Camilla Zurlo

SHHHHHHH!: La recensione del nuovo EP di King Krule

  • SHHHHHHH! – King Krule
  • 20 giugno 2024
  • XL Recordings

Un anno fa, durante il tour di Space Heavy, King Krule inseriva nei suoi live qualche brano forse scartato dal disco e ne vendeva copie in flexi-disc. Quei brani, apprezzatissimi in live, si possono finalmente ascoltare ovunque. Questo è “SHHHHHHH!”, l’EP di cui non tutti sapevano di aver bisogno.

King Krule, al secolo Archy Marshall, non ha bisogno di presentazioni. Al giovane londinese è stata sempre riconosciuta una grande poliedricità, che si traduce in un sound personale e riconoscibile. Tutta la sua discografia è estremamente coerente e coltiva un’estetica precisa, fatta di influenze indie rock, darkwave, post-punk e punk-jazz. La pubblicazione di “SHHHHHHH!” non è una vuota manovra commerciale per ravvivare l’interesse verso un artista ad un anno dalla sua ultima uscita: l’EP aggiunge tasselli significativi al mosaico discografico di Marshall e i quattro brani funzionano bene in un disco autonomo.

Shhhhhhh!

Achtung!” è la traccia di apertura: oscura, riverberata al punto giusto, con una importante vena new wave. Il brano viene colorato da armonie un po’ più complesse rispetto a ciò che ci si aspetta di trovare in un brano new wave. L’armonia, insieme alla stratificazione di suoni, imprime al pezzo l’inconfondibile marchio di fabbrica di King Krule.

L’attitudine post-punk collega bene il secondo brano, “Time For Slurp“. Il timbro vocale e l’assolo di chitarra sono protagonisti ma non monopolizzano il discorso. La breve durata della traccia – 1 minuto e 57 – la fa suonare quasi come un intermezzo, senza nulla togliere alla sua solidità. In ogni caso, ha tutta l’aria di un brano che si presta ad una resa live scatenatissima.

L’EP cambia completamente direzione con “Whaleshark“, un delicato lento dalla fattura lo-fi. Archy Marshall, fra le altre cose, scrive bene: “Where’d it all go wrong?” chiede all’inizio del brano, parlando di affetti non più presenti. La musica che avresti voglia di ballare con la testa appoggiata al petto di qualcuno di speciale, ti lascia improvvisamente da solo. “Waited for you all night / And all day / Waited for you all day / And all day / And all night / But no show / They was never there“. E così, una scrittura perfetta condanna a godersi questo dolcissimo solo di sassofono in compagnia di un’assenza.

In 4 minuti e 18 di delirio, l’ultima traccia chiude l’EP con un cliffhanger. “It’s All Soup Now” è la formula utilizzata per commentare la confusione esistenziale dell’esperienza umana dove, alla fine, tutto viene messo in prospettiva e si mescola in un insieme dove ogni ingrediente è indistinguibile. La frase è pronunciata quasi con rassegnazione nella prima metà del brano, su una base musicale piuttosto minimale. Il brano evolve in qualcosa di molto più potente e affermativo con una solida linea di basso e un sassofono urlato, seguito improvvisamente da suoni elettronici che ricordano le suonerie dei telefonini di vent’anni fa.

C’è dell’ironia: l’ossessiva ripetizione di questa omogeneità esistenziale è sconfessata da un brano che varia tantissimo, in cui ciascun suono è ben distinto e aggiunge un colore. L’outro, dicevamo, è un cliffhanger. Il nichilismo funziona così: dopo una prima parte di decostruzione e una seconda di disintegrazione, occorre ricostruire. Succederà nel prossimo disco, magari a partire da quegli ultimi fraseggi elettronici?


