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The Music Revival Week: Pink Floyd – Wish You Were Here

  • Pink Floyd – Wish You Were Here
  • 12 Settembre 1975
  • ℗ Harvest Records / Columbia

Riesci a distinguere un campo verde da una fredda rotaia d’acciaio?

Siamo solo due anime perdute che nuotano in un acquario, anno dopo anno /
Correndo sullo stesso campo, cosa abbiamo trovato? /
Le stesse vecchie paure

Nel 1975 i Pink Floyd si trovavano in un punto cruciale della loro carriera. Gli anni psichedelici di “The Piper” e “A Saucerful of secrets” erano ormai storia vecchia. Con Gilmour la band aveva subito una battuta d’arresto in “Ummagumma”, ma poi… Dal 1970 i Pink Floyd avevano messo in fila una serie di capolavori di sperimentazione e progressive-rock, arrivando al vero punto cruciale, “The Dark Side of The Moon”. “The Dark Side” creò delle aspettative estremamente difficili da rispettare, eppure, due anni dopo, a settembre del 1975, “Wish You Were Here” riesce non solo a rispettarle, ma anche a superarle.

La prima scintilla del disco avvenne nel 1974, durante il tour europeo. Furono scritte e composte tre suite, le prime due, inizialmente chiamate “You Gotta Be Crazy” e “Raving and Drooling” vennero messe da parte e riprese durante la stesura del disco successivo, con il nome di “Dogs” e “Sheep”. Il terzo componimento fu il punto focale del disco, il perno attorno cui ruota l’intero disco. Come per i lavori precedenti, i crediti della produzione del disco vengono associati a tutta la band, che chiese aiuto a Brian Humphries, già collaboratore dei Floyd, nella colonna sonora del film More. 

Pink Floyd, Wish You Were Here Desert Man in Bowler (right-hand), Back  Cover, 1975 | San Francisco Art Exchange

Prima di andare avanti con l’analisi delle tracce, occorre aprire una parentesi, per comprendere meglio il significato del disco e perché, per certi punti, è addirittura meglio di “The Dark Side Of The Moon”.  Questo disco è di estrema importanza perché rappresenta il momento esatto, nella carriera dei Pink Floyd, in cui chiuderanno per sempre una porta. Quella porta ha un nome, e si chiama Syd Barrett. Dopo la rottura con Barrett, dovuta ai suoi problemi di salute, e il successivo ingaggio di David Gilmour (peraltro suo amico), la band non era mai riuscita a mettere da parte il suo vecchio frontman. Il suo fantasma è stata una presenza fissa all’interno dei dischi dei Pink Floyd fino a “Wish You Were Here”.

Il disco è a tutti gli effetti una lettera di addio di 44 minuti a Syd. Ma i Floyd non chiudono solo con lui concettualmente. Nel maggio del 1975, mentre la band era impegnata al mixaggio del disco, agli Abbey Road Studios, si presenta un uomo. È Barrett, senza capelli, ne sopracciglia, entra in sala di mixaggio, ascolta la suite di “Shine on You Crazy Diamond”, senza capirla, non dice nulla, si gira e va via. Quella fu l’ultima volta che i Pink Floyd lo videro. 

Il disco è il secondo concept album del gruppo e, mentre “The Dark Side Of The Moon” si concentrava su tematiche come lo scorrere del tempo, la paura della morte, ma al contempo quella di vivere (anche se non percettibile), questo disco vaga fra tematiche in qualche modo più sensibili al tatto. Attorno all’anima di Syd Barrett, non ruota solo la pazzia, la band esplora la perdita in maniera più profonda, e la macchina da soldi che l’industria discografica rappresentava in quel periodo. 

The Story of Pink Floyd 'Wish You Were Here' - Classic Album Sundays

L’intro delle prime 5 sezioni di “Shine on You Crazy Diamond” è un’iconica sovrapposizione di synth VCS3. I suoni ambientali di Wright conducono verso una tavolozza di suoni sperimentali infinita. Gilmour si districa perfettamente tra suoni clean e distorsioni, gli organi psichedelici che vibrano nei momenti di alta tensione. Quiete, tempesta, e ancora quiete. Prima che l’assolo di Gilmour conduca alla parte cantata. I Pink Floyd non erano sicuramente nuovi a suite di questo tipo, ricordiamo ‘Echoes’ e ‘Atom Heart Mother’.

Ma in questo caso, la band è riuscita a portare un ascolto molto impegnativo, in termini di durata (ricordiamo che la suite completa dura quasi 26 minuti), alla portata di tutte le orecchie senza scendere a compromessi. Il sax di Dick Parry, si dissolve in un vortice di allarmi, treni, spruzzi di vapore e, piano piano, un suono ripetuto di sintetizzatore. Le chitarre acustiche vanno da una parte all’altra degli speaker e, tra gli avvolgenti synth di Wright si libera la voce di Gilmour. “Va tutto bene, ti abbiamo detto cosa sognare”, canta in un urlo strozzato di ribellione.

È forse la traccia del gruppo che meglio descrive il sentimento di disprezzo che i quattro hanno nei confronti di tutte quelle aziende dell’industria discografica che hanno come unico scopo quello di spremere gli artisti per ricavarne il più possibile, in termini di guadagno. La traccia si ferma, lasciando un solo allarme, e poi gli schiamazzi della folla. 

Il primo lato del disco si chiude con solo due tracce.

Ad aprire il secondo lato del disco è “Have a Cigar”. Se gli argomenti riprendono quelli della sua traccia precedente, produzione e arrangiamenti vanno da tutt’altra parte. I VCS3 si assottigliano, surclassati da organi e piani elettrici. Anche la batteria di Nick Mason assume più importanza. La chitarra di Gilmour trasuda effetti e sembra quasi sfidare a duello la voce di Roy Harper. La canzone non attacca le industrie discografiche, ora il gruppo se la prende proprio con gli individui che le gestiscono. 

Tra i discorsi usciti dalle piccole casse di quella che sembra una vecchia radio, emerge la chitarra di Gilmour. L’intro di “Wish You Were Here” così difficile da dimenticare apre le porte ad una canzone che analizza la perdita (di Barrett) fin nei meandri più nascosti. Ne guarda tutte le sfaccettature e i suoi lati più impercettibili. La traccia torna all’interno di quella piccola vecchia radio, come se i 5 minuti precedenti altro non fossero stati che frutto della nostra immaginazione. 

