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Depeche Mode: La recensione di “Memento Mori”

  • Depeche Mode – Memento Mori
  • 25 Marzo 2023
  • ℗ Venusnote Ltd. / Columbia Records

Il primo lavoro dei Depeche Mode, dopo la morte di Andy Fletcher, è un viaggio dentro un Synth-Pop “sporcato” da nuove sperimentazioni sonore e tematiche malinconiche, come la morte il poco tempo che passiamo sulla terra. Il loro quindicesimo progetto in studio era rimasto per diverso tempo in bilico, causa dei divari tra Martin Gore e Dave Gahan inizialmente, e causa della morte di Fletcher in seguito. Sebbene la scomparsa di quello che era il collante del gruppo abbia privato i Depeche di un grande musicista, d’altra parte, forse, è proprio la scintilla che ha fatto scoppiare l’incendio, generando uno dei loro migliori dischi dai tempi di “Playing the Angel”. 

Il disco è stato prodotto da James Ellis Ford, produttore storico degli Arctic Monkeys, e Marta Salogni, che ha lavorato a gran parte della discografia dei Glass Animals. 

La prima traccia dell’album “My Cosmos Is Mine” è un miscuglio di distorsioni, stomps e loop industrial. “Non giocare con il mio mondo / Non scherzare con la mia mente”, è il modo in cui inizia questo album, crescendo poi in una traccia politicamente impegnata in “Nessuna guerra, nessuna guerra, nessuna guerra”. In “Wagging Tongue” ci scontriamo con una canzone più melodica, costruita su arpeggi di sintetizzatore e grandissime sezioni ritmiche. “Ti incontrerò al fiume / o forse dall’altra parte”.

“Ghosts Again”, singolo di anticipazione del disco uscito lo scorso 9 febbraio, è un vortice di chitarre e strati su strati di sintetizzatore, “Sappiamo che saremo di nuovo fantasmi” canta l’ormai duo, ritratto nella copertina del singolo intento a giocare una partita a scacchi con la morte, come nel famosissimo film degli anni ‘50 di Ingmar Bergman, “Il settimo sigillo”. “Don’t Say You Love Me”, torna ad un’ambiente più oscuro, rispetto all’ottimismo di Ghosts Again, nonostante sia una canzone d’amore, con la voce cavernosa di Gahan che si abbandona a frasi come: “Tu sarai l’assasino / Io sarò il cadavere / Tu sarai il thriller / Io sarò il Dramma”.

“My Favourite Stranger” si concentra in un testo scarno, che lascia spazio a strati di synth e assoli di chitarra che vagano verso l’infinito, su ritmi più movimentati. In “Soul With Me” ci troviamo catapultati in angeliche melodie orchestrali e cori, con Martin Gore che genera una voce più morbida e melodica. “Caroline’s Monkey” è una delle canzoni che mantiene di più lo stile dei progetti precedenti dei Depeche, andando a prende, come anche nel caso di “Always You”, spunti dalla disco anni ’80. “People Are Good” si rifà ad alcuni spunti di “Music For The Masses”, introducendo suoni stridenti e bassi pulsanti a potenti sezioni ritmiche.

“Never Let Me Go” è minimalista e da Dancefloor, mentre Dave Gahan da sfoggio questa volta di una voce meno cavernosa, supportata da delle voci femminili in sottofondo. “Speak To Me”, chiude questo disco con orchestre campionate e bassi sintetizzati, Gahan torna a quella voce cavernosa che ha mantenuto per quasi tutto il disco. “Parlami, e io ti seguirò / Ti ho sentito chiamare il mio nome / Sdraiato, sul pavimento del bagno”.

Voto: 7/10

/ 5
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Tuesday Music Revival: Violator – Depeche Mode

Depeche Mode – Violator

19 Marzo 1990

℗ Venusnote Ltd. / Sony Music Entertainment International Ltd.

Il 28 Agosto del 1989 “Personal Jesus”, primo singolo che anticipa l’uscita di “Violator” fa capire a tutto il mondo cosa sono diventati i Depeche Mode. Con il loro settimo album in studio, i ragazzi di Basildon, non solo si sono presi il mercato discografico statunitense, che fino a quel momento li aveva snobbati, ma hanno conquistato l’intera scena mainstream, e la cosa più epocale è che l’hanno fatto con le loro regole e con un tipo di musica tutt’altro che mainstream.

