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Tuesday Music Revival: (What’s the Story) Morning Glory? – Oasis

  • Oasis – (What’s the Story) Morning Glory?
  • 2 Ottobre 1995
  • ℗ Big Brother Recordings Ltd. / Sony Music Entertainment UK

E tutte le strade che dobbiamo percorrere sono tortuose 
E tutte le luci che ci portano li sono accecanti 
Ci sono molte cose che vorrei dirti, ma non so come 

Credo non esista frase migliore per riassumere uno dei dischi generazionali più importanti, forse addirittura il più importante, degli ultimi trent’anni. “(What’s the Story) Morning Glory?” è la rivincita dei perdenti, un album che cattura la tensione e l’instabilità di una generazione, tra voci rauche e pesanti riff di chitarra. E se lo fa così bene anche dopo quasi trent’anni, forse è perché quella tensione e quell’instabilità dilagavano prima di tutto dentro le fila della band. Dopo “Definitely Maybe” del 1994, acclamato dalla critica, in “What’s the Story” i sentimenti sono stati inizialmente contrastanti e in gran parte dei casi non molto positivi. Quasi tutti però si sono ricreduti in seguito. 

Il disco è stato registrato in uno studio in Galles in appena quattro mesi, tra marzo e giugno del ’95. Dopo l’abbandono del batterista Tony McCarroll, i fratelli Gallagher e soci ripiegarono su Alan White. Con Owen Morris, che già aveva collaborato al disco precedente, alla produzione, le sessions del disco diventano un tornado di ispirazioni, incredibili doti compositive, e vene creative. 

Il disco si apre con “Hello”. L’iconica progressione di “Wonderwall” frantuma in un riff elettrico schiaffeggiante, composta da distorsioni psichedeliche. Basta arrivare al ritornello per capire chi erano gli Oasis di “Definitely Maybe” e chi sono (e saranno) gli Oasis di “Morning Glory”. “Roll With It” non era stata ben accolta dalla critica, probabilmente perché si trattava solo di una traccia di riempimento o forse perché i diretti interessati di quel “You gotta say what you say / Don’t let anybody get in your way” sono proprio i critici. 

Il momento delle due perle rare arriva praticamente subito, dopo poco più di sette minuti. 

“Wonderwall” mostra per la prima volta fin dove può spingersi la dote compositiva del gruppo. Introduce orchestrazioni sintetizzate, mescolate ad uno dei giri di chitarra più ricordati degli anni 90. È una traccia talmente vaga che a tratti è complicata da decifrare, ma una cosa emerge e anche in maniera piuttosto forte: quando la causa della nostra instabilità siamo noi stessi, tutti cerchiamo la salvezza in qualcun altro.

 

La progressione di piano stile ‘Beatles’ apre il sipario della canzone più importante di questo disco, e forse dell’intera discografia del gruppo. Se la traccia precedente aveva dato prova della grande dote compositiva degli Oasis, “Don’t look Back in Anger” riesce ad andare addirittura oltre. Questa volta, la voce rauca di Liam è sostituita da quella più morbida di Noel, che canta di “rivoluzioni iniziate dal mio letto” fino al lento cadere nell’oblio dell’anima di Sally, la protagonista della canzone. 

Nonostante sia un disco quasi eccellente, purtroppo, anche (What’s the Story) Morning Glory? Ha qualche problema. Dopo l’alta tensione delle due tracce precedenti, il disco si ammorbidisce (concettualmente) con “Hey Now” che fa i conti con il passare del tempo, e con il lato negativo della fama, e “Untitled (Version 1)”, una delirante miscela di leaks blues psichedelici. 

Ed ecco che tornano gli Oasis. “Some Might Say” trova terreno fertile su una pioggia di chitarre cruncy dai connotati Hard-Rock. Tornano vive le pesanti prese di posizione politiche e Noel trova spazio anche per analogie con il paradiso e l’inferno. Il verso “Alcuni potrebbero dire che non credono nel paradiso / vai a dirlo all’uomo che vive all’inferno” ha in realtà poco a che vedere con gli ambienti religiosi. Se la tua vita è perfetta, è facile non credere nell’aldilà, ma se la tua vita è orribile (se vivi all’inferno), credere nel paradiso è l’unica cosa che ti fa andare avanti.