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/ 5
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Khruangbin: la recensione di A La Sala

  • A La Sala – Khruangbin
  • 5 aprile 2024
  • Dead Oceans

Sempre fedeli al progetto ma mai identici a sé stessi, i Khruangbin fanno un regalo alla fanbase: ancora più Khruangbin da ascoltare. Il trio di Houston dà ancora una volta la prova di essere una formazione estremamente bilanciata. Per Dead Oceans pubblicano un disco intimo, dall’inconfondibile sound in contatto con ogni latitudine, ma in grado di far sentire ciascuno a casa.

La formazione continua a giocare sui punti di forza di ciascuno dei componenti. Donald Johnson tesse una trama ritmica estremamente stabile. Le linee di basso di Laura Lee sono morbide, groovy, ipnotiche, e fanno muovere il corpo. La meravigliosa chitarra di Mark Speer riesce invece ad essere insieme minimale ed estremamente comunicativa, donando anima ai brani. In A La Sala si ritrovano tutte queste abilità, messe a servizio di un’atmosfera calda e a tratti dolcissima. Si ritrova anche tutta la palette di suoni, ritmiche e influenze che ha sempre definito l’identità del gruppo. Pensiamo alle pentatoniche orientaleggianti (Juegos y Nuebes) e alle influenze sudamericane, alla vocazione neopsichedelica (Ada Jean), alle ritmiche più dinamiche e upbeat (Pon Pòn). La formula è poi completata da pezzi assolutamente ipnotici (Hold Me Up (Thank You)) e da ballate romanticissime (Fifteen Fifty-Three, May Ninth). Non c’è alcuna paura di osare con i riverberi (Todavìa Viva), con i suoni d’ambiente (Farolim de Felgueiras), con una produzione lo-fi.

Durante l’esperienza d’ascolto però succede qualcosa di strano: l’energia creata da una ritmica super solida non trova mai un’esplosione melodica, uno sfogo in cui lasciar deflagrare la tensione accumulata. Le brevissime Caja de la Sala o Farolim de Felgueiras sembrano intro che promettono un chorus solidissimo, il quale però non arriva mai. Per sound così fisico, in grado di far ondeggiare a tempo la testa di chiunque, ciò può rappresentare un elemento frustrante. Questo però non deve stupire: il superamento della forma canzone è una cifra stilistica riconoscibile in gran parte del lavoro del trio. In questo disco più che mai, i Khruangbin sembrano essersi misurati con un’etica ambient nella composizione. Brian Eno parlava della musica ambient come “tanto ignorabile quanto interessante”. Questo è il concetto che qui si abbraccia, e in effetti ciò che viene fuori è proprio “la musica che c’è quando la festa è finita”, come il gruppo la descrive.

In parte però questo è anche dovuto al processo creativo e a una certa filosofia di composizione. I Khruangbin scrivono musica prima separatamente e poi insieme, in un processo sempre orientato alla ricerca estetica. Una volta inciso il brano, questo non viene ripreso fino al momento della preparazione dei live. Ed è proprio il live il momento in cui il pezzo viene realmente abitato e prende vita. A questo processo sembra bene adattarsi la struttura dei brani di A La Sala, che danno l’impressione di una jam session in cui nessuno dei musicisti fa un passo avanti e si prende la scena. Si tratta di una solidissima impalcatura su cui costruire un’esperienza live di prim’ordine. O per lo meno è a quest’altezza che A La Sala fissa l’asticella delle aspettative.

Probabilmente questo non è il miglior album con cui cominciare ad ascoltare i Khruangbin. Probabilmente non è fra i dischi più innovativi del gruppo. Certamente non sarà l’album dell’anno. Chi invece cerca musica sulle cui frequenze sintonizzarsi, corpo e mente, ha per le mani il disco giusto.

/ 5
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Klaus Johann Grobe: la recensione di “Io Tu Il Loro”

  • Io tu il loro – Klaus Johann Grobe
  • 22 marzo 2024
  • Trouble in Mind Records

Dad-rock o musica senza tempo? Ballate kraut-romantiche o groove ondeggianti? Gelo mitteleuropeo o calore mediterraneo? I Klaus Johann Grobe riescono a tenere insieme tutte queste dualità nel loro quarto lavoro in studio per Trouble In Mind Records.