Flood In Studio.

Il disco nasce sotto un periodo molto problematico di Dave Gahn, in balia delle dipendenze dalle droghe e della depressione. Il disco viene registrato tra i Logic Studios di Milano e i Puk Studios, in Danimarca. In cabina di regia viene assunto Mark “Flood” Ellis, produttore di Nick Cave And The Bad Seeds, U2, Nine Inch Nails, The Smashing Pumpkins, che aveva aggiunto ai cupi suoni sintetizzati del disco precedente, una scarica Blues-Rock. I grandi alle sessioni di mixaggio venne assunto François Kevorkian, che aveva collaborato, quettro anni prima, con i Kraftwerk.

François Kevorkian

Quello che ha permesso a questo disco di essere così grande risiede, probabilmente, nel fatto che ogni singolo membro ha trovato il suo posto in ogni singola traccia, senza rubare la scena all’altro. Alan Wilder lavorava sugli arrangiamenti e sulle sperimentazioni per trovare suoni nuovi, Dave Gahan dava la voce, Martin Gore scriveva le canzoni e Andrew Fletcher, non era più solo il tastierista del gruppo, ma si occupava anche di tutte le questioni manageriali, su scelta del resto del gruppo. 

La copertina del singolo “Personal Jesus”.

Il suono di basso e i loop campionati con l’Emulator aprono la prima traccia del disco. “World In My Eyes” vede Gahan addentrarsi verso atmosfere sessuali e sensazioni di piacere. In “The Sweetest Perfection”, Gore parla di impotenza e tentazione, una coppia perfetta per una canzone che strizza l’occhio allo stile di vita a base di sesso droga e Rock&Roll. L’intera canzone è un insieme di strati di suoni campionati, mandati in reverse, batterie elettroniche e effetti. “Personal Jesus”, tratta da un libro sulla vita di Elvis Preisley, porta il disco verso atmosfere cupe e irrequiete. Il loop campionato di sospiri, la chitarra di gore e la sezione ritmica martellante ti tengono con il fiato sospeso per tutti i cinque minuti di durata della canzone. 

“Halo” riprende tutti gli stili della prima traccia del disco. Tra i sintetizzatori graffianti e i campionamenti dei violini, la voce di Gahan canta di Bene e Male, ingiustizia e sensi di colpa abbandonati ai piaceri carnali. “Non vedi? / Tutti i lussi dell’amore / Sono qui per te e per me”. Sussurri e loop di sintetizzatore sfocati aprono “Waiting for the Night”. Le voci mescolate insieme di Gahan e Gore aspettano che la notte sopraggiunga, per scappare dalla realtà, in un’atmosfera cupa e apatica. “Sto aspettando che scenda la notte / So che ci salverà tutti”.

La copertina di “Enjoy The Silence”

Il secondo singolo estratto da questo disco, “Enjoy the Silence” è forse la canzone più famosa del gruppo, sicuramente quella più appetibile. Ricca di melodie, pattern di percussioni da club, chitarre colme di effetti e suoni orchestrali, sfociano in un finale minimale, costituito da voci acapella e suoni cavernosi. Il testo esplora la violenza del mondo che circonda Gore, sotto il solito filo conduttore di questo disco, la droga e la sessualità. “Le persone sono inutili / sanno solo fare del male”.

La chitarra di Gore fa esplodere in un graffiante riff “Policy of Truth”, sesta traccia del disco. L’oscurità della traccia, le armonie vocali e uno stile funk, fanno decollare Policy of Truth verso uno dei ritornelli più forti di questo disco. La canzone è intrisa di problemi legati al sesso e del non essere capaci di tirare fuori ogni parte di noi stessi, per paura di apparire sbagliati. In “Blue Dress” i sintetizzatori e i sussurri di Martin Gore si liberano in una ballad mai vista.