In “Cast no Shadow” la band trova spunti acustici dai tratti blues, a supporto delle armonie vocali dei fratelli Gallagher. È una ballata colma di dubbi esistenziali e leggere linee melodiche squillanti.

“She’s Electric” è un altro punto di stallo del disco. È una botta di ironia scritta da Noel, su una ragazza con cui non vuole impegnarsi. È la canzone in cui l’impronta d’ispirazione dei Beatles emerge di più. 

Il quarto atto del disco torna ad alzare la tensione.

La title track si apre con elicotteri e suoni d’ambiente, prima di introdurre chitarre urlanti e distorsioni. Tra lo stampo hard rock di “Morning Glory”, trovano spazio considerazioni sulla droga, una guerra di potere all’interno del gruppo, in cui Liam sembra avere la meglio. Mentre il disco volge al termine è abbastanza chiaro che a differenza del disco di debutto, in cui il gruppo era più spavaldo, qui si concentra su temi malinconici e esistenziali, guardati con impotenza. 

“Untitled (Version 2)“ è il collante tra “Morning Glory” e “Champagne Supernova”. L’ultimo viaggio, il sogno e il risveglio, il mal di testa mattutino dopo una sbornia colossale. “Champagne Supernova” è la conferma che nonostante molte tracce del disco siano li solo per tappare buchi, poche altre riescono a tenere in piedi tutto l’album. È un vortice di psichedelia muri di chitarra invalicabili sotto una produzione incredibile e lacerante. Mentre la band attraversa il periodo più alto della sua carriera (in tutti i sensi), la canzone sembra quasi preannunciare il loro lento declino. “Champagne Supernova” sbiadisce lentamente mettendo la parola fine ad un classico senza tempo.

Voto: 9.2/10

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Il Mellotron: Genesi del primo campionatore, dall’Avanguardia all’Età Moderna

Girando per i social, i blog del settore e seguendo alcune interviste sulle radio è sempre più evidente la spaccatura che si sta creando nell’industria musicale, fra chi è strettamente convinto che ad oggi il fare musica sta diventando un concetto mediocre (“Fanno tutti musica col computer”) e chi invece considera il progresso tecnologico nella musica, un buon mezzo per creare ottimi prodotti in un modo semplicemente diverso. Dati alla mano, non si può non sposare il secondo punto di vista. La storia del Mellotron è soltanto una delle tante conferme. 

Il Mellotron è uno strumento musicale elettro-meccanico che, dagli anni ’60, periodo in cui è stato messo in commercio, ha rivoluzionato il mondo della musica. Il suo punto forte non era solo quello di avere un suono unico, ma la sua capacità di poter riprodurre il suono di vari strumenti pre-registrati. Andando avanti in questo approfondimento, scopriremo l’evoluzione del Mellotron, dagli anni ’60 fino ai giorni nostri. 

Le Origini

Il Mellotron affonda le sue radici all’alba degli anni ’60, ed è un’evoluzione del Chamberlin, uno strumento elettro-meccanico sviluppato negli anni ’50 da Harry Chamberlin negli Stati Uniti. Una delle figure chiave nello sviluppo dello strumento è stata senza dubbio Robert Fripp (Il fondatore dei King Crimson), che acquistò da Chamberlin i diritti sulla produzione e fondò la Bradmatic Ltd. Fu così che, nel 1963, l’azienda lanciò il primo modello di Mellotron, il Mark I. 

Mellotron
Prima Versione del Mellotron

Lo strumento si basava sull’utilizzo di suoni pre-registrati di strumenti come archi, flauti e cori, che venivano incisi su nastri magnetici. Ogni tasto del Mellotron attivava un piccolo nastro su cui scorreva una testina in grado di riprodurre il suono desiderato. Fu un successo incredibile, poiché il Mark I era sinonimo di semplicità. Da quel momento in poi, ogni musicista poteva avere una gamma di suoni orchestrali in uno spazio relativamente ridotto, senza dover scomodare un’intera orchestra.