Syd apre il disco, ed è giusto che lo chiuda anche, ecco perché l’ultima traccia di “Wish You Were Here” è la seconda parte di “Shine On You Crazy Diamond”, che riprende esattamente da dove si era interrotta circa 18 minuti prima. Inizia con un giro di basso corposo, alla guida dell’orchestra di synth di Richard Wright. Le ultime quattro parti della suite sono pura e dilagante pazzia, prima che il rock psichedelico prenda colori funk. Poi di nuovo il tema principale della suite esce dalla Stratocaster di Gilmour. E poi ancora calma, e le voci. Poi di nuovo uno pseudo funk guidato dal clavinet di Wright. Infine tutto si assottiglia, quella sarà la vera fine dei Pink Floyd con Barrett tra le loro fila. Gilmour e Waters, hanno scritto quasi tutte le tracce insieme, a dimostrazione di tutto ciò che c’era tra loro due e Syd.

Harry Wadsworth Longfellow scrisse che non si può mai guardare tristemente al passato, perché tanto non tornerà.

Con la fine di “Wish You Were Here”, i Pink Floyd realizzano che non si può sempre guardare indietro e che l’unico modo per andare avanti è lasciare Syd in quel passato che non tornerà mai. 

Voto: 10/10

/ 5
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Tuesday Music Revival: Pink Floyd – “The Dark Side of The Moon”

  • Pink Floyd – The Dark Side of The Moon
  • 1 Marzo 1973
  • ℗ Parlophone Records Ltd. / Warner Music Group Company

Enigmaticità, abbandono alla pazzia, lo scorrere inesorabile del tempo. Vita, crescita e morte di uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi. “Dark Side” è stato l’ottavo album in studio del gruppo britannico ed il loro primo concept album, unico sotto tutti i punti di vista, a partire dalla raffigurazione del prisma che frammenta il fascio di luce che lo attraversa dividendolo in tutti i colori dell’arcobaleno, passando per le sperimentazioni sonore, fino ad arrivare agli argomenti trattati. Uno dei punti forse che rende questo disco così affascinante per le persone vive proprio dentro gli argomenti che i Pink Floyd vi hanno lasciato incisi sopra: Lo scorrere della vita, il percorso fisico e mentale di ogni individuo, l’essere parte di una società che corre troppo rispetto alle persone, la paura di impazzire ed infine, la morte. Quest’ultima viene descritta come una cosa positiva, contrariamente a quello che si può pensare. Lo scorrere del tempo, con tutti i suoi lati negativi e positivi (forse), ha anche un’altra incidenza su questo album, ne modella il significato in base all’età dell’ascoltatore. Ogni persona percepisce delle differenze nelle canzoni di questo disco, perché esso non è nient’altro che lo specchio del tempo che ognuno di noi ha passato su questo pianeta e le esperienze che ha vissuto.   

Dal punto di vista musicale, “The Dark Side Of The Moon” è molto più fruibile, ad eccezione di “On The Run” probabilmente, rispetto a gran parte dei loro lavori precedenti, come “Atom Heart Mother” o “Meddle”. Il quartetto di Londra abbandona gli arrangiamenti infiniti, concentrandosi su tracce più corte e tipi diversi di sperimentazioni sonore, generando un tipo di musica che fa vivere ad ogni ascoltatore il suo viaggio dentro la propria mente, fra le incertezze del futuro e la nostra inevitabile morte, unica cosa che accomuna davvero tutti gli esseri umani. Le sessioni di registrazione si sono tenute agli Abbey Road Studios tra Maggio 1972 e Febbraio 1973. Il disco venne prodotto da loro quattro, con l’aiuto di Alan Parsons, che diede degli spunti per alcune tracce. 

“Speak To Me” getta le basi per tutto ciò che verrà dopo. La dissolvenza in ingresso introduce un battito cardiaco, seguito da un insieme di effetti sovrapposti: urla, risate isteriche tratti di discorsi riguardanti la pazzia. L’apice della traccia arriva un attimo prima della sua fine, con la strillante voce di Clare Torry, che avrà un significato più forte in “The Great Gig In the Sky”. “Breath” è una canzone più leggera, costituita da morbide linee di basso e sezioni ritmiche, che lasciano lo spazio alle sperimentazioni di Gilmour, tra chitarre stracolme di effetti e lap steel. Gilmour da anche la voce a questa traccia, nel testo sono contenuti tutti i concetti che verranno approfonditi nelle tracce successive. Quello sicuramente che colpisce di più riguarda la metafora del coniglio che a ritmi frenetici scava un buco e, una volta terminato, si precipita a scavarne un secondo e così via per il resto della sua vita. “On The Run” comincia con ticchettii frenetici, e un suono che ricorda vagamente quello di un treno a vapore, una voce, sembra quella di un’operatrice di un aeroporto recita “Vivi per oggi / il domani è andato”, la tensione crescente culmina con il suono di un aereo che si schianta.

“Time” vede il contributo di Alan Parsons nei suoni di orologi e allarmi iniziali, d’altronde, come può una canzone che si chiama Time non avere dei suoni di orologio. L’atmosfera di questa canzone è cupa, anche in questo caso c’è una tensione crescente che culmina in due parti, la prima con l’allarme e il suono delle sveglie, la seconda con l’ingresso in scena di tutti gli strumenti, preceduto da una serie di fill di rototom di Nick Mason. Pattern di chitarra blues nascondono un testo sullo scorrere inevitabile del tempo. Il tempo viene paragonato ad una canzone, che ha un inizio ed una fine. Un altro concetto, che diventerà poi molto ridondante nella discografia dei Pink Floyd riguarda la “Quiet Desperation”. In questa canzone è come se Gilmour dicesse che l’unico modo che conosce per sopravvivere all’accorciarsi del tempo a disposizione man mano che invecchiamo, senza diventare pazzi è “aggrapparsi alla quiete della disperazione”.  “Time” torna cupa verso la fine, per andare ad incontrare la traccia successiva in una leggera melodia di pianoforte. “The Great Gig In The Sky” è sicuramente una delle canzoni più criptiche della band. Nasce da una progressione di accordi di Richard Wright, la sezione strumentale è piuttosto semplice, per lasciar spazio alla voce di Clare Torry, che cantando solamente una specie di lamento, trasforma la canzone in una montagna russa emotiva che viaggia attraverso la vita e la salute mentale umana. Il principale significato della canzone riguarda principalmente il rapporto delle persone con la morte, descritta quasi come una cosa buona. “Non sono spaventato di morire / non mi dispiace / Perché dovrei essere spaventato di morire? / Non c’è nessun motivo, devi andartene prima o poi”. “Money” affronta il modo in cui il denaro, che permette al mondo di andare avanti, ma al tempo stesso crea non poche problematiche, cambia il modo di essere delle persone, rendendole più ricche, più povere (moralmente), rendendole migliori o peggiori, dare la capacitò di fare cose inimmaginabili, sia in senso positivo che negativo. Uno dei punti fondamentali di questo testo è: “Money, get away! […] Money, get back!”. È un principio legato al fatto che, chi ha molti soldi tende a spenderli, come se volesse allontanarli, ma quando poi quei soldi non ci sono più si aspetta con ansia che ritornino da noi. Money è la prima canzone della seconda metà di “Dark Side”, galleggia su linee melodiche blues, partendo dall’inconfondibile giro di basso fino ad arrivare alla scintillante chitarra di Gilmour, che qui crea uno degli assoli più conosciuti della storia del rock, fino poi al Sax di Dick Parry.