In questa foto sono ritratti, fuori dai Logic Studios di Milano, Andy Fletcher, Alan Wilder, Daryl Bamonte, Roberto Baldi (Ingegnere del suono), Martin Gore, David Gahan e Flood.

Nonostante abbia tutte le carte in regola per essere una ballad, il significato del testo è più perverso che amorevole. Il disco si chiude con “Clean”, costruita su un giro di basso “pinkfloydiano” e suoni ambientali riprodotti con i sintetizzatori. L’atmosfera è cupa, costituita da tamburi grossi e stracolmi di riverbero, voci robotiche e gli stessi effetti cavernosi dell’outro di Enjoy the Silence. È la fase di redenzione alla fine di un disco le cui fondamenta sono costituite solo da peccati.

Voto: 9/10

/ 5
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Fontaines D.C.: La recensione di Romance

  • Fontaines D.C. – Romance
  • 23 Agosto 2024
  • ℗ XL Recordings

Sta succedendo di nuovo, vero?

“Di nuovo nell’oscurità” – sono queste le parole che Grian Chatten, frontman della band, ha utilizzato per aprire Romance, il nuovo disco dei Fontaines D.C. a due anni di distanza da Skinty Fia.  Eppure, saranno i richiami allo “Shining” di Kubrick nel video di Romance, o le lucenti melodie di Favourite, ma questo disco sembra apparire tutt’altro che oscuro.

Da quel debutto, Liberty Belle, uscito nel 2017, ne è passata di acqua sotto i ponti. Il quintetto è stato consacrato a salvatore del post-punk con Dogrel nel 2019. Ha sfiorato il Grammy nel 2021 dopo aver pubblicato A Hero’s Death. Lo switch vero e proprio arriva però nel 2022, quando la band tira fuori dal cilindro il suo terzo disco. Skinty Fia è la cosa più completa che abbiano mai fatto, uno dei migliori dischi irlandesi dal 2000 ad oggi e un classico istantaneo. 

Ora la domanda sorge spontanea: Per quale motivo siamo tornati indietro così tanto per parlare del nuovo album? La risposta è nei fili conduttori. Gli scorsi tre dischi erano legati a doppio filo dalla stessa identica visione. Un morboso attaccamento verso la loro terra natia. Mentre su Dogrel Chatten si era scagliato sull’Irlanda – e in particolare su Dublino – sul terzo disco, uscito dopo il loro trasferimento a Londra, la band appariva come tormentata da un insaziabile senso di colpa per aver lasciato quella terra che aveva contribuito a formarli come persone e come artisti. Bene, tutto questo sembra essere solo un lontano ricordo. Ora i Fontaines D.C. sono liberi da quel tarlo, liberi di andare oltre, di esplorare e sperimentare. Su Romance tutto questo è espresso all’ennesima potenza. 

Romance

Come sonorità possiamo dire che la band sembri ripartire dai tratti Shoegaze espressi su Skinty Fia, ma la verità – anche in questo caso – è molto più articolata. Mentre facevano da spalla agli Arctic Monkeys durante il loro tour, tutti i membri del gruppo hanno avuto modo di condividere gli uni con gli altri i generi e gli artisti più disparati. Si passa da Sega Bodega agli OutKast, dai Deftones ai Korn. Spunti sonori che vanno dall’Hip-Hop al Metal, hanno influenzato pesantemente i processi creativi dei cinque membri.

Si sono presi anche del tempo per loro stessi. Grian si è trasferito a Los Angeles e ha fatto uscire il suo disco di debutto da solista. Con Chaos For The Fly si è completamente staccato dalle sonorità cupe dei Fontaines, rifugiandosi nei toni caldi del Pop Barocco e del Folk. Ha scoperto un nuovo modo di scrivere e ha portato la sua voce verso orizzonti che non aveva mai sperimentato. Deegan, il bassista, si è trasferito a Parigi, mentre O’Connell, che insieme a Chatten rappresenta una delle menti più creative del gruppo si è spostato in Spagna. Ha contribuito, insieme a Peter Perrett (The Only Ones) ad alcune sue produzioni, ha esplorato l’arte di arrangiare gli archi e, nel mentre, è pure diventato padre. Poi, come in un film, il disco ha chiamato, e i cinque ragazzi di Dublino hanno risposto. 

