce-amaro momento di riflessione, prima che la traccia defluisca nel secondo gioiello di questo disco. 

“Body Paint” fa del dinamismo il suo punto forte. L’intensità vocale si defila man mano che gli arrangiamenti orchestrali crescono. Amore e inganno sono descritti in maniera impeccabile. Nella title-track le “scimmie” si spostano verso ambientazioni acustiche. Gli arpeggi di chitarra guidano un arrangiamento estremamente complesso. I rullanti intonano quella che sembra una marcia funebre. Tanto più la cupezza aumenta, tanto più le orchestrazioni crescono, mentre Turner rimane lì. Incastrato in un limbo di ricordi e momenti passati.

“Big Ideas” ha un sound più raffinato. Le influenze Jazz si fondono a un paesaggio sonoro cinematico, in cui la sezione di fiati si rivela la protagonista. Ci sono ambizioni e sogni, raccontati con una prospettiva tanto speranzosa quanto realistica. Qui però affiora un pensiero. Siamo forse ai titoli di coda? Quel film che erano gli Arctic Monkeys è finito? Poco importa in realtà, perché se questa è la loro uscita di scena (e spero vivamente che non lo sia), è il modo migliore per chiudere. 

“Hello You” ci fa dimenticare questi “brutti pensieri” con sound più energici e ritmati. Qui Alex è diretto come mai lo era stato nelle precedenti 7 tracce. Dura poco, giusto il tempo di tornare ad una ballata dai tratti Beatlesiani. In “Mr Schwartz” la solitudine espressa nelle liriche sfiora un arrangiamento acustico dolce ed estremamente emotivo. Con “Perfect Sense”, traccia di chiusura, vengono riversate tutte le tematiche trattate in precedenza, su linee melodiche e orchestrazioni lamentose. E il disco si chiude.  

È di nuovo tardo pomeriggio e, sul Sunset Boulevard di Los Angeles, l’uomo sorride ancora mentre fissa quei quattro ragazzi che sanno di avercela fatta. Ricorda quei momenti in cui era lui ad avere i capelli laccati e il giubbotto di pelle. Ricorda della prima volta in cui ha pensato di avercela fatta. Vorrebbe riassaporare quella magia, ma sa che non può. E forse va bene così. Quel mondo non ha più nulla da offrirgli, né lui ha più nulla da offrire a quel mondo. Mentre il sole scompare all’orizzonte, la città delle stelle torna a brillare. Solo che ora non brilla più per lui. Si volta, come se non volesse disturbare la gioia di quei ragazzi e torna a passeggiare. Questo è “The Car”.


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Il Mellotron: Genesi del primo campionatore, dall’Avanguardia all’Età Moderna

Girando per i social, i blog del settore e seguendo alcune interviste sulle radio è sempre più evidente la spaccatura che si sta creando nell’industria musicale, fra chi è strettamente convinto che ad oggi il fare musica sta diventando un concetto mediocre (“Fanno tutti musica col computer”) e chi invece considera il progresso tecnologico nella musica, un buon mezzo per creare ottimi prodotti in un modo semplicemente diverso. Dati alla mano, non si può non sposare il secondo punto di vista. La storia del Mellotron è soltanto una delle tante conferme. 

Il Mellotron è uno strumento musicale elettro-meccanico che, dagli anni ’60, periodo in cui è stato messo in commercio, ha rivoluzionato il mondo della musica. Il suo punto forte non era solo quello di avere un suono unico, ma la sua capacità di poter riprodurre il suono di vari strumenti pre-registrati. Andando avanti in questo approfondimento, scopriremo l’evoluzione del Mellotron, dagli anni ’60 fino ai giorni nostri. 