L’Età d’Oro: Gli Anni ’60 e ‘70

Complice le rivoluzioni musicali sul finire degli anni ’60, la psichedelia e il rock progressivo, il Mellotron divenne il fiore all’occhiello delle più importanti band dell’epoca. I Moody Blues, i King Crimson e più tardi i Rolling Stones adottarono lo strumento, contribuendo a definirne il suono caratteristico. C’è però forse un punto di svolta più visibile, ed è quello di “Strawberry Fields Forever” dei Beatles. Il flauto riprodotto dal Mark I nell’intro della canzone, fu uno degli esempi più celebri dell’utilizzo di questo strumento. 

John Lennon suona il Mark I (anni 60′)

Influenze del Mellotron nel Rock Progressivo

Il Mellotron divenne un elemento chiave del rock progressivo, un genere musicale che cercava di espandere i confini del rock tradizionale incorporando elementi della musica classica, jazz e avanguardia. Band come i Genesis, gli Yes e più tardi i Pink Floyd sfruttarono le capacità dello strumento per creare strutture sonore complesse e stratificate. Nel caso dei Genesis, ad esempio, Tony Banks utilizzava il Mellotron per dare profondità e atmosfere alle composizioni. Per gli Yes invece, ricopriva una carica molto più importante all’interno degli arrangiamenti. 

Declino e Riscoperta

Con la digitalizzazione, l’evoluzione del modo di fare musica e i sintetizzatori negli anni ’80, il Mellotron perse gradualmente il suo posto di rilievo. I nuovi strumenti digitali offrivano una maggiore versatilità, oltre che un’elevata facilità d’uso, portando i musicisti a preferirli al Mellotron. Nonostante tutto, la nostalgia per il suono dello strumento non si è mai veramente spenta. Gli anni ’80 fecero salire alla ribalta synths come il Fairlight CMI e il Synclavier, che offrivano una gamma più alta di suoni e una precisione maggiore nel campionamento. Questi strumenti permisero ai musicisti di esplorare nuove sonorità, di ridurre la dipendenza di strumenti elettro-meccanici complessi e di gran lunga più costosi. Nonostante tutto, il calore, l’imperfezione e il fascino del Mellotron rimasero profondamente radicati nel modo di fare musica di alcuni musicisti.

Revival

Tra gli anni ’90 e 2000, lo strumento tornò nuovamente sotto gli occhi degli addetti ai lavori in campo musicale. Il Mellotron venne aggiornato, furono inseriti nuovi suoni e, piano piano, ci fu una digitalizzazione dello strumento stesso. In Inghilterra, durante il movimento ‘Cool Britannia’, negli anni ’90, band come Oasis e Radiohead, portarono nuovamente il Mellotron alla ribalta, in contemporanea alla rinascita di strumenti analogici e del vinile. 

Johnny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, in studio con una delle prime versioni dello strumento

Il Mellotron Oggi

Oggi, il Mellotron è considerato un pezzo di storia della musica e continua ad essere utilizzato in studio e dal vivo. La Streetly Electronics, una delle aziende originali produttrici del Mellotron, continua a fabbricare e restaurare questi strumenti. Inoltre, sono disponibili versioni digitali del Mellotron, che offrono la possibilità di riprodurre i suoni iconici dell’originale con la comodità della tecnologia moderna.

Le versioni digitali del Mellotron, come il M4000D, mantengono il carattere sonoro distintivo dell’originale, ma eliminano le problematiche legate alla manutenzione dei nastri e delle componenti meccaniche. Questi strumenti moderni sono dotati di una libreria di suoni che include tutte le registrazioni originali del Mellotron, offrendo ai musicisti una vasta gamma di possibilità creative. Inoltre, i plug-in software per computer permettono di emulare il suono del Mellotron, rendendolo accessibile a un pubblico ancora più ampio.