Romance è il cambio di rotta più incredibile che una band potesse intraprendere dai tempi di Tranquillity Base Hotel & Casino dei Monkeys e – in un certo senso – ci sono delle sensazioni simili. Non a caso, concluso il sodalizio con Dan Carey, il gruppo si è rivolto a James Ford (Depeche Mode, Arctic Monkeys, Gorillaz), per la produzione. Lui più di tutti sa cosa vuol dire intraprendere un percorso di cambiamenti radicali e, più di tutti, sa come farlo mantenendo intatta l’identità artistica. Tra gli scricchiolii distorti dell’alt-rock anni ’90 e estetiche di primi anni 2000, i Fontaines D.C. suonano come la miglior band a cui potessero mai ispirarsi, loro stessi.

Messo da parte il senso di identità dei lavori precedenti, la band non riesce però a mettere da parte la costante sensazione di degrado in cui si sente immersa. Solo che, invece di abbandonarsi completamente ad essa, questa volta sceglie il distacco. Il disco si sposta verso orizzonti astratti, a metà fra ciò che è reale e ciò che è finzione. Grian e gli altri si tengono in equilibrio fra i due mondi come dei funamboli. E mentre questa pressione, e questa sensazione di degrado sembrano non scrollartisi mai di dosso, la band ci trova dell’amaro Romanticismo.

“Forse il romanticismo è un luogo” – canta Chatten tra inquietanti crescendo e imponenti melodie nella title-track. Su Starburster arriva uno dei momenti più sperimentali del gruppo, dove sezioni ritmiche propulsive e stridenti melodie di Mellotron, fanno da bozzolo per tematiche autodistruttive, prima di abbandonarsi a orchestrazioni barocche. Nato da un litigio tra Chatten e O’Connell, Here’s The Thing schiaccia il piede sull’acceleratore (o sui pedali delle distorsioni). Il brano è ansiogeno eppure alla costante ricerca di un briciolo di desiderio. Desire resta su questo ridondante gioco di ritmiche, delle montagne russe che oscillano fra ritmi narcotizzati e frenetici, abbandonati a tinte shoegaze e sonorità sensuali. 

Le influenze losangeline si avvinghiano a In The Modern World. Tra suoni fortemente ispirati allo slowcore di Lana Del Rey, il brano si addentra in tematiche fortemente politicizzate, che raccontano di un mondo decadente, del fallimento del capitalismo, e della lotta politica sotto un triangolo amoroso nell’occhio del ciclone. La cosa ironica è che non esiste niente di più romantico di tutto ciò. Su Bug emergono le influenze folk che hanno caratterizzato tutto il debutto solista di Chatten, con uno strumming che ricorda vagamente I Love You. L’acusticità viene polverizzata da orchestrazioni e chitarre squillanti, mentre il frontman danza fra due mondi, uno influenzato dai R.E.M. e l’altro dall’era più pop degli Smiths.

Loop e scricchiolanti chitarre acustiche guidano il sentimentalismo di Motorcycle Boy. Ciò che colpisce a questo punto di Romance è ancora una volta il testo. Grian non ha più paura di parlare di sentimentalità, non importa in che ottica. Nonostante il lavoro squisito di tracce come A Couple Across The Way, lo stesso Chatten aveva più volte detto di trovarsi in gravi difficoltà quando doveva scrivere di sentimenti. Bene, sembra aver trovato la sua strada. Sundowner è un’ode all’amicizia scritta e cantata da Conor Curley, mentre su Horseness Is The Whatness tornano, come ai tempi di Dogrel, i riferimenti a Joyce. Essenzialità e Orchestrazioni sono le due parole chiave di questo brano. Il battito cardiaco della figlia di O’Connell (che ha scritto e arrangiato la traccia), si unisce a un crescendo malinconico e allo stesso tempo caldo e avvolgente. 

Death Kink ancora una volta assorbe scelte sonore dai dischi precedenti, salvo poi trasformarle in strutture apocalittiche a sostegno di un testo che analizza in lungo e in largo il risveglio da una relazione guidata dalla manipolazione in un mondo che farebbe rabbrividire Orwell. 