Il sinergico duo svizzero formato da Sevi Landolt e Daniel Bachmann continua a tracciare la parabola evolutiva avviata con i tre dischi precedenti. Partendo da una vocazione neokraut dall’atteggiamento espressionista e dalle atmosfere oniriche, sono passati per l’elettronica ossessiva influenzata dai Kraftwerk fino ad approdare a suoni multicolori tratti dal synth-pop più psichedelico. Il disco “Du Bist So Symmetrisch“, pubblicato nel 2018, era tutto questo. La parabola però continua a curvare: in “Io tu il loro” si decide di esplorare una scrittura più cinematografica, in cui le ritmiche sono meno aggressive e la vocalità morbida di Landolt e Bachmann emerge pienamente. Scopriamo così una grande cura negli arrangiamenti, che in questo disco si avvalgono più che mai di suoni analogici.

Il timbro vintage dell’organo elettrico dialoga con i synth dal gusto un po’ più acido (“Highway High”). Alcuni dei brani trovano la loro forza in un groove funkeggiante (“Getting Down To Adria”, “Never Going Easy”), mentre altri rientrano nei meno rischiosi canoni del soft rock per dare luogo a brani che somigliano a sgualcite cartoline in bianco e nero (“Io sempre di tu”, “You Gave It All”). A tenere tutto insieme c’è l’accompagnamento ritmico della chitarra acustica, che stabilisce un sottotesto intimo e dolcissimo per tutta la durata del disco.

Come accadeva anche nei lavori precedenti, in “Io Tu Il Loro” il tempo non esiste. La palette di suoni richiama atmosfere che riconducono ad un passato mai accaduto, fatto di stratificazioni provenienti da almeno quattro decenni diversi. Ma questa operazione è portata avanti con un senso estetico attualissimo, consapevole di quel gusto retrò che si è ormai affacciato pienamente anche nel mainstream. Il duo rivela questa sensibilità, inconsapevolmente postmoderna, che sembra funzionare come una spugna: assorbe influenze fino a che non riesce più a trattenerle. Chissà se il processo creativo, durato due settimane dopo una pausa di sei anni dall’ultimo album, non sia andato proprio così.

Ma oltre a cogliere lo spirito del tempo, il progetto dei Klaus Johann Grobe riesce ad esprimere anche lo spirito dello spazio. In qualche modo, il sound sembra restituire le esatte coordinate geografiche di un luogo mitteleuropeo, ma a contatto quasi diretto con i luoghi più a sud del continente. Per la prima volta nel percorso artistico di questa formazione, la vocazione krautrock ed elettronica entra in contatto con delle sonorità incredibilmente ariose, tipiche del passato musicale dei primi anni ’80 nel mediterraneo. Si tratta di richiami estetici quasi subliminali: alcune intro (“When You Leave”) riportano con i loro fraseggi sul lungomare partenopeo all’ora del tramonto, altre (“Getting Down To Adria“) sembrano uscite da un fantomatico Volume 3 di Napoli Segreta.

E del resto che cos’è l’assolo di organo di “Highway High”, se non una versione un po’ più fredda, nebbiosa, romantica del fulgido assolo di “In alto mare” della Bertè? L’inserimento di qualche frase in italiano pronunciata con evidente accento anglosassone conferisce un ulteriore tocco di “dolce vita”. Lo scirocco, che scompiglia i capelli e profuma di salsedine, sembra soffiare fin sulle alpi svizzere.