L’Eredità del Mellotron

L’influenza del Mellotron si estende anche oltre la musica. Il suo suono distintivo ha segnato colonne sonore di film, spot pubblicitari e videogiochi, contribuendo a creare ambientazioni suggestive e coinvolgenti. La sua capacità di evocare emozioni e di creare atmosfere uniche lo rende ancora oggi uno strumento prezioso per molti musicisti e produttori. Il Mellotron è stato utilizzato in una vasta gamma di generi musicali, dal rock progressivo alla musica elettronica, dal pop al metal, dimostrando la sua versatilità e il suo fascino duraturo.

La storia del Mellotron è un viaggio affascinante attraverso l’evoluzione della musica e della tecnologia. Forse è lo strumento musicale che più incarna la definizione di evoluzione nell’ambito del fare musica. Dal suo debutto negli anni ’60, attraverso il declino con l’avvento dei sintetizzatori digitali, fino alla riscoperta e alla celebrazione moderna, il Mellotron ha dimostrato di essere un simbolo di innovazione e creatività. La sua eredità continua a vivere, influenzando nuove generazioni di musicisti e affascinando gli appassionati di musica di tutto il mondo. La sua storia è un tributo all’innovazione, alla passione e alla creatività che caratterizzano il mondo della musica.

Il Mellotron è più di un semplice strumento; è un simbolo di un’epoca e di un modo di fare musica che continua a ispirare e a emozionare, dimostrando che il vero valore dell’arte risiede nella sua capacità di evolversi, adattarsi e sopravvivere al passare del tempo. La sua storia dovrebbe essere una lezione, per chi oggi, non concepisce le nuove modalità del fare musica.

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Tuesday Music Revival: Radiohead – In Rainbows

  • Radiohead – In Rainbows
  • 10 Ottobre 2007
  • ℗ LLLP LLP / XL Recordings Ltd.

Più attuale che mai è il dilemma dell’importanza che riconosciamo alla musica. Ad oggi, per esempio, è sempre più sicuro che Spotify alzerà il prezzo dell’abbonamento per poter usufruire del suo catalogo musicale. È l’ennesimo rialzo degli ultimi due anni e, tra lo scontento generale, viene da farsi una domanda. Al di là delle piattaforme di streaming, qual è il valore della musica dal punto di vista degli ascoltatori?

Questa è una domanda vecchia, risalente forse al momento in cui al centro del ring, non c’erano Spotify e gli artisti, ma le etichette discografiche e i download illegali da PirateBay. Già allora le persone tentavano di poter avere la maggior quantità di musica possibile, spendendo il meno possibile. Nella maggior parte dei casi scaricandola illegalmente. Anche li qualcuno iniziò a porsi la medesima domanda. I Radiohead cercarono di arrivare ad una risposta. Il 10 ottobre del 2007, la band della contea di Oxford, pubblicò “In Rainbows” sul web, senza etichetta e dando agli utenti la possibilità di scegliere quanto pagare il disco (anche zero). Il risultato? Una buona parte degli utenti (circa il 60% stando a quanto riportato dalla società di monitoraggio dati ComScore) ha deciso di scaricare l’album gratis. 

In Rainbows
Foto di Gie Knaeps

Non erano certo i primi ad aver preso in considerazione questa scelta, che nel loro caso si è dimostrata una manovra di marketing eccellente, ma sono stati sicuramente quelli che hanno influito di più, complice la loro grande copertura mediatica. Parlando di musica però, ciò che colpisce in “In Rainbows” è il ritorno della band di Tom Yorke, alle proprie sonorità iniziali. Dopo “The Bends”, dal 1995 in poi, il gruppo aveva messo da parte le gran parte dei suoni che avevano forgiato i primi due dischi, in favore di sperimentazioni elettroniche. Sempre in maniera magistrale, ogni lavoro, da “Ok Computer” fino a “Hail to the Thief”, sembrava essere concepito per superare i confini raggiunti in ogni disco precedente. Ha funzionato divinamente in tutti gli album, sparando la band in universi post-apocalittici, fatti di sonorità sci-fi.