E poi? Forse è meglio non svegliarsi mai del tutto. Il disco si chiude con il jangle-pop a tinte shoegaze di Favourite. Dite la verità, vi siete spaventati quando questa canzone è stata rilasciata come singolo. Avete pensato che i Fontaines D.C. fossero l’ennesima band venduta a chissà quale sistema discografico. Solo dopo aver ascoltato questo disco nella sua interezza realizziamo il suo vero significato. Perché a volte si può trovare del bello anche negli attimi di tristezza. Perché a volte ti è concesso solo arrenderti in balia degli eventi. Come l’amaro Romanticismo di due innamorati che si concedono l’ultimo bacio, mentre il mondo esplode.

5,0 / 5
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Arab Strap: la recensione di “I’m totally fine with it – don’t give a fuck anymore”

  • Arab Strap – I’m totally fine with it – don’t give a fuck anymore
  • 10 Maggio 2024
  • Rock Action Records

Alienazione e cyber addiction sono i temi dominanti di I’m totally fine with it – don’t give a fuck anymore, ottavo capitolo discografico del duo scozzese che all’anagrafe musicale compare con il nome Arab Strap. Una volta consolidata la formula electro post-rock con una personale interpretazione lirica e sonora, Aidan Moffat e Malcolm Middleton avevano messo il progetto in stand by a metà degli anni ‘00, per poi tornare sulle scene nel 2021 con una maturità diversa. Dopo 16 anni è arrivato quindi As Days Get Dark, avviando “la fase 2” che oggi prosegue con dodici nuove tracce.

I'm totally fine with this

Partendo dal titolo (che al suo interno ha due emoticon), la band ha rivelato di aver scelto, senza un motivo preciso, un tormentone condiviso scherzosamente tra gli Arab Strap e i loro strumentisti.
Che sia stato per gioco oppure no, “Sono pienamente d’accordo – non mi importerà più niente” (traduzione sobria) è un titolo in cui chiunque può riconoscersi: guardare una foto o un video per pochi secondi sui social network, distrattamente o neanche per intero, dichiarando apprezzamenti sintetici sotto forma di pollici, cuori, ecc. La “rabbia tranquilla” viene sfoderata da Moffat e socio come un’arma per combattere la battaglia a nome dei nativi analogici (e non solo), diventati oggi “costretti digitali”.

È una collera che si insinua nei brani con forza ed è percepibile già con Allatonceness, le cui chitarre martellano insieme alla batteria scavalcando il muro del post-rock. Rimane la parentesi più aggressiva considerando che, come ha precisato Middleton, ci sono «meno chitarre che in qualunque altro nostro lavoro». Quando qui Moffat canta versi come “I want to suck on a stone”, rimbalza potente il disagio sociale e la voglia di recuperare la genuinità dietro a gesti, pensieri e momenti da vivere per ritrovare sì una connessione, ma con i sensi e l’ambiente circostante.

Per il resto, la rabbia espressa dai contenuti è miscelata con una buona dose di beat in Hide You Fires, BlissStrawberry Moon, dove i Depeche Mode incontrano i Radiohead periodo Kid A/Amnesiac, ma l’identità degli Arab Strap è ormai ben definita, per cui sono riferimenti solo indicativi.
Le tinte dream/dark-wave in You’re not there sfumano un paesaggio desolante in cui si ritrovano in solitudine le vittime del cyberbullismo.

Il dark folk di Safe & Well è il momento più minimale con cui il duo affronta la tematica della morte in solitudine (amplificata da una notizia letta durante la pandemia), mentre brani come Dreg Queen sterzano verso l’attitudine dark-tronica dei Puscifer.
L’andamento decadente della prima parte di Molehills è in pieno stile Arab Strap: note malinconiche e voce calma e profonda che alleggerisce (o aumenta, dipende dall’ascoltatore) uno stato d’animo sofferente. Poi un cambio alla Dave Gahan e il finale in crescendo preso in prestito dalla techno.

La connessione dentro la connessione termina con Turn Off The Light, che nel finale trionfa con un’energica apertura post rock da manuale sbriciolandosi negli ultimi secondi insieme a classici suoni di modem, già ascoltati all’inizio di Allatonceness.