“Us and Them” è probabilmente la canzone migliore dell’album. Il tema principale è la guerra, che diventerà sempre presente nella discografia futura della band. C’è anche l’incapacità dell’uomo di altre prospettive, diverse dal tutto bianco o tutto nero. Il ritmo lento di piano e batteria lascia posto a una malinconica linea di sassofono, voci echeggianti e arpeggi di chitarra. La tensione aumenta ad ogni ritornello, fino a scaricarsi in uno straziante assolo di sax. “Any Colour You Like” è completamente strumentale, inizia con un synth psichedelico, proseguendo in pattern di chitarra funky e l’eco di un organo.  Dopo l’allontanamento di Syd Barret, vecchio frontman, a causa delle problematiche legate alla sua salute mentale, il gruppo ha dovuto fare i conti con la sua figura che comunque non riuscivano ad allontanare dalle canzoni. Riusciranno a “dire addio” a Syd nell’album successivo, “Whish You Were Here”. A Syd è ispirata la penultima traccia di questo disco. “Brain Damage” vede la luce per la prima volta durante le sessioni di registrazione di Meddle. Nella canzone sono contenuti principalmente ricordi di infanzia di Roger Waters e momenti riguardanti l’ultimo periodo di Syd nei Pink Floyd. In questa canzone compare per la prima volta, fra i potenti vocalizzi di Clare Torry e un mix di tutti gli strumenti precedentemente usati, il titolo dell’album. Waters e Gilmour, che cantano all’unisono, confidano a quello che potrebbe essere Syd, che un giorno si incontreranno nuovamente e succederà nella parte scura della luna, quella impossibile da vedere, per noi sulla terra.

L’album si chiude con “Eclipse”. La canzone è un elenco di tutto quello che ogni persona può vedere, amare, comprare, dire, creare, odiare… e come in realtà tutto ciò, così come le persone stesse, sia piccolo ed insignificante. La metafora del sole eclissato dalla luna è geniale. (Tutte le cose elencate in precedenza passerebbero in ultimo piano nel momento in cui la luce del sole dovesse smettere di illuminare la terra, poiché la vita stessa smetterebbe di esistere). La canzone si conclude con una frase che richiama la traccia precedente: “Non c’è nessun lato oscuro della luna”. Poi un battito cardiaco che si dissolve, ed infine, la morte.

Voto: 10/10

/ 5
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The Decemberists: La recensione di As It Ever Was, So It Will Be Again

  • As It Ever Was, So It Will Be Again – The Decemberist
  • 14 giugno 2024
  • Yabb Records

All’apertura del sipario, non si sa mai cosa aspettarsi dai personaggi messi in scena dai The Decemberists, menestrelli moderni che si affacciano all’estate con il nuovo As It Ever Was, So It Will Be Again.

Nel panorama musicale ci si può imbattere di tanto in tanto in progetti che hanno infinite sfumature e cambi di rotta spiazzanti. In tal senso può venire in mente la camaleontica produzione dei Motorpsycho o dei più recenti King Gizzard & The Lizard Wizard.

E la band di Meloy e soci fa appunto parte del club di chi scuote l’alternative-rock prendendolo dalle caviglie, cercando sempre di accostare elementi di novità ad episodi più classici. 

A sei anni di distanza dal più elettronico I’ll Be Your Girl si fa un passo indietro, lasciando in consolle la tentazione di provarci di nuovo, vestendo i primi due brani con sonorità di sostegno alla narrazione poetica.

Per cui si passeggia in un cimitero accompagnati dalle melodie pop di Burial Ground, mentre in Oh No! ci si ritrova a ballare ad un matrimonio, una danza balcanica in cui i demoni sono sempre in agguato.
Una volta scaldato il pubblico, arrivano le prime note di The Reapers per stravolgere l’atmosfera fintamente spensierata. I personaggi del racconto sono dei contadini immersi nella quotidianità, scandita dal lavoro e dal naturale corso degli eventi.

Girando pagina si torna a melodie più semplici e di appannaggio country. 
Long White Veil inizia come un qualsiasi pezzo dei Rem. Anzi, come Losing My Religion in una tonalità diversa, solo che qui si parla piuttosto di “losing my love”.
William Fitzwilliam aggiunge alla scaletta una ballad country in rime.

Al centro dell’opera troviamo due momenti importanti ed un altro cambio d’atmosfera.

Don’t Go to the Woods è un canto toccante e dalle tinte medievali, in cui la melodia tratteggia fedelmente l’ambientazione.

As It Ever Was So It Will Be Again

Chitarra acustica, doppie voci e fiati costruiscono la trama di Black Maria, una sorta di marcia dei vinti, di chi non ce l’ha fatta a cambiare vita e viene consegnato alla giustizia traghettato dal Black Maria. 

È in momenti come questi che l’accoppiata Meloy-Conlee (Jenny Conlee è in formazione dagli esordi) dà il meglio di sé intrecciando armoniosamente le voci.

Scorrendo in ordine ci si imbatte nell’amore ostinato di All I Want Is You, le cui parole sono rimaste nel notebook del songwriter per tanto tempo, per poi trovare spazio in quello che, ad oggi, è il lavoro più lungo della band di Portland.
In coda si può ascoltare qualcosa di più rockeggiante come Born To The Morning o dondolare al ritmo di America Made Me, appello alla madre patria concepito come una marcetta a metà tra le ritmiche pianistiche di Elton John e i fiati trionfanti di Sgt. Pepper’s.

Dopo i suoni sixties di Tell Me What’s On Your Mind, arriva Never Satisfied, delicata e minimale, una parentesi agrodolce per una rassegnata insoddisfazione di fondo. Poteva anche terminare così, lasciando in sospeso qualche interrogativo esistenziale ma portando a casa, in fin dei conti, una buona manciata di canzoni.