Arrivati al 2007, però i Radiohead sembrano ormai stanchi per le sperimentazioni. Con In Rainbows, è ora di tornare dove tutto è iniziato. Più o meno. E dico ciò perché nonostante tutto, l’utilizzo delle componenti elettroniche non abbandonerà mai più la band, ricavandosi il suo posto perfetto, in un progetto inciso profondamente nella storia della musica. Liberati dal fardello dell’innovazione, complice anche il percorso da solista di Tom Yorke, tornano a suonare, recuperano il senso della melodia e una forma-canzone più chiara, pur mantenendo la loro natura eclettica, che farà da vero e proprio collante per le 10 tracce del disco. 

Il cambio di direzione non è immediato. Il primo minuto di “15 Step” suona come se la traccia fosse appena uscita da una delle sessions di “Kid A”. Gli scrosci e le drum machine sembrano i padroni incontrastati della traccia, ma quando il basso e la chitarra dei fratelli Greenwood fanno capolino, la band cambia volto immediatamente. Sembrano suonare nuovamente come un quintetto. Questa sensazione si assapora ancora di più nei suoni sporchi di “Bodysnatchers”, dove la potente rappresentazione della monotonia, si scontra con un arrangiamento fuori da ogni schema. Non sentiremo mai un alternarsi di versi/ritornelli. Tutto si svilupperà su un crescente stato di tensione. Al culmine, un assolo esplosivo, prima che la traccia si dissolva nel nulla.

Loop in reverse, vocalizzi e strati di Synth, creano un’atmosfera strappa-cuore in “Nude”. Torniamo ad alcune soluzioni sonore lasciate indietro ai tempi di “Pablo Honey, ma se una volta sarebbero spuntati, prima o poi, dei powerchords graffianti, qui è tutta un’altra storia. I suoni sono soffici e le voci di Yorke, talmente leggere da sembrare quasi sussurrate. Gli swing di batteria crescono appoggiati ai cambi di ottava sugli arpeggi di chitarra di “Weird Fishes / Arpeggi”, confluendo nel post-rock di “All I Need”. La conclusione del primo lato di questo disco è qualcosa di incredibile. Il vero protagonista della traccia è il rumore. Esso aumenta e diminuisce ripetutamente, mentre le melodie, il piano e i suoni di Glockenspiel, danzano insieme alle voci di Tom. Ma il rumore resta li, intrappolato fra riverberi e synth acidi, pronto a tornare protagonista, ogni volta che smetti di prestargli attenzione.

“Faust Arp” elimina ogni accenno di componenti elettronici. Gli arpeggi di chitarra giocano dolcemente con orchestrazioni maestose, in una traccia che mai ti saresti aspettato in questo disco, in cui la cupezza delle strofe si apre in intermezzi colmi di brillantezza. Negli spunti jazz della sezione ritmica di “Reckoner”, Yorke crea delle intricate linee vocali, mentre parla a cuore aperto al mondo. Sulla morte, sulla ricchezza, su tutto ciò che non si può evitare. Sono sfaccettature, trattate anche in “Weird Fishes” e “15 Step” che in un certo senso contribuiscono a legare il disco. La sporcizia e la dolcezza si equivalgono negli accordi di “House of Cards”. Tra lunghi riverberi e vocalizzi, la traccia disegna uno spiraglio di dolcezza che ancora non si era visto su “In Rainbows”, prima di scomparire nelle profondità riverberate del disco.

In “Jingsaw Falling Into Place”, il cielo si scurisce mentre la band affonda il piede sull’acceleratore. Entriamo in contatto ancora una volta con una struttura d’arrangiamento che è ormai diventata lo standard del disco. Un crescente stato di tensione su una traccia priva di ritornelli e in costante sviluppo. Tornano a farsi sentire anche i sintetizzatori…e sono più forti che mai. E poi, Click. Tutto si spegne. Gli ampi ambienti si restringono.

Ci sono solo Tom Yorke e un piano. A poco a poco entreranno anche tutti gli altri componenti, ma il primo momento di “Videotape” è un qualcosa che non si sentiva dai tempi di “The Bends”. È un momento di autoanalisi. Yorke sa che quando tutto si spegnerà, quando anche lui dovrà morire, ciò che resterà sulla terra non sarà altro che una videocassetta (e una sfilza di capolavori). Mentre la sua voce si allontana, la sezione ritmica prende il sopravvento, conducendo la traccia, e il disco, verso la fine. 