Per ogni fenomeno sociale, l’arte è sempre stata uno dei mezzi con cui analizzare ed esprimere il cambiamento, per cui negli ultimi anni sono aumentate le opere musicali, letterarie e cinematografiche che trattano il tema del mondo virtuale, iperconnesso.
Ognuno a suo modo e con la propria sensibilità. Ad esempio Kim Gordon, con The Collective, lo ha fatto con uno sguardo distopico, gli Arab Strap con “rabbia tranquilla”, dimostrando di aver raggiunto una maturità anagrafica che ha giovato anche al processo creativo, confermandosi una delle band più coraggiose e originali del post-rock. 

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Bar Italia: La recensione di “The Twits”

  • The Twits – Bar Italia
  • 3 Novembre 2023
  • ℗ Bar Italia / Matador Records

Il terzetto londinese è passato da schivare i riflettori ad attirare qualsiasi tipo di luce attorno a sé, nel giro di neanche un anno. A sei mesi dall’ultimo disco “Tracey Denim”, i Bar Italia ritornano con un altro disco, dal titolo “The Twits”, continuando a consolidare il successo in cui sono “incappati”. Ad oggi, il trio composto da Nina Cristante, Jezmi Tarik Fehmi e Sam Fenton, non è più un nome nel calderone del post-punk britannico. Oggi il gruppo ricopre un ruolo importante nella scena, e non solo in Inghilterra. Con il disco precedente, i Bar Italia, sono riusciti ad affermarsi anche oltre oceano, in particolare Los Angeles e New York, i due pilastri dell’alt-rock americano. Anche in Europa hanno riscosso un notevole successo e, strano ma vero, anche in Italia.

“The Twits” ingloba al suo interno una vasta quantità di concetti, idee e suoni. Il gruppo ha volutamente lasciato fuori soggetti esterni e, come per “Tracey Denim”, curano l’intero processo creativo del disco, dalla scrittura alla produzione, scegliendo di affiancarsi, come per il precedente disco, solo a Marta Salogni (Black Midi, Depeche Mode, Bjork), per la post produzione.

La band crea una miscela che va ben oltre il post-punk. Parte da suoni sporchi anni ’90, per poi virare su sonorità più squillanti, sezioni ritmiche velocizzate, alt-country e addirittura contaminazioni shoegaze. La palette sonora perfetta per un disco spettrale, cupo e rugginoso, che vaga in bilico fra frustrazioni e rimpianti. 

Ciò che è più incredibile in questo disco non è la vastità della palette sonora, ma il modo in cui ogni contaminazione riesce a trovare il suo spazio lungo le tredici tracce, senza mai apparire, salvo alcuni particolari, fuori luogo o “scollegato”.

/ 5
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Shame: La recensione di “Food for Warms”

La scena post-punk revival britannica, da cui sono nate band come Fontaines DC, Black Country New Road, Squid (per citarne alcune), ha oramai superato quella fase underground-provinciale, arrivando a trasmettere le proprie onde oltre i confini di Londra. Questo ha condotto i gruppi ad esibirsi in ogni parte del globo, dagli USA al Giappone, dall’Australia all’Europa, passando anche per i principali (e non) festival internazionali. “The Wind of change” è soffiato nel “duemila-e-ventidue”. Album come “Skinty Fia” e “Ants From Up There” si sono distinti per la loro maturità, aumentando così la distanza con i rispettivi esordi, “Dogrel” e “For The First Time”. Con “Food for Worms” gli Shame tentano di cavalcare l’onda del cambiamento, con l’obiettivo di raggiungere l’agognata maturità. 