L’esperienza di ascolto dell’intero lp risulta un po’ monotona, ma l’estetica proposta dai Klaus Johann Grobe ci consente di perdonarli. Questo disco è infatti un’eccezionale colonna sonora per i momenti più melanconici della vita di ogni fan dei Kraftwerk, degli Stereolab, dei Moon Duo, dei Secret Machines, ma anche – perché no? – di Pino Daniele. Attendiamo il prossimo lavoro dei Klaus Johann Grobe per sapere quali gusti verranno aggiunti a questo particolarissimo mix.

/ 5
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Meatbodies: la recensione di “Flora Ocean Tiger Bloom”

  • Flora Ocean Tiger Bloom – Meatbodies
  • 8 marzo 2024
  • In The Red Records

Alla loro quarta fatica in studio, i Meatbodies giocano con tanti dei volti della psichedelia. Dopo tre album estrosi e di qualità, ma forse un po’ emotivamente bidimensionali, a questo disco voleva essere conferita più profondità. Ci sono riusciti.

L’album proviene da un momento di crisi nella vita di Chad Ubovich, leader e anima della formazione. L’artista ha vissuto un periodo di difficoltà personali legate a malesseri esistenziali e problemi di salute. Subito dopo, la pandemia ha imposto una serie di battute d’arresto nel percorso di registrazione del disco. Flora Ocean Tiger Bloom è il magnetico prodotto fiorito da una fase di profonde trasformazioni. Troviamo un disco molto a fuoco, dove una certa coerenza e una certa direzione stilistica sono distinguibili anche nei momenti di maggiore distorsione dell’album, dove musicalmente si può rischiare di perdersi. Viene fuori un album in cui Ubovich riesce realmente a dialogare con la psichedelia.

Il primo dei volti della psichedelia con cui i Meatbodies si confrontano è quello più garage, più alternative, più shoegaze, più noise. Eccheggia l’energia degli Smashing Pumpkins di “Gish” (“The Assignment”) e dei Brian Jonestown Massacre di “Anemone” (“Billow”), si ritrova la dinamicità strumentale degli Spaceman 3. È un suono sotterraneo e riverberato, dai bassi pieni, a cui la vocalità acuta e leggermente stridula di Ubovich dona un tocco di acidità. Questa dimensione viene poi approfondita in “Criminal Minds” e “ICNNVR2”. Quest’ultima è la traccia più acida dell’album, distinta sul finale dall’ossessivo litigare di due sax.

La tracklist è inframmezzata da “Silly Cybin”, un brano molto ben costruito e dall’intro incredibilmente soleggiata. Qui i riferimenti della chitarra acustica e dei cori sono rivolti ad una psichedelia che viene dagli anni ’60, naturalista e rilassata. L’effetto conturbante è dato dallo stridore fra la musica e delle liriche emotivamente intense, dai contenuti oscuri, dark, desolanti, come fossero pronunciati sull’orlo di un baratro: “Nothing’s waiting for me/All the grey is creeping […] Nothing’s waiting for me/Suicide is jumping”. Il brano evolve sempre più verso un rispecchiamento del senso emotivo del testo, ritornando all’impronta alternative e garage.

Si arriva alla traccia mediana dell’album: in sette minuti di delirio dall’andatura surf-rock, “Move” condensa tutta la carica trasformativa del disco. La ripetizione quasi ossessiva dei versi “move, move, walk on by” sembra rappresentare lo spirito attraverso cui questa trasformazione personale di Ubovich viene vissuta. È la crisalide che lentamente si apre, proprio a metà del disco.

Flora Ocean Tiger Bloom

L’ultima faccia della psichedelia con cui i Meatbodies dialogano è quella dalla vocazione più mistica. Il ritmo rallenta, il sound si fa più arioso. I riverberi e gli effetti sonori stoner (“Psychic Garden”) sembrano muoversi in direzione verticale, come in un’ascensione che diventa compiuta nei suoni impalpabili di “(Return of) Ecstasy”. La traccia di chiusura (“Gate”) riporta il suono a una dimensione più materiale e pesante. Provando a guardare l’album come a un percorso introspettivo, viene da pensare ad un Ubovich riemerso in superfice, in salute, nuovamente in grado di respirare.