Ma la band affila le matite e disegna l’ultima traiettoria, Joan in the Garden, una suite di oltre 19 minuti in cui prende forma la figura di Giovanna D’arco. La novità non sta tanto nella proposta di un brano che, per sintetizzare, si può definire progressive, perché queste scelte compositive si erano già notate in passato (i più curiosi potrebbero ascoltare l’EP The Tain o The Hazards of Love). Piuttosto è la durata, che non aveva mai raggiunto questo minutaggio, la vera sorpresa. Il cantante ha usato l’espediente della vicenda di Giovanna D’arco per raccontare la sua visione della donna moderna. 
Parte come un classico brano dreamy-folk, per poi aumentare l’intensità drammatica aggiungendo sempre più strumenti, batteria, campane, distorsioni e chitarre in feedback, sfiorando l’epicità di pietre miliari come “Dogs” dei Pink Floyd
Al suo apice la suite si sgretola in un tappeto di rumoristica e psichedelia in cui i primi Porcupine Tree sarebbero stati a loro agio. Poi il risveglio finale, una cavalcata hard’n’heavy in cui i synth di Jenny Conlee dirigono la storia verso la conclusione, anzi verso il titolo, sottolineando che “come è sempre stato, così sarà di nuovo” (“As It Ever Was, So It Will Be Again”, appunto).

E al calar del sipario, una raccolta di nuove storie da portare a casa, o dentro le cuffie. E per capire a che punto sono i The Decemberist nella loro storia musicale, basta aprire le pagine dei loro capitoli per tracciare la linea che da menestrelli li ha condotti ad essere abili narratori.

1,0 / 5
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Mezzanine: L’oscura epopea dei Massive Attack alla ricerca della luce

  • Massive Attack – Mezzanine
  • 20 Aprile 1998
  • ℗ Virgin Records Limited

Non sei invecchiato di un giorno…

Nel panorama della musica elettronica, ma forse è più corretto dire della musica, ci sono poche band che sono riuscite ad avere l’impatto che hanno avuto i Massive Attack. E sono altrettanto pochi i dischi che sono riusciti ad avere l’impatto e la longevità di Mezzanine. Il gruppo si era già affermato come pioniere del Trip-Hop con i primi due dischi. Se Blue Lines (1991) e Protection (1994) erano profondamente influenzati dal soul, dal Jazz e dal Reggae, qui i Massive, si spostano da tutt’altra parte. Il loro terzo disco è complesso e oscuro. Le influenze sono profondamente radicate in atmosfere gotiche e, nonostante tutto, Mezzanine è riuscito a creare un’esperienza sonora unica e avvolgente. 

Il cambio di rotta creò non poche spaccature all’interno della band. Le registrazioni del disco furono segnate da dissapori tra i membri, dissapori che portarono Mushroom ad allontanarsi dai Massive Attack, una volta completato l’album. Nonostante tutto, però, a conti fatti, portarono più pregi che difetti a Mezzanine, che arrivò alla fine, con un carnet di tracce straripanti di profonde complessità emotive e sonore. Anche oggi, a distanza di 26 anni, la testardaggine di Robert “3D” Del Naja, nel creare un qualcosa di mai sentito fino a quel momento, si conferma il vero punto forte di questo capolavoro. 

Sin dal titolo, la sensazione di angoscia è estremamente forte. Tutte le 11 tracce di Mezzanine, contribuiscono a creare un ambiente estremamente angosciante. È come ritrovarsi sospesi in un limbo, in bilico fra luce e oscurità, fra atmosfere inquietanti e allo stesso tempo ipnotiche. 

Il buio cala con Angel. La prima traccia del disco setta l’asticella su sonorità oscure e minacciose. È costruita su un riff di basso viscido e corposo. La sensazione di tensione crescente guidata dalle voci di Horace Andy, collaboratore di lunga data della band, schiaccia ogni ricerca melodica. In Risingson ci troviamo ancora più immersi in questo crescente stato d’ansia, che è Mezzanine. Anche qui, la ricerca della melodia viene completamente annientata dal rap di Grant “Daddy G” Marshall e Del Naja, eccezion fatta per quel “Dream on” spalmato qua e la sulla traccia. 

Teardrop è probabilmente la traccia più famosa del collettivo di Bristol. È etera e criptica. La voce di Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, danza con leggeri sussurri su un beat incredibilmente ipnotico. È forse l’unico momento del disco in cui la tensione si allenta, mentre vieni avvolto da un senso di tristezza e bellezza allo stesso tempo.

Mezzanine
Da sinistra a destra: Robert del Naja, Grantley Marshall e Andrew Vowles. 1998

Inertia Creeps rappresenta l’anima più sperimentale e inquietante dell’album. Nonostante l’intro sembrava introdurci ad una traccia con un minimo di melodia, siamo costretti a rivedere il nostro pensiero dopo appena una manciata di secondi. Il ritmo pulsante si sposa in maniera perfetta con sonorità mediorientali, che fanno da tappeto perfetto per un brano che esplora alienazione e paranoia. Le stratificazioni e la cura minuziosa nel sampling creano paesaggi sonori complessi e avvolgenti.

In Exchange entriamo per la prima volta dall’inizio dell’album, in contatto con suoni soul. Niente testo, solo suoni. E che suoni. Dissolved Girl entra a gamba tesa in un ambiente che i Massive avevano solo esplorato superficialmente. L’idea iniziale di Robert su questo disco era quella di mettere da parte campionamenti Jazz e Soul, in favore di Rock, ma in particolar modo Post-Punk. Questa traccia ne è l’esempio più concreto. Disillusione e Autodistruzione sono descritti in maniera impeccabile all’interno delle linee vocali di Sarah Jay

Man Next Door è invece incredibilmente orecchiabile e melodica. E no, non è sinonimo di leggera. Sui samples di The Cure e Led Zeppelin c’è una costruzione sonora impeccabile di Andrew (Mushroom) Vowles, combinata perfettamente con i testi di John Holt e la voce di Hinds. Black Milk introduce sensazioni malinconiche al cocktail emotivo di Mezzanine. La voce di Elizabet Fraser, annegata nel riverbero, è snervante, mentre striscia sopra i leggeri arpeggi di piano della traccia. La title-track sintetizza tutte le atmosfere cupe e introspettive che caratterizzano l’album. Mette in primo piano il completo abbandono delle strutture d’arrangiamento classiche, convertendosi in una traccia in continua evoluzione, e stampa un punto fermo sull’incredibile complessità e ambizione di Mezzanine.