Anticipato da tre singoli e da un calendario di gigs che da inizio marzo toccherà Europa+America (44 concerti in tre mesi), “Food for Worms” è il terzo album in studio degli Shame. Amicizia, rinascita e la fiducia negli altri sono solo alcuni dei temi trattati dal quintetto inglese, che si pongono in netto contrasto con un titolo dal sapore cinico e nichilista. Contrasto accentuato dall’artwork di Marcel Dzama, artista canadese famoso per le sue rappresentazioni surreali e dai tratti  fiabeschi. La produzione dei brani è passata attraverso il processo delle registrazioni dal vivo. Una prima bozza dell’album era già stata stilata nel febbraio dello scorso anno, periodo in cui la band trascorse circa due settimane in studio per lavorare a del nuovo materiale. Su YouTube possiamo trovare interamente la prima performance degli Shame alle prese con “Everything” (la futura “Six-Pack”) oppure “Fingers of steel”, datata 18 febbraio 2022, nel tempio della scena post-punk revival: il Windmill.

“Let’s be real, most of the bands that you like…they suck!” recita Charlie Steen in uno dei tanti spot promozionali postati su Instragram. “But here at Shame Inc. / We are giving you the rare opportunity to see a band that you like play good music”. La satira e il non prendersi troppo sul serio sono sempre stati tratti distintivi degli Shame. Ne sono la conferma questo ed altri spot pubblicati sui social a ridosso dell’uscita di “Food for Worms”. “L’azienda di Charlie” si è messa ciecamente a disposizione di Mark Ellis (aka “Flood”), già produttore di artisti di calibro internazionale come PJ Harvey, Nick Cave, U2, Depeche Mode e molti altri, che ha portato, come già anticipato in precedenza, una ventata di novità. Le radici rimangono sempre quelle del post-punk a cavallo fra 70s e 80s, con oramai influenze consolidate: “Fall”, i “Pavement”, l’energia della “Bandiera Rosa” oppure il “Wall of sound” dei Sonic Youth.

In “Food for Worms” ci sono momenti di chitarre graffianti (“Alibis” e “The Fall of Paul”), ma anche attimi dove gli Shame si abbandonano a soluzioni più morbide, senza però mai rinunciare ad un drumming martellante, muscoloso. L’arrangiamento di “Fingers of steel” ci fa subito intendere che siamo di fronte ad un mutamento, a partire dalla ricerca vocale di Charlie. “Six-Pack” è una cavalcata garage rock che spazza via tutto, portando via con sé anche i nostri desideri più selvaggi (“Now you’ve got Pamela Anderson reading you a bedtime story”). Lo stile di “Yankees” l’hanno preso in prestito direttamente dai Fontaines DC. Buona performance di Grian Chatten-“ah non è lui?!”. “Well, this time you feel that you’ve been found / But when you look there’s no one around”. “Alibis” ripercorre i territori di “Songs of praise”. Energia pura, uno dei pezzi migliori del disco. Il cameo nascosto di Phoese Bridges nei cori di “Adderall” impreziosisce il brano, ma poco rimane. “Orchid”, una ballata acustica che diverge sul finale in un muro di suono alla Sonic Youth. “Burning my design” segue lo stesso schema della precedente, una vera lezione di dinamica. La voce sofferta di Charlie (“I sold my life for you”) lascia spazio ad un cambio di ritmo che ci porta ad un finale frenetico, saturo, compatto. “Cambi il taglio di capelli, i vestiti, il tuo accento-” enuncia “Different people”. Il ritmo frenetico rispecchia alla perfezione la “smania” del cambiamento, ma conclude: “You say you’re different but you’re still the same”. “The fall of Paul” si rivolge ai ragazzini di oggi, la cui tecnologia ha facilitato la vita. “All the kids and the rats / They seem to scurry and crawl / They’re sliding through the cracks / They’re bound to fall”. “All The People” abbassa il sipario, una canzone dal sapore di “you can’t always get what you want”. Un finale perfetto per questo album. “All the people that you’re gonna meet / Don’t you throw it all away / Because you can’t love yourself” è la dichiarazione di amicizia di un gruppo di ragazzi poco più che ventenni, a cui piace fare musica, o come dicono loro “buona musica”. Ed io sono d’accordo con loro.

Il vento del cambiamento ha toccato anche gli Shame. “Food for worms” ha sicuramente buone soluzioni, tuttavia risulta un album di transizione verso nuovi orizzonti. Ma come si dice in queste situazioni “chi ben comincia è a metà dell’opera”.

Voto: 7/10

/ 5
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