Se ti piacciono i Radiohead, potresti trovare interessanti: David Bowie, The Smiths, Oasis

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Dua Lipa: La recensione di “Radical Optimism”

  • Dua Lipa – Radical Optimism
  • 3 Maggio 2024
  • ℗ Radical 22 / Warner Records UK

Quando all’inizio dell’anno avevano iniziato a circolare le voci del suo nuovo disco, le aspettative si erano infuocate in un battito di ciglia. Il cambiamento radicale ai connotati del pop durante il 2020, aveva fatto di “Future Nostalgia” un secondo debutto, e di Dua Lipa uno dei punti di riferimento del pop mondiale. In appena quattro anni, sembra che tutto sia sparito. Con l’uscita di “Houdini”, alla fine del 2023 parevano esserci tutti i presupposti per un secondo album trend-setter, ma il singolo si è rivelato solo una delle poche tracce salvabili di “Radical Optimism”.

Dopo aver reso noto il nome, la pretesa che potesse diventare un ennesimo spartiacque nel mainstream, è diventata sempre più forte, sulla scia ottimistica portata avanti dalla stessa Dua, che aveva ammesso di aver tratto ispirazione dal Britpop degli Oasis, e addirittura dai Massive Attack, per la realizzazione di questo album. Beh, mi dispiace deludervi, ma in “Radical Optimism” non sentirete nulla di tutto ciò. Se Dua Lipa si è ispirata a qualcuno per questo disco, quel qualcuno è sé stessa. Non fraintendetemi, non è un crimine, ma in questo caso i banger pop di “Future Nostalgia” non hanno portato a niente di buono sulla consistenza del suo terzo disco. 

Radical Optimism

Il colpo di genio non arriva nemmeno dal punto di vista melodico e degli arrangiamenti né Kirkpatrick, suo produttore di lunga data, né Harle, che avevamo apprezzato lo scorso anno sulla produzione del disco di Caroline Polachek sono riusciti a trovare la via giusta per questo disco, nemmeno con l’aiuto di Kevin Parker (Tame Impala).

Le atmosfere da club di “Houdini” e i richiami alla Golden Era della disco music di “Whatcha Doing”, riescono nel loro obbiettivo di trainare il disco, ma risultano due delle poche tracce veramente interessanti del disco. Anche le tracce più scoppiettanti, come “Training Season” e “French Exit” non riescono ad arrivare ad un risultato sperato. “Illusion” rientra in quelle poche tracce che salvano il disco. L’atmosfera dance anni ’90 si fonde perfettamente con gli stili pop di Lipa. Questo è forse l’unico caso in cui l’artista crea un suono che fino ad ora non ci aveva mai proposto. Le voci agrodolci spalmate sulle chitarre acustiche di “These Walls” si dimenticano non appena la traccia arriva al termine. Purtroppo è il destino di quasi tutte le altre tracce del disco, eccezion fatta, forse solo per “Happy For You” che trova la sua forma migliore solo nel momento del ritornello. 

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Arctic Monkeys: la recensione di “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”

  • Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not
  • 29 Gennaio 2006
  • ℗ Domino Recording Co Ltd986 A&M Records

A maggio 2005 quattro ragazzini di Sheffield si ritrovarono sbattuti sulla copertina del mensile di musica più importante del Regno Unito, l’NME. Con alle spalle soltanto una piccola raccolta di demo, la band rock britannica Arctic Monkeys formata da Alex Turner, Jamie Cook, Matt Helders, Nick O’Malley e Andy Nicholson – il quale lasciò il gruppo l’anno successivo – capì di avere qualche speranza di emergere in mezzo ai numerosi gruppi compatrioti del periodo.

Fu così che nell’estate del 2005 la band firmò con la casa discografica indipendente Domino Records, che l’anno successivo pubblicò il loro primo vero album dal titolo Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not. Il successo ottenuto fu senza precedenti sia per il numero di copie vendute in Gran Bretagna (364.000 solo nella prima settimana), sia per lo stupore che destò quando si scoprì che una band così poco navigata nell’industria di quegli anni superò record detenuti da gruppi ben più esperti, uno fra tanti gli Oasis.