Gli echi nelle chitarre sull’intro di Group Four si infrangono sulle voci filtrate di Del Naja. Con i suoi otto minuti e il campione di Up The Khyber dei Pink Floyd, Si dimostra la chiusura perfetta di un disco altrettanto perfetto. Nonostante Group Four sia a tutti gli effetti la traccia di chiusura del disco, prima che Mezzanine volga al termine, ci ritroviamo davanti ad una reprise di Exchange, questa volta scritta fra parentesi. I tratti spettrali della produzione di Vowles si spengono sulle orchestrazioni finali. Ciò che rimane del disco sono soltanto i rumori leggeri della puntina che scorre sui solchi di un vecchio vinile. 

Mezzanine è con tutta probabilità l’apice della carriera dei Massive Attack e, come per molte altre band, rappresenterà la loro fine. Qualcuno lo capirà subito dopo la fine delle registrazioni, qualcun altro ci arriverà più tardi. Nonostante il massiccio impatto culturale e l’influenza che questo disco ha avuto, non solo sulla musica elettronica, la vera lezione da capire qui è forse un’altra.

Non sempre le scelte che ci si presentano davanti sono semplici, certe volte rischi solo di non essere capito, altre finisci per rimanere da solo. Questo è stato il caso di Robert Del Naja. Le scelte sonore di Mezzanine hanno portato gli altri componenti ad allontanarsi. E questo portò non poche difficoltà al processo creativo di Robert, nei dischi successivi. Ma se qualcuno vede questa scelta di “3D” come un puro atto di egoismo, provate a chiedervi: “Dove sarebbe oggi la musica se non fosse per Mezzanine?”.

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Il Mellotron: Genesi del primo campionatore, dall’Avanguardia all’Età Moderna

Girando per i social, i blog del settore e seguendo alcune interviste sulle radio è sempre più evidente la spaccatura che si sta creando nell’industria musicale, fra chi è strettamente convinto che ad oggi il fare musica sta diventando un concetto mediocre (“Fanno tutti musica col computer”) e chi invece considera il progresso tecnologico nella musica, un buon mezzo per creare ottimi prodotti in un modo semplicemente diverso. Dati alla mano, non si può non sposare il secondo punto di vista. La storia del Mellotron è soltanto una delle tante conferme. 

Il Mellotron è uno strumento musicale elettro-meccanico che, dagli anni ’60, periodo in cui è stato messo in commercio, ha rivoluzionato il mondo della musica. Il suo punto forte non era solo quello di avere un suono unico, ma la sua capacità di poter riprodurre il suono di vari strumenti pre-registrati. Andando avanti in questo approfondimento, scopriremo l’evoluzione del Mellotron, dagli anni ’60 fino ai giorni nostri. 

Le Origini

Il Mellotron affonda le sue radici all’alba degli anni ’60, ed è un’evoluzione del Chamberlin, uno strumento elettro-meccanico sviluppato negli anni ’50 da Harry Chamberlin negli Stati Uniti. Una delle figure chiave nello sviluppo dello strumento è stata senza dubbio Robert Fripp (Il fondatore dei King Crimson), che acquistò da Chamberlin i diritti sulla produzione e fondò la Bradmatic Ltd. Fu così che, nel 1963, l’azienda lanciò il primo modello di Mellotron, il Mark I. 

Mellotron
Prima Versione del Mellotron

Lo strumento si basava sull’utilizzo di suoni pre-registrati di strumenti come archi, flauti e cori, che venivano incisi su nastri magnetici. Ogni tasto del Mellotron attivava un piccolo nastro su cui scorreva una testina in grado di riprodurre il suono desiderato. Fu un successo incredibile, poiché il Mark I era sinonimo di semplicità. Da quel momento in poi, ogni musicista poteva avere una gamma di suoni orchestrali in uno spazio relativamente ridotto, senza dover scomodare un’intera orchestra.

L’Età d’Oro: Gli Anni ’60 e ‘70

Complice le rivoluzioni musicali sul finire degli anni ’60, la psichedelia e il rock progressivo, il Mellotron divenne il fiore all’occhiello delle più importanti band dell’epoca. I Moody Blues, i King Crimson e più tardi i Rolling Stones adottarono lo strumento, contribuendo a definirne il suono caratteristico. C’è però forse un punto di svolta più visibile, ed è quello di “Strawberry Fields Forever” dei Beatles. Il flauto riprodotto dal Mark I nell’intro della canzone, fu uno degli esempi più celebri dell’utilizzo di questo strumento. 

John Lennon suona il Mark I (anni 60′)

Influenze del Mellotron nel Rock Progressivo

Il Mellotron divenne un elemento chiave del rock progressivo, un genere musicale che cercava di espandere i confini del rock tradizionale incorporando elementi della musica classica, jazz e avanguardia. Band come i Genesis, gli Yes e più tardi i Pink Floyd sfruttarono le capacità dello strumento per creare strutture sonore complesse e stratificate. Nel caso dei Genesis, ad esempio, Tony Banks utilizzava il Mellotron per dare profondità e atmosfere alle composizioni. Per gli Yes invece, ricopriva una carica molto più importante all’interno degli arrangiamenti. 

Declino e Riscoperta

Con la digitalizzazione, l’evoluzione del modo di fare musica e i sintetizzatori negli anni ’80, il Mellotron perse gradualmente il suo posto di rilievo. I nuovi strumenti digitali offrivano una maggiore versatilità, oltre che un’elevata facilità d’uso, portando i musicisti a preferirli al Mellotron. Nonostante tutto, la nostalgia per il suono dello strumento non si è mai veramente spenta. Gli anni ’80 fecero salire alla ribalta synths come il Fairlight CMI e il Synclavier, che offrivano una gamma più alta di suoni e una precisione maggiore nel campionamento. Questi strumenti permisero ai musicisti di esplorare nuove sonorità, di ridurre la dipendenza di strumenti elettro-meccanici complessi e di gran lunga più costosi. Nonostante tutto, il calore, l’imperfezione e il fascino del Mellotron rimasero profondamente radicati nel modo di fare musica di alcuni musicisti.

Revival

Tra gli anni ’90 e 2000, lo strumento tornò nuovamente sotto gli occhi degli addetti ai lavori in campo musicale. Il Mellotron venne aggiornato, furono inseriti nuovi suoni e, piano piano, ci fu una digitalizzazione dello strumento stesso. In Inghilterra, durante il movimento ‘Cool Britannia’, negli anni ’90, band come Oasis e Radiohead, portarono nuovamente il Mellotron alla ribalta, in contemporanea alla rinascita di strumenti analogici e del vinile. 