Una costante del disco è la vocalità ipnotica di Ubovich, in grado di rendere tutto l’album assolutamente magnetico. L’altro punto fermo è la cura sartoriale nel tenere insieme diverse influenze, anche quelle derivate dalla scena garage californiana e dai musicisti con cui ha lavorato – fra cui, è bene ricordarlo, l’amico di lunga data Ty Seagall. L’ascolto del disco dà l’impressione di un lungo trip introspettivo, eppure rappresenta lo sforzo finora più compiuto dei Meatbodies.

/ 5
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Amiture: la recensione di “Mother Engine”

  • Mother Engine – Amiture
  • 9 Febbraio 2024
  • Dots Per Inch Music

Se è vero che il secondo album è proverbialmente il più difficile, Jack Whitescarver e Coco Goupil reinventano radicalmente la loro estetica e si smarcano dal problema del paragone con il primo disco. È uscito così “Mother Engine”, il secondo disco degli Amiture per Dots Per Inch.

La storia del disco comincia all’indomani della pubblicazione del primo LP della formazione. Si tratta di “The Beach”, un vorticoso album synth-pop. Whitescarver e Goupil si incontrano dopo la pubblicazione dell’album per lavorare sugli arrangiamenti dei pezzi tratti da “The Beach” da portare nelle esibizioni dal vivo, ma cominciano a riarrangiare in studio alcuni dei brani. Con rinnovata sensibilità, cambiano vestito ed escono dalle logiche di una produzione prevalentemente elettronica lasciando spazio al sampling analogico, alle chitarre distorte, alla batteria garage, ad atmosfere post-punk, gotiche e industrial. È da qui che viene fuori la palette di suoni di “Mother Engine”: nostalgica, cupa, fumosa, fredda come camminare nella New York di Whitescarver e Goupil sferzati dal vento invernale.

La produzione accompagna la vocalità di Whitescarver con pesanti riverberi che bene si abbinano a delle percussioni garage. Certo la scelta non aiuta a rendere perfettamente comprensibili i testi, a volte offuscati dallo stile del cantato. La tendenza ad utilizzare la voce come puro suono riesce però a risultare comunque molto comunicativa: i guaiti strazianti (“Collector”, “American Flag”, “Rattle”) e il conturbante ansimare nel microfono (“Baby”) sono perfettamente modulati e gestiti con consapevolezza. Verrebbe da chiedersi cosa si perde dei testi. “Cocaine” descrive in maniera molto emotiva una relazione tossica (“he is cocaine/I love him, just like my father”).

“Baby” teletrasporta l’ascoltatore a Berlino per 2 minuti e 16 con delle sferzate elettroniche incredibilmente minimali, mentre racconta nuovamente di un rapporto malsano. “Dirty” parla con una certa dose di violenza di un complicato rapporto queer (“But does she know who you are? / You’re just like me/You wanna be a lady”). Nel complesso non tutto è udibile, ma in qualche modo il senso di ciascun pezzo arriva immediato.

Mother Engine

Tutto il disco è caratterizzato da una certa sporcatura low-fidelity. Il tessuto di suoni che si trova sotto lo strato di voce-chitarra-batteria ha una trama noise-pop e industrial. A volte risulta un po’ slegata da ciò che si trova in primo piano (“Collector”), ma in generale si sposa benissimo con la neo-psichedelia proposta da Goupil alla chitarra (“Glory”, “Porte Sosie”). A livello di produzione, sarebbe stato bello sentire dei bassi più profondi che avrebbero forse conferito ancora più profondità ad alcuni dei brani (“Law+Order”). In ogni caso, ciò che viene fuori è comunque un suono pieno, stratificato, ricco di texture diverse.