Le Origini

Il Mellotron affonda le sue radici all’alba degli anni ’60, ed è un’evoluzione del Chamberlin, uno strumento elettro-meccanico sviluppato negli anni ’50 da Harry Chamberlin negli Stati Uniti. Una delle figure chiave nello sviluppo dello strumento è stata senza dubbio Robert Fripp (Il fondatore dei King Crimson), che acquistò da Chamberlin i diritti sulla produzione e fondò la Bradmatic Ltd. Fu così che, nel 1963, l’azienda lanciò il primo modello di Mellotron, il Mark I. 

Mellotron
Prima Versione del Mellotron

Lo strumento si basava sull’utilizzo di suoni pre-registrati di strumenti come archi, flauti e cori, che venivano incisi su nastri magnetici. Ogni tasto del Mellotron attivava un piccolo nastro su cui scorreva una testina in grado di riprodurre il suono desiderato. Fu un successo incredibile, poiché il Mark I era sinonimo di semplicità. Da quel momento in poi, ogni musicista poteva avere una gamma di suoni orchestrali in uno spazio relativamente ridotto, senza dover scomodare un’intera orchestra.

L’Età d’Oro: Gli Anni ’60 e ‘70

Complice le rivoluzioni musicali sul finire degli anni ’60, la psichedelia e il rock progressivo, il Mellotron divenne il fiore all’occhiello delle più importanti band dell’epoca. I Moody Blues, i King Crimson e più tardi i Rolling Stones adottarono lo strumento, contribuendo a definirne il suono caratteristico. C’è però forse un punto di svolta più visibile, ed è quello di “Strawberry Fields Forever” dei Beatles. Il flauto riprodotto dal Mark I nell’intro della canzone, fu uno degli esempi più celebri dell’utilizzo di questo strumento. 

John Lennon suona il Mark I (anni 60′)

Influenze del Mellotron nel Rock Progressivo

Il Mellotron divenne un elemento chiave del rock progressivo, un genere musicale che cercava di espandere i confini del rock tradizionale incorporando elementi della musica classica, jazz e avanguardia. Band come i Genesis, gli Yes e più tardi i Pink Floyd sfruttarono le capacità dello strumento per creare strutture sonore complesse e stratificate. Nel caso dei Genesis, ad esempio, Tony Banks utilizzava il Mellotron per dare profondità e atmosfere alle composizioni. Per gli Yes invece, ricopriva una carica molto più importante all’interno degli arrangiamenti. 

Declino e Riscoperta

Con la digitalizzazione, l’evoluzione del modo di fare musica e i sintetizzatori negli anni ’80, il Mellotron perse gradualmente il suo posto di rilievo. I nuovi strumenti digitali offrivano una maggiore versatilità, oltre che un’elevata facilità d’uso, portando i musicisti a preferirli al Mellotron. Nonostante tutto, la nostalgia per il suono dello strumento non si è mai veramente spenta. Gli anni ’80 fecero salire alla ribalta synths come il Fairlight CMI e il Synclavier, che offrivano una gamma più alta di suoni e una precisione maggiore nel campionamento. Questi strumenti permisero ai musicisti di esplorare nuove sonorità, di ridurre la dipendenza di strumenti elettro-meccanici complessi e di gran lunga più costosi. Nonostante tutto, il calore, l’imperfezione e il fascino del Mellotron rimasero profondamente radicati nel modo di fare musica di alcuni musicisti.

Revival

Tra gli anni ’90 e 2000, lo strumento tornò nuovamente sotto gli occhi degli addetti ai lavori in campo musicale. Il Mellotron venne aggiornato, furono inseriti nuovi suoni e, piano piano, ci fu una digitalizzazione dello strumento stesso. In Inghilterra, durante il movimento ‘Cool Britannia’, negli anni ’90, band come Oasis e Radiohead, portarono nuovamente il Mellotron alla ribalta, in contemporanea alla rinascita di strumenti analogici e del vinile. 