Johnny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, in studio con una delle prime versioni dello strumento

Il Mellotron Oggi

Oggi, il Mellotron è considerato un pezzo di storia della musica e continua ad essere utilizzato in studio e dal vivo. La Streetly Electronics, una delle aziende originali produttrici del Mellotron, continua a fabbricare e restaurare questi strumenti. Inoltre, sono disponibili versioni digitali del Mellotron, che offrono la possibilità di riprodurre i suoni iconici dell’originale con la comodità della tecnologia moderna.

Le versioni digitali del Mellotron, come il M4000D, mantengono il carattere sonoro distintivo dell’originale, ma eliminano le problematiche legate alla manutenzione dei nastri e delle componenti meccaniche. Questi strumenti moderni sono dotati di una libreria di suoni che include tutte le registrazioni originali del Mellotron, offrendo ai musicisti una vasta gamma di possibilità creative. Inoltre, i plug-in software per computer permettono di emulare il suono del Mellotron, rendendolo accessibile a un pubblico ancora più ampio.

L’Eredità del Mellotron

L’influenza del Mellotron si estende anche oltre la musica. Il suo suono distintivo ha segnato colonne sonore di film, spot pubblicitari e videogiochi, contribuendo a creare ambientazioni suggestive e coinvolgenti. La sua capacità di evocare emozioni e di creare atmosfere uniche lo rende ancora oggi uno strumento prezioso per molti musicisti e produttori. Il Mellotron è stato utilizzato in una vasta gamma di generi musicali, dal rock progressivo alla musica elettronica, dal pop al metal, dimostrando la sua versatilità e il suo fascino duraturo.

La storia del Mellotron è un viaggio affascinante attraverso l’evoluzione della musica e della tecnologia. Forse è lo strumento musicale che più incarna la definizione di evoluzione nell’ambito del fare musica. Dal suo debutto negli anni ’60, attraverso il declino con l’avvento dei sintetizzatori digitali, fino alla riscoperta e alla celebrazione moderna, il Mellotron ha dimostrato di essere un simbolo di innovazione e creatività. La sua eredità continua a vivere, influenzando nuove generazioni di musicisti e affascinando gli appassionati di musica di tutto il mondo. La sua storia è un tributo all’innovazione, alla passione e alla creatività che caratterizzano il mondo della musica.

Il Mellotron è più di un semplice strumento; è un simbolo di un’epoca e di un modo di fare musica che continua a ispirare e a emozionare, dimostrando che il vero valore dell’arte risiede nella sua capacità di evolversi, adattarsi e sopravvivere al passare del tempo. La sua storia dovrebbe essere una lezione, per chi oggi, non concepisce le nuove modalità del fare musica.

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Tuesday Music Revival: Marquee Moon – Television

  • Television – Marquee Moon
  • 8 Febbraio 1977
  • ℗ Elektra Records / Rhino Entertainment / Warner Music Group

I “Television” furono come tante band coetanee uno dei figli del CBGB, un locale underground di Lower Manhattan, scuola del punk rock americano. In quel periodo l’underground newyorkese passava per due vie, o uno stile pesante e distorto di Guitar-rock o uno stile più simile a quello dei Velvet Underground, fatto di giri di blues e droni avant-garde. I Television, come ogni altra band pionieristica che abbiamo analizzato, fanno una scelta diversa, e optano per costruire una terza via.

Il gruppo si forma a New York nel 1971, inizialmente con il nome “Neon Boys”. La formazione subì diversi cambiamenti fra il ’71 e il ’75. Nel 1975 il gruppo trovò finalmente la strada giusta. Cambiò nome in “Television” e iniziò a fare sul serio. 

I “Television”, formati da Tom Verlaine, chitarra e voce, Richard Lloyd, chitarra, Fred Smith, basso e Billy Ficca, batteria, trovarono spazio al CBGB, locale underground casa di personaggi come i Talking Heads, Ramones e Blondie. Da lì la band spiccò il volo. Nei due anni successivi, attirarono l’attenzione di Brian Eno, gli stessi Blondie e perfino Peter Gabriel. 

Nel 1977, a seguito di un contratto con l’Elektra Records, diedero alle stampe Marquee Moon, il loro primo disco. Mentre Tom Verlaine scriveva le canzoni di questo progetto, New York viveva uno dei suoi periodi più bui. Se però, c’è una cosa che la musica ha insegnato a tutti gli appassionati, è che i migliori lavori escono a causa di questi problemi. 

Scartato quindi il primo demo prodotto da Brian Eno e firmato il contratto, la prima cosa che Verlaine fa, è assoldare Andy Johns, che nel ’72 aveva contribuito a rendere “Exile on Main St.” degli Stones, uno dei loro dischi migliori. Non ci sono solo loro tra gli esperimenti di Johns. L’ingegnere del suono, ha lavorato a gran parte dei dischi degli Zeppelin usciti negli anni ’70, e più tardi con in Van Halen. 

Trovate le canzoni e il produttore, restava da capire in che direzione dovesse andare il disco. Le radici di Marquee Moon, sono pesantemente avvinghiate al Rock and Roll britannico dei primi anni ’70. È dentro quel rock and roll, che la band trova tonalità di chitarra pulite che però hanno la capacità di restare sempre al centro dell’attenzione, tenute a bada da una sezione ritmica estremamente versatile e mai banale di Billy Ficca. 

Risponde il critico - - Television - I pionieri della new wave :: Gli  Speciali di OndaRock

Il disco si apre con “See No Evil”, costruita alla perfezione, per tenerti incollato ad ascoltare tutti i 47 minuti di questo disco. La prima cosa che viene fuori da questa traccia, è un’incredibile timbrica nella voce di Verlaine. L’ispirazione dei Rolling Stones di primi anni ’70 è inconfondibile. “Venus” da una rallentata al disco. Verlaine si concede quasi quattro minuti di calma. Come per la traccia precedenti (e in realtà anche per le successive), Venus è caratterizzata da accordi semplici. Questa volta a prendersi un po’ più spazio nella scena è il basso di Fred Smith, che contribuisce a gran parte del groove della canzone. Il testo è piùttosto criptico, parte da una semplice notte a New York e si evolve con Tom che cade tra le braccia della Venere di Milo, che non possiede le braccia.

Riff cruncy, rullo di tamburi e la voce Zeppeliniana di Verlaine apre a “Friction”. La traccia è ricca di cambi di direzione, assoli squillanti. Descritta in sole due parole potrei usare “montagna russa”. 