Il filo conduttore delle 13 tracce che compongono l’album è rappresentato dall’arroganza e dalla fierezza con cui Turner canta i testi. Niente morale, solo grandi dosi di sarcasmo e titoli schietti, elementi che arrivano diretti a quel pubblico che da sempre ama le provocazioni di chi non ha paura di parlare di ciò di cui non è consueto parlare. Ovviamente per il Regno Unito non c’erano novità nel genere proposto dagli Arctic Monkeys, ma la loro carta vincente fu la capacità di cogliere e accogliere le necessità della loro generazione traslandole in musica rock grintosa, attraverso cui potersi esprimere urlando a squarciagola i testi ribelli e vincenti.

Il brano d’apertura s’intitola The View From the Afternoon. Qua troviamo Turner che dice “I want to see all of the things that we’ve already seen”, per poi introdurre – nelle canzoni successive – personaggi che conducono vite insolite ed incasinate: poliziotti insoddisfatti del proprio lavoro che si sfogano su minorenni ubriachi, risse nate prima di entrare in un club, buttafuori violenti. Il tutto va a dare vita ad un concept-album incentrato su squarci di vita notturna dei giovani clubber dell’Inghilterra del nord tra alcool, aneddoti da pista da ballo, riti sociali e voglia di uscire dagli schemi. L’obiettivo dei personaggi del frontman, però, non è scappare da quella metropoli che li devasta ma è restare vivi in mezzo al caos.

Ciò che trasmette all’ascoltatore quella sensazione di imprevedibilità e di potente emotività non sono solo i testi espliciti, ma anche gli arrangiamenti mutevoli, scostanti, bizzarri proprio come le squilibrate avventure notturne vissute da quei personaggi che prendono vita canzone dopo canzone.

La seconda parte del disco viene introdotta da Riot Van. Alla violenza dei testi e all’arroganza delle chitarre –  che fino ad ora hanno dato vita a tracce esplosive come I Bet You Look Good On The Dancefloor – si unisce un velo di drammaticità, mischiato ad un pizzico di romanticismo. Lo sentiamo in Red Light Indicates Doors Are Secured, ma anche in When the Sun Goes Down dove viene raccontata nel dettaglio la vita delle prostitute di provincia e dello sfruttamento subito.

“He told Roxanne to put on her red light / It’s all infected, but he’ll be all right” canta Alex Turner con un tocco di tenerezza per la condizione amara della donna, che come tutti i suoi personaggi cerca solamente di rimanere in equilibrio su quel terreno al momento impervio, nella speranza di sopravvivere.

Gli Arctic Monkeys riassumono tutto quello che è stato ritratto fino ad ora – come un vero e proprio dipinto – nella lunga e conclusiva A Certain Romance. In Turner convivono sentimenti contrastanti: attrazione e ribrezzo, simpatia e pena per la vita che conducono i suoi controversi protagonisti di Sheffield. Si tende a romanticizzare certi vissuti, almeno fin quando non sono nostri, ma il cantante della band britannica ci dice chiaramente “The point’s that there isn’t no romance around there”. Non c’è romanticismo al termine di questa bella ma cruda narrazione di vita, però siamo ancora vivi e questo ci basta per sapere che vale la pena tirare avanti.

Diciassette anni e sei dischi dopo, gli Arctic Monkeys non sono solo una band di successo ma sono una di quelle band che la storia l’ha scritta con pennarello indelebile ovunque fosse possibile farlo: sulle classifiche, sui palchi di tutto il mondo, nelle menti e nei cuori di quegli adolescenti divenuti ormai uomini e donne. Tutto questo è avvenuto grazie alla lealtà verso quel sound che gli ha permesso di scalare le vette ma, soprattutto, per l’assenza di paura nel rimanere freschi, al passo coi tempi, mettendo in atto cambiamenti che conferiscono loro quel tocco di innovatività ma rimanendo pur sempre fedeli a loro stessi.

Voto: 9.5/10

5,0 / 5
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