Johnny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, in studio con una delle prime versioni dello strumento

Il Mellotron Oggi

Oggi, il Mellotron è considerato un pezzo di storia della musica e continua ad essere utilizzato in studio e dal vivo. La Streetly Electronics, una delle aziende originali produttrici del Mellotron, continua a fabbricare e restaurare questi strumenti. Inoltre, sono disponibili versioni digitali del Mellotron, che offrono la possibilità di riprodurre i suoni iconici dell’originale con la comodità della tecnologia moderna.

Le versioni digitali del Mellotron, come il M4000D, mantengono il carattere sonoro distintivo dell’originale, ma eliminano le problematiche legate alla manutenzione dei nastri e delle componenti meccaniche. Questi strumenti moderni sono dotati di una libreria di suoni che include tutte le registrazioni originali del Mellotron, offrendo ai musicisti una vasta gamma di possibilità creative. Inoltre, i plug-in software per computer permettono di emulare il suono del Mellotron, rendendolo accessibile a un pubblico ancora più ampio.

L’Eredità del Mellotron

L’influenza del Mellotron si estende anche oltre la musica. Il suo suono distintivo ha segnato colonne sonore di film, spot pubblicitari e videogiochi, contribuendo a creare ambientazioni suggestive e coinvolgenti. La sua capacità di evocare emozioni e di creare atmosfere uniche lo rende ancora oggi uno strumento prezioso per molti musicisti e produttori. Il Mellotron è stato utilizzato in una vasta gamma di generi musicali, dal rock progressivo alla musica elettronica, dal pop al metal, dimostrando la sua versatilità e il suo fascino duraturo.

La storia del Mellotron è un viaggio affascinante attraverso l’evoluzione della musica e della tecnologia. Forse è lo strumento musicale che più incarna la definizione di evoluzione nell’ambito del fare musica. Dal suo debutto negli anni ’60, attraverso il declino con l’avvento dei sintetizzatori digitali, fino alla riscoperta e alla celebrazione moderna, il Mellotron ha dimostrato di essere un simbolo di innovazione e creatività. La sua eredità continua a vivere, influenzando nuove generazioni di musicisti e affascinando gli appassionati di musica di tutto il mondo. La sua storia è un tributo all’innovazione, alla passione e alla creatività che caratterizzano il mondo della musica.

Il Mellotron è più di un semplice strumento; è un simbolo di un’epoca e di un modo di fare musica che continua a ispirare e a emozionare, dimostrando che il vero valore dell’arte risiede nella sua capacità di evolversi, adattarsi e sopravvivere al passare del tempo. La sua storia dovrebbe essere una lezione, per chi oggi, non concepisce le nuove modalità del fare musica.

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Caleb Landry Jones: La recensione di “Hey Gary, Hey Dawn”

  • Hey Gary, Hey Dawn – Caleb Landry Jones
  • 5 Aprile 2024
  • Sacred Bones

L’incontenibile creatività di Caleb Landry Jones ha portato alla realizzazione di Hey Gary, Hey Dawn, quarta prova in studio in cui i grandi spazi sonori da lungometraggio, tipici dei primi tre album, vengono ridotti a cortometraggi dove psichedelia e art-rock incontrano la robustezza del rock degli anni ‘90.
Arrivato al successo con Dogman e Nitram (per quest’ultimo ha vinto il premio come miglior attore al festival di Cannes), l’artista ha un’energia interpretativa a metà tra Johnny Depp e Joaquin Phoenix e una forte passione per la musica, che ha nutrito con un songwriting che avrebbe trovato riscontro naturale negli anni Settanta. Rispetto ad altri colleghi del grande schermo, Jones ha imboccato la strada del rock’n’roll con meno freni. 
In questo senso il suo percorso musicale è meno rassicurante del pop-rock stadium dei Thirty Seconds to Mars di Jared Leto, meno demenziale dei The Pizza Underground di Macaulay Culkin o meno celebrativo degli Hollywood Vampires di Johnny Depp.
Gli album precedenti sono infatti un mix impazzito di psichedelia, cabaret e glam rock in cui, come dichiarato, ha cercato “quel big sound un po’ alla Beach Boys/Phil Spector ma mescolato con un atteggiamento punk”. Ascoltando i suoi brani si ha la sensazione di essere in un film visionario, tra Georges Méliès, Terry Gilliam e Michel Gondry, dove ogni diapositiva corrisponde ad un momento preciso partorito dall’immaginazione del musicista.