“Mother Engine” trasporta in uno spazio sotterraneo dove si fa festa, ma dove tutto è in bianco e nero. Al di là di gusti e considerazioni di qualunque tipo, è sempre bello assistere all’evoluzione artistica di un progetto quando questa è sentita e ponderata. Gli Amiture coltivano un’estetica precisa e personale e, forse, questo è l’importante.

/ 5
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Tapir!: la recensione di “The Pilgrim, Their God, and The King of My Decrepit Mountain”

  • The Pilgrim, Their God, and The King of My Decrepit Mountain – Tapir!
  • 26 gennaio 2024
  • Heavenly Records

È uscita a gennaio per Heavenly Records la prima fatica della formazione londinese Tapir!. The Pilgrim, Their God and the King of My Decrepit Mountain è un lavoro in tre atti. La storia del disco comincia nel 2022, con la pubblicazione dell’EP della prima sessione, “The Pilgrim”. Nel 2023 viene pubblicato “Their God”, e il trittico viene completato con l’inserimento dell’ultimo atto in questo LP.

Tapir! è un progetto dalla vocazione estremamente interdisciplinare, i cui interessi spaziano dalla musica alla cinematografia alle arti visive. È anche un progetto che trae tanta della sua forza dall’apertura alla collaborazione: la numerosa formazione è composta da Ike Gray (voce, chitarra), Ronnie Longfellow (basso), Emily Hubbard (cornetta, sintetizzatori), Tom Rogers-Coltman (chitarra), Will McCrossan (tastiere) e Wilfred Cartwright (batteria, violoncello), prodotti da Yuri Shibuichi e contaminati dalle esperienze live con altri artisti e artiste della scena folk inglese.

Tapir!

Il disco racconta del viaggio di The Pilgrim, un enigmatico personaggio rappresentato nei contenuti visuali della band attraverso una testa rossa in cartapesta dalle apparenze elefantine. A dare voce al personaggio è Ike Gray, che con il suo timbro lievemente nasale e stridulo caratterizza The Pilgrim come un piccolo protagonista che percorre un universo tanto più grande di lui.

Il sound proposto dai Tapir! è incredibilmente contemporaneo. L’impianto principale è fatto di strutture folk largamente influenzate dalla Scena di Canterbury degli anni ’60 e ’70, fatta di contaminazioni psichedeliche, jazz e progressive. Ci si ritrova la cura estetica degli Hatfield & The North, l’estro mistico di Daevid Allen, le atmosfere coloratissime e a tratti infantili dei T-Rex di “Unicorn” (The Nether). Questa eredità viene digerita e metabolizzata fino a incontrarsi con elementi ben più moderni, dalle percussioni jungle (“On a Grassy Knoll (We’ll Bow Together)”) a un’andatura ai limiti del post-rock (“Gymnopédie”, “Swallow”, “Broken Arc”).

La voce femminile di Hubbard, che interviene di tanto in tanto, eleva ulteriormente alcuni dei brani: è valorizzata al massimo in “Eidolon”, in cui le due voci sono accompagnate soltanto da una chitarra acustica, determinando un momento di incredibile sospensione nel corso del disco. In “Untitled”, le due voci si uniscono in una ballata indie e chamber-pop che riporta agli anni ’90 dei Belle&Sebastien.

The Pilgrim, Their God and The King of My Decrepit Mountain è molto più di quello che sembra. Si presenta come un album sognante, bucolico, di evasione da una realtà frenetica e iperconnessa. Allo stesso tempo però testi e musica sono estremamente radicati nella contemporaneità: il progetto dei Tapir si inserisce a pieno titolo in quella serie di lavori ispirati dall’hauntology (una condizione che si esprime artisticamente nella nostalgia per passati mai accaduti, letti come alternativa al presente e ad un futuro incerto), che convergono in queste atmosfere pastorali – un esempio recente è il bellissimo “Iechyd Da” di Bill Rider-Jones. Si tratta di una sensibilità che parla in modo molto diretto soprattutto alle nuove generazioni, ma che grazie al radicamento in generi musicali più datati riesce a risultare attrattivo anche per altri tipi di pubblico.