“L’atmosferica”, per usare le parole con cui l’ha descritta il frontman della band, Title Track è quella che da sola potrebbe reggere il disco, qui vengono fuori delle ottime capacità compositive dei membri della band. “Marquee Moon” è puro cinema, ti basta chiudere gli occhi per viverla. La cosa più incredibile è che il riff su cui l’intera traccia si appoggia è composto da solo due note. Le chitarre sono incredibilmente squillanti, poi filtrate, poi cruncy e poi di nuovo filtrate, e a dettare questi cambiamenti ci sono gli swing della batteria di Ficca.

Quello che la traccia cattura è il contrasto della Grande Mela, da una parte le insegne al neon, le attrazioni per turisti, i colori, dall’altra? Stato di abbandono, criminalità dilagante, scarse misure di igiene e una classe politica menefreghista. Questo è un contrasto che nel corso degli anni si farà sempre più spazio all’interno della musica, come abbiamo visto nell’analisi di Appetite for Destruction dei Guns n’ Roses. 

In “Elevation” la band inizia a spostare le sue sonorità verso altri mondi. Tonalità clean colme di effetti pinkfloydiane, i riverberi sulla voce prendono un’altra piega, e gli slide di chitarra imperversano sugli arpeggi di Lloyd. “Guiding Light” da un’altra brusca frenata. La traccia da un’impressione di una simil “Sounday Morning”, finché Verlaine non inizia a cantare. È probabilmente una delle migliori tracce del disco, frutto di una scrittura a quattro mani tra Verlaine e Lloyd. I due prendono in prestito arrangiamenti soft-rock di metà decennio e li ristrutturano, spalmandoci sopra incertezze e pensieri notturni. 

La lezione perfetta dell'altro punk: Marquee Moon dei Television - RUMORE

“Prove It” apre il sipario con corde pizzicate e chitarre filtrate. Era una delle tracce che il pubblico, ai tempi del CBGB, preferiva. Non a caso è stata estratta come singolo. La traccia mette in luce ancora una volta problemi da risolvere, visti sotto una luce investigativa. Come si evince da “Questo è chiuso” cantato da Tom alla fine della canzone. 

Quale miglior titolo se non “Torn Curtain” per la traccia di chiusura dell’album. È forse l’unica traccia che presenta dei toni in qualche modo cupi, resi più oscuri dalla voce trascinata di Verlaine. I fill di tom di Ficca conducono la band all’interno di un’esperienza umana, ancora una volta dai tratti pinkfloydiani. “La tenda strappata rivela un altro gioco”, canta il frontman. La complessità produttiva e nella composizione in questa traccia tocca i livelli più alti del disco, portando i ritmi lenti ad esplodere in un assolo di chitarra sconnesso e stonato, che riflette non solo “Torn Curtain”, ma tutto il disco. 

Voto: 10/10

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Lana Del Rey: La recensione di “Did you Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd”

  • Lana Del Rey – Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd
  • 24 Marzo 2023
  • ℗ Polydor Records Release / Interscope Records

Il nono progetto in studio di Lana Del Rey, al secolo Elizabeth Woolridge Grant, è un album mastodontico che esplora la famiglia, l’amore è il senso di perdita aiutato da riferimenti biblici e atmosfere malinconiche. Come approccio cantautoriale, il disco non si allontana particolarmente dai lavori precedenti e ritornano tematiche che stanno molto a cuore alla cantautrice newyorkese, come la morte e più in generale, la perdita.  Ad accompagnare la cantautrice verso la stesura finale di questo disco c’è un vasto assortimento di produttori, ma il nome più importante (e quello che compare in gran parte delle produzioni) è sicuramente quello di Jack Antonoff, produttore di Fun., Lorde, la stessa Lana Del Rey e colui che ha traghettato Taylor Swift verso il suo nuovo stile musicale. Tra gli altri nomi abbiamo Drew Erickson, produttore storico di Lana Del Rey, Nick Waterhouse (Jon Batiste, Allah-Las), e Zach Dawes, altro nome già noto all’interno della discografia dell’artista. Nonostante il numero importante di produttori, l’album resta omogeneo, salvo qualche piccola sbavatura, per tutte le 16 tracce, spaziando comunque tra sezioni orchestrali, cori e ritmiche della nuova scena R&B.

“The Grants”, traccia di apertura del disco che prende porta il nome della sua famiglia, è un concentrato di Gospel e orchestrazioni, con riferimenti biblici alla montagna di Mosè e Lana che porta con sé le memorie dei suoi cari. In “Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd” enormi percussioni e gli archi guidano una cascata di note di pianoforte verso richiami ai grandi musicisti degli anni ’70, verso la paura di non essere ricordati, verso la solitudine, tutto condito con una voce tanto vellutata quanto straziante. “Sweet” riprende uno degli argomenti della prima traccia, riguardo l’avere dei figli, stesi su una dolce melodia di piano forte. I sussurri, le melodie veloci di piano e chitarra conducono “A&W” ad un’epopea di sette minuti costruita su potenti armonie vocali e linee leggere di sintetizzatore che sfuma in effetti ambientali e batterie elettroniche. 

“Judah Smith Interlude” è costituita da un pianoforte che sembra suonare nelle profondità del mare, ma ciò che la rende è il discorso di Judah Smith, il pastore di Churchome. In “Candy Necklace”, primo featuring del disco, ci troviamo davanti alla prima ballad di questo disco. “Ti stai comportando in modo irrequieto / Io sono ossessionata da questo”. Jon Batiste, da la sua voce all’outro della canzone. Quello che colpisce parecchio dei riferimenti biblici di questo disco, non è solo che sono contenuti nei testi, ma anche nei nomi di gran parte dei featuring. “Jon Batiste Interlude” è un delirio pinkfloydiano di suoni ambientali, sperimentazioni e fill di batteria. “Kintsugi” è una delle tracce emotivamente più forti del disco. Si rifà all’arte giapponese di riparare la ceramica rotta con polveri, solitamente d’oro o d’argento. Si può tradurre come il non vergognarsi delle cicatrici che abbiamo. L’argomento principale della canzone è ancora una volta la morte, in questo caso di alcuni membri della sua famiglia. 

“Fingertips” galleggia fra accordi di piano sfocati e violini, mentre la cantautrice tira fuori tutti i suoi pensieri più intimi, in bilico fra relazioni passate e ciò che sarà in futuro. La progressione di accordi di “Paris, Texas” richiama l’omonimo film del 1984. In “Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing”, chiede in qualche modo aiuto a dio, chiede a suo nonno di vegliare su suo padre, con costanti richiami al titolo del disco. “Let The Light In” con Father John Misty, ci spostiamo su una canzone dalle tinte folk. Nelle tematiche troviamo una relazione clandestina tra due artisti, uno dei quali sposato, in cui entrambi devono nascondere il loro amore al mondo. 