Hey Gary, Hey Dawn


Il disco esce a trent’anni esatti dalla scomparsa di Kurt Cobain e la coincidenza fa risaltare le somiglianze per sound e atteggiamento in alcune tracce di questo nuovo lavoro.
Hey Dawn, che parte in sordina, sorprende nel ritornello con un omaggio (voluto?) al grunge e in particolare ai Nirvana. Finora soltanto The Great I Am (primo album) aveva ricordato quelle sonorità. 
Lo stesso accade in The Moonkey LightHey Gary (periodo Bleach) e Useless.
E visto che è facile farsi trasportare nella dimensione in bilico tra reale e surreale creata dall’attore, viene in mente quella leggenda metropolitana secondo la quale Jim Carrey è in realtà Andy Kaufman. Di certo non si può azzardare una fantasia del genere, presumendo che Caleb Landry Jones sia in realtà il compianto Kurt Cobain. Tra l’altro i due non sono neanche nati lo stesso giorno, mentre l’ipotesi stramba dello scambio Kaufman-Carrey “regge” proprio per questo. Quello che rimane da fare, quindi, quando si ascolta qualcosa che può far pensare ad un’icona come Cobain, è immaginare quale direzione musicale avrebbe intrapreso oggi il frontman dei Nirvana e sorriderci su.
Diversamente, il resto è un impasto tra T. Rex (ha confessato di essere un fanatico della band di Marc Bolan), Iggy Pop e David Bowie, con rimandi più contenuti, questa volta, al mondo di Frank Zappa e Syd Barrett e vagamente alle sperimentazioni bizzarre di Tom Waits.
Qualche accenno dei Pixies invece in The Bonzo Bargain e un po’ di Smashing Pumpkins in Spot A Fly
L’atmosfera è più rilassata nelle note riflessive di Spiders In The Trees. Chissà se il verso “Are you just a reflection of another?” si riferisce alla difficoltà di uscire dai ruoli interpretati.
In Masandoia c’è un andamento dai toni più mansueti. È una semi-ballad in stile Lou Reed che poteva terminare con gli archi in crescendo, ma si inasprisce nell’ultimo minuto con distorsioni e fiati, per poi sgonfiarsi nella chiusura.

Ci sono due brani in particolare che sintetizzano la formula adottata sin dagli esordi.
Your Favorite Song, con cambi di umore alla Mr. Bungle, intuizioni zappiane e beatlesiane e un generale accelera-frena-riparti.
The Pageant Thieves, dannatamente glam e cinematografica, con tanto di presentatore, coretti da film d’animazione, risate e versi d’animali, un biglietto d’entrata al solito spettacolo inscenato dal cantante, che chiude il sipario lasciando “l’ultima parola” ad un gatto.


Caleb Landry Jones è un artista che non riesce a trattenere l’urgenza creatività, che recupera “quelle voci nella testa” sfruttando ogni intuizione, come dei fotogrammi sonori che viaggiano nella mente. 
Le sue canzoni hanno sempre una struttura da soundtrack da vecchio film, con variazioni più dure, psichedeliche, freak e sinfoniche, e un approccio che induce l’ascoltatore a non prenderlo troppo sul serio, come suggerisce il miagolio finale di The Pageant Thieves.
In sostanza Hey Gary, Hey Dawn suona diverso, ma rimane intrappolato nella “scena”, magari consapevolmente. 
Corre, rallenta, si trascina e corre di nuovo fino al rush finale, senza troppe pretese. In bianco e nero o a colori, muto o con il sonoro, non importa, farebbe sorridere lo stesso, senza inchinarsi necessariamente al genio. Probabilmente è l’ultima cosa che vorrebbe un tipo come Jones.