Con queste premesse, e considerata la vocazione della band per le esibizioni live, facciamo i nostri migliori auguri al progetto e aspettiamo con ansia una data in Italia.

5,0 / 5
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Future Islands: la recensione di “People Who Aren’t There Anymore”

  • People Who Aren’t There Anymore – Future Islands
  • 26 gennaio 2024
  • 4AD

I Future Island sono ritornati con il loro settimo disco, People Who Aren’t There Anymore. Il fortunato progetto synth-pop e post-wave di Gerrit Welmers, William Cashion, Samuel Herring e Michael Lowry si presenta in una veste matura e riflessiva con un album che parla di perdita.

Il disco è nato all’indomani della pandemia da Covid-19 a seguito della rottura della relazione a distanza di Herring. L’evento ha rappresentato un’occasione di riflessione e introspezione sui vuoti lasciati dalle “persone che non ci sono più”, in cui la pandemia e i lockdown fanno da sfondo (“The sickness came in like a freight train/Ad swept us up into small towns/The curfews pushed us to a sundown/And we were caught in two places/I, I had to wach it fall apart from here” – The Sickness).

Da un punto di vista musicale, ascoltare un disco dei Future Island vuol dire non dover mai fare i conti con citazionismi posticci o brani sconnessi. Il gruppo ha un’estetica e delle sonorità molto ben definite, sviluppate a partire dal diversissimo background dei componenti ma sempre orientate alla new wave e al synth-pop. Un esempio? Il brano “Iris”, portato avanti da un fantastico groove disco dall’andatura africaneggiante. La ricerca di suoni “etnici” è parte della storia degli anni ’80 e della new wave – lo hanno fatto i Dead Can Dance, David Byrne, David Sylvian – ma i Future Island ne restituiscono la loro personale versione integrandola con discrezione nel loro sound.

Allo stesso tempo, non si tratta di un disco particolarmente sperimentale: la tracklist risulta abbastanza omogenea, con l’eccezione di qualche brano che si stacca dallo sfondo. È il caso di “Peach”, luminoso singolo rilasciato in anteprima, in cui il suono energico e delicato accompagna un’appassionata dichiarazione di resilienza. È interessante il ruolo del basso in “Say Goodbye”, utilizzato in modo da ottenere suoni più alternative. Anche la traccia di chiusura dell’album, “The Garden Wheel”, rappresenta uno stacco caratterizzato da sonorità più morbide e indie, adatte a mettere un punto alle pesanti riflessioni cantate lungo tutto il disco.

people who aren't there anymore

Il vero punto di forza di People Who Aren’t There Anymore, allora, è proprio il racconto. Il disco nasce da un profondo bisogno espressivo, e si sente: le liriche partono da esperienze collettive, come i continui lockdown del 2020 e la perdita di persone care, arrivando all’ascoltatore in modo estremamente diretto. Sono testi potenti, enunciati e valorizzati da una voce all’apice della sua maturità. Con solo qualche parola (“Another quiet night/Back in my old city” – Corner of My Eye) la scrittura è in grado di trasportare chi ascolta in scenari allo stesso tempo personali e condivisi. “The Sickness” e “Corner of My Eye” sono splendide ballate dall’anima dolceamara che ci ricapiterà di sentire quando cercheremo qualcosa con cui emozionarci.

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Glass Beach: la recensione di “plastic death”

A cinque anni dal debutto, i glass beach ritornano con il loro secondo album “plastic death”. Il quartetto di Los Angeles mantiene l’attitudine midwest-emo e i suoni math, art rock, progressive, elettronici e psichedelici che già distinguevano il loro primo disco, ma arricchiscono il proprio stile in senso ancora più massimalista, jazz e prog.