“Margaret” è una commedia romantica, scritta da Jack Antonoff, che in questa canzone compare sotto il nome di Bleachers, e dedicata a sua moglie. Tra orchestrazioni sporche di mellotron e archi reali, la voce vellutata di Lana Del Rey canta di amori che vanno oltre la vecchiaia. “Fishtail” ripercorre i ricordi d’infanzia con la sorella. Al suono di piano sfocato si mescolano drum machine hip hop. “Mani sulle tue ginocchia, sono Angelina Jolie” canta in “Peperoni”. Questa è la traccia più sperimentale, costituita da veloci ritmiche di drum machine, sgommate e flauti sintetizzati. Un semplice pattern di chitarra clean chiude l’album in “Taco Truck x VB”. “Passami il mio vaporizzatore, mi sento male / Immagina se non ce ne fregasse davvero un cazzo / Mi sto innamorando di te”. La chitarra iniziale sfuma in ritmi elettronici e sintetizzatori.

Voto: 8.7/10

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Tuesday Music Revival: Violator – Depeche Mode

Depeche Mode – Violator

19 Marzo 1990

℗ Venusnote Ltd. / Sony Music Entertainment International Ltd.

Il 28 Agosto del 1989 “Personal Jesus”, primo singolo che anticipa l’uscita di “Violator” fa capire a tutto il mondo cosa sono diventati i Depeche Mode. Con il loro settimo album in studio, i ragazzi di Basildon, non solo si sono presi il mercato discografico statunitense, che fino a quel momento li aveva snobbati, ma hanno conquistato l’intera scena mainstream, e la cosa più epocale è che l’hanno fatto con le loro regole e con un tipo di musica tutt’altro che mainstream.

Flood In Studio.

Il disco nasce sotto un periodo molto problematico di Dave Gahn, in balia delle dipendenze dalle droghe e della depressione. Il disco viene registrato tra i Logic Studios di Milano e i Puk Studios, in Danimarca. In cabina di regia viene assunto Mark “Flood” Ellis, produttore di Nick Cave And The Bad Seeds, U2, Nine Inch Nails, The Smashing Pumpkins, che aveva aggiunto ai cupi suoni sintetizzati del disco precedente, una scarica Blues-Rock. I grandi alle sessioni di mixaggio venne assunto François Kevorkian, che aveva collaborato, quettro anni prima, con i Kraftwerk.

François Kevorkian

Quello che ha permesso a questo disco di essere così grande risiede, probabilmente, nel fatto che ogni singolo membro ha trovato il suo posto in ogni singola traccia, senza rubare la scena all’altro. Alan Wilder lavorava sugli arrangiamenti e sulle sperimentazioni per trovare suoni nuovi, Dave Gahan dava la voce, Martin Gore scriveva le canzoni e Andrew Fletcher, non era più solo il tastierista del gruppo, ma si occupava anche di tutte le questioni manageriali, su scelta del resto del gruppo. 

La copertina del singolo “Personal Jesus”.

Il suono di basso e i loop campionati con l’Emulator aprono la prima traccia del disco. “World In My Eyes” vede Gahan addentrarsi verso atmosfere sessuali e sensazioni di piacere. In “The Sweetest Perfection”, Gore parla di impotenza e tentazione, una coppia perfetta per una canzone che strizza l’occhio allo stile di vita a base di sesso droga e Rock&Roll. L’intera canzone è un insieme di strati di suoni campionati, mandati in reverse, batterie elettroniche e effetti. “Personal Jesus”, tratta da un libro sulla vita di Elvis Preisley, porta il disco verso atmosfere cupe e irrequiete. Il loop campionato di sospiri, la chitarra di gore e la sezione ritmica martellante ti tengono con il fiato sospeso per tutti i cinque minuti di durata della canzone. 

“Halo” riprende tutti gli stili della prima traccia del disco. Tra i sintetizzatori graffianti e i campionamenti dei violini, la voce di Gahan canta di Bene e Male, ingiustizia e sensi di colpa abbandonati ai piaceri carnali. “Non vedi? / Tutti i lussi dell’amore / Sono qui per te e per me”. Sussurri e loop di sintetizzatore sfocati aprono “Waiting for the Night”. Le voci mescolate insieme di Gahan e Gore aspettano che la notte sopraggiunga, per scappare dalla realtà, in un’atmosfera cupa e apatica. “Sto aspettando che scenda la notte / So che ci salverà tutti”.

La copertina di “Enjoy The Silence”

Il secondo singolo estratto da questo disco, “Enjoy the Silence” è forse la canzone più famosa del gruppo, sicuramente quella più appetibile. Ricca di melodie, pattern di percussioni da club, chitarre colme di effetti e suoni orchestrali, sfociano in un finale minimale, costituito da voci acapella e suoni cavernosi. Il testo esplora la violenza del mondo che circonda Gore, sotto il solito filo conduttore di questo disco, la droga e la sessualità. “Le persone sono inutili / sanno solo fare del male”.

La chitarra di Gore fa esplodere in un graffiante riff “Policy of Truth”, sesta traccia del disco. L’oscurità della traccia, le armonie vocali e uno stile funk, fanno decollare Policy of Truth verso uno dei ritornelli più forti di questo disco. La canzone è intrisa di problemi legati al sesso e del non essere capaci di tirare fuori ogni parte di noi stessi, per paura di apparire sbagliati. In “Blue Dress” i sintetizzatori e i sussurri di Martin Gore si liberano in una ballad mai vista.

In questa foto sono ritratti, fuori dai Logic Studios di Milano, Andy Fletcher, Alan Wilder, Daryl Bamonte, Roberto Baldi (Ingegnere del suono), Martin Gore, David Gahan e Flood.

Nonostante abbia tutte le carte in regola per essere una ballad, il significato del testo è più perverso che amorevole. Il disco si chiude con “Clean”, costruita su un giro di basso “pinkfloydiano” e suoni ambientali riprodotti con i sintetizzatori. L’atmosfera è cupa, costituita da tamburi grossi e stracolmi di riverbero, voci robotiche e gli stessi effetti cavernosi dell’outro di Enjoy the Silence. È la fase di redenzione alla fine di un disco le cui fondamenta sono costituite solo da peccati.

Voto: 9/10

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