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Ty Segall: la recensione di “Three Bells”

  • Three Bells – Ty Segall
  • 26 Gennaio 2024
  • Drag City Inc.

Sembrano ormai lontani anni luce gli esordi garage, con lunghe e ripetute schitarrate rumorose. L’evoluzione verso un rock alternativo sofisticato, notevolmente influenzato dalla psichedelia di beatlesiana memoria, trova pieno compimento in “Three Bells”, un album maturo, completo che consacra una carriera già lunga di un artista non propriamente veterano, ma ormai tra i più influenti della scena alternative. Ty Segall è l’emblema di come un artista possa progredire nel tempo continuando a divertirsi: il suo essere scanzonato dei primi album non si è perso, ha subito una trasformazione, elevandosi ad un livello più alto, non per forza migliore, ma di certo a più ampio spettro.

Se già con i precedenti “Hello, Hi” e “Harmonizer” era facile notare una svolta sonora, quest’ultima opera segna un confine netto con ciò che è venuto prima, alzando notevolmente l’asticella per le produzioni future. Già con i tre singoli “Void”, con un’apertura degna di Steven Wilson, delle dissonanze alla Primus ed una totale rottura intorno alla metà, con echi alla Jethro Tull, l’acida “Eggman” e la beatlesiana “My Room”, si capisce la complessità dell’album e lo stravolgimento del sound precedente.

Sono ben quindici i brani per più di un’ora di musica, aperti dalla dolcezza iniziale di “The Bell” e conclusi dalla più enigmatica “What We Can Do”, dove l’eco psych sixties è veramente preponderante.

Veramente molte le perle di quest’album, a partire dalla più acida “I Hear”, con schitarrate dissonanti che si amalgamano al ritmo cadenzato si fondo, quasi un omaggio a Bowie, così come “My Best Friend”, dove il falsetto del poliedrico artista statunitense si frappone alla durezza delle chitarre. Degna di nota anche “Reflections”, la più ancorata al precedente post-punk, con un cantato influenzato nuovamente da McCartney e soci.

Circa a metà si arriva però al capolavoro, che si distacca da tutti gli altri pezzi, con una struttura blues, sempre di stampo psichedelico, che però sfocia nel new prog, dove emerge la splendida voce di Denée, consorte del musicista. Poco più di tre minuti sperimentali, ma in nessun tratto noiosi. L’album varrebbe l’ascolto anche solo per questo brano.

Più intricata e cupa, ma altrettanto armoniosa, “Watcher”, nella quale Ty Segall si erge a “osservatore, assassino della memoria”. Ma le vette più alte vengono toccate nuovamente con “Repetition”, ossessiva nella musica e nel testo quanto mai “ripetitivo”, e dalla successiva “To You”, dove la psichedelia raggiunge l’apice e tocca nuovamente il progressive rock, accompagnata da un testo teoricamente semplice, ma contorto nella pratica. Altro passaggio perfetto di un album che sfiora l’eccellenza.

Più semplice “Wait”, calma e distesa fino al primo minuto per poi lasciar spazio nuovamente ad un post-punk, che strizza l’occhio nuovamente al Duca Bianco.

La semplicità del testo della canzone dedicata alla moglie (con la semplice ripetizione del titolo, nonché nome della donna, per tutta la durata della traccia) non trova conferma nella musica e nella struttura, composta per gran parte del tempo da una jam di pregevole fattura. Una lettera d’amore quanto meno atipica, ma di sicuro apprezzata.

Si apre quindi definitivamente un nuovo capitolo della carriera del quasi quarantenne americano, in un percorso costellato da molti alti e pochi scivoloni. Ad un passo dalla perfezione, nella speranza che il prossimo step ci stupirà ancora di più.

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