L’esperienza di ascolto dell’lp nella sua interezza ha il sapore di un giro sulle montagne russe: un percorso colmo di scossoni in cui però ci si imbarca senza il rischio di farsi male. Dinamismo, ecletticità e sonorità a volte angoscianti (“whalefall”, “slip under the door”, “abyss angel”) sono gestiti con una composizione attenta e controllata che non lascia mai l’ascoltatore in balìa del turbinio di suoni. I testi, a tratti quasi mitigati dalla musica, risentono dell’influenza di Carl Jung, autore che sembra aver solleticato l’immaginazione di McClendon.

Non mancano infatti momenti di accettazione estetica ed esistenziale del brutto e del degradato, presente tanto nel mondo esterno quanto nella dimensione interiore di chi parla (“all the burned meat/all the blood in the trees/i am burning with the blood in the trees” – “abyss angel”). Con queste accortezze, i glass beach consegnano al pubblico un immaginario composto di enigmatiche visioni di decadenza, riferimenti culturali disparati e pensieri cristallini in cui potersi ritrovare.

Il disco ha un forte debito nei confronti della scena midwest-emo – dagli American Football agli Origami Angel – ma anche nei confronti di Thom Yorke (“the killer”) e dei Radiohead di “In Rainbows”, così come Yes, Rush e altri grandi nomi del rock progressivo.

Ciò che sorprende all’ascolto è la coerenza con cui generi e influenze vengono combinati. Frutto di tre anni di preparazione, “plastic death” riporta elementi math pop ma vi ricama sopra con intelligenza e creatività. Si pensi a “whalefall”, che si avvale del suono della marimba impiantato su una ritmica molto dinamica e suoni elettronici per condurre con grande immediatezza in un ambiente subacqueo e vagamente inquietante. Si pensi a “coelacanth”, l’opening track dall’inconsueta durata di 6 minuti: un incalzante valzer in 12/8 al pianoforte dalle tinte dolcissime e melanconiche a cui viene progressivamente aggiunta complessità e tensione, fino al vorticoso crescendo post hardcore in cui si stratificano percussioni sempre più presenti, fraseggi math alla chitarra, suoni elettronici e la voce emotivamente intensa di J. McClendon.

La palette di generi di riferimento del gruppo viene arricchita da inediti elementi metal nell’arrangiamento della più dura “slip under the door”, brano che però evolve verso la psichedelia grazie ai riverberi e alla melodia ipnotica. In generale, la gestione della ritmica è oggetto di grande attenzione compositiva e riesce a dare carattere e colore a ciascuna delle tracce. Del resto, il ritmo sincopato nei primi secondi di “commatose”, quasi in chiusura del disco, arriva di sorpresa e rappresenta una sottotrama che contribuisce a definire nitidamente l’identità del pezzo, prima che questo venga stravolto da un potente ed epico outro.

Con lo spirito che spesso contraddistingue gli esordienti più interessanti, J McClendon, Layne Smith, Jonas Newhouse e William White sembrano prima di tutto ascoltatori avidi e onnivori, e solo dopo compositori. Il processo creativo dietro al disco è durato tre anni fatti di ascolti, jam session, registrazioni DIY e continui ritocchi delle tracce. Il sound un po’ grezzo e casalingo che emerge di tanto in tanto – tutte le tracce sono state registrate nella casa in cui il gruppo ha convissuto nell’immediato post-Covid – risulta assolutamente perdonabile grazie all’effetto finale lievemente patinato e analogico, ma soprattutto grazie alle rifiniture di Will Yip in fase di masterizzazione e al successivo remix di tutti i brani svolto da un Classic J ai limiti del perfezionismo.

“plastic death” è un album da ascoltare, McClendon è un compositore da tenere d’occhio, glass beach è un progetto che ha futuro. Dopo un primo lp introspettivo e un secondo teso alla riflessione culturale collegata all’immaginario di una “morte di plastica”, viene da chiedersi quale direzione prenderà il prossimo e quali (nuovi?) suoni verranno selezionati.

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