Eros Iachettini

Clauscalmo: La recensione di Passo Monteluna

  • Clauscalmo – Passo Monteluna
  • 19 aprile 2024
  • ℗ La Tempesta Dischi

Clauscalmo si presenta come un progetto intimo e stratificato, nel quale l’autrice investe musicalmente per creare un genere ibrido che riunisca un ascolto retro e una potenza atavica. Il progetto solista di Clara Romita, artista e batterista salentina classe 1994, giunge dopo vari episodi musicali pubblicati sporadicamente a un vero e proprio album, due anni dopo l’ep Record e varie collaborazioni (72-Hour Post Fight, Any Other, Montag, Vipera). Il suo particolare stile, che nei live del suo progetto la vedono cantante e allo stesso tempo percussionista, è arricchito da uno stile musicale complesso ma anche lineare, onirico e ritmico insieme. 

Passo Monteluna, un nome ispirato dalla serie videoludica “Star Fox”, esprime in poco più di una mezz’ora le idee creative della sua autrice. La nuova produzione, condotta insieme a Niccolò Cruciani (C + C = Maxigross), esce per La Tempesta Dischi il 19 aprile 2024. Le undici tracce inserite nel disco sono anticipate da due singoli presenti nell’album, Il nome del capitano e A metà

Passo Monteluna

La musica di Clauscalmo viaggia tra un’epoca e l’altra, che tocca un cantautorato vintage e subito dopo svolazza verso la musica contemporanea e i suoi sperimentalismi. Un soffice motivo di chitarra apre il disco, in cui si inseriscono con dolcezza gli altri strumenti e il cantato (Casca la terra). L’atmosfera del disco è stata appena messa sul piatto, e prosegue lungo tutta la sua spina dorsale. La voce accompagna sottile, avvolta bene nelle trame delle composizioni; i ritornelli sono invitanti ed efficaci, e spesso sublimano l’insieme degli strumenti presenti nei brani.

Il singolo A metà incatena chi ascolta in un ritmo gentile, esordito dalle pennate di una chitarra elettrica, e cresce progressivamente fino a una sorda esplosione. Se lui non viene incalza l’ascoltatore fino ai due interludi centrali del disco, Reprise e Niente da fare, e approda all’armoniosa ed evocativa Un brutto sogno si ripete spesso. Infilato tra due tracce di raccordo, le quali abbracciano un ensemble di strumenti, c’è Patti chiari, che unisce un elaborato songwriting a dritte sezioni musicali. Ora io vado via è una giusta fine del viaggio, un brano lungo e conclusivo, che certifica e porta a compimento l’ambiente uditivo che è stato impalcato finora.

Clauscalmo lascia l’ascoltatore in balia di un lento viaggio dentro un sapere intimo e circoscritto, in cui le riflessioni musicali gli fanno da padrona. È un viaggio di maturità e coscienza, per un disco d’esordio dal sound riconoscibile e che ispira una pregevole sicurezza artistica. L’ascolto del disco ispira coerenza e confidenza, riuscendo ad aprire le porte del mondo ben illustrato e a dare l’idea che definisce lo stile musicale di Clauscalmo. 


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Quadeca: La recensione di “Scrapyard”

  • Quadeca – Scrapyard
  • 19 febbraio 2024
  • ℗ deadAir

Benjamin Lasky, in arte Quadecanon sa proprio stare fermo: fin da giovanissimo si destreggia con Youtube, coi videogiochi, con la musica, col calcio e con le produzioni rap. Scrapyard è l’ultima mixtape release di un artista che, nonostante la classe 2000, è già attivo da alcuni anni, tanto che il primo LP risale al 2019, Voice Memos, con varie uscite che lo hanno preceduto. Legato fin da piccolissimo all’ambiente rap, negli anni vi rimane fedele aggiornando le sue produzioni e mantenendo il suo stile in un nuovo mappamondo del rap ormai influenzato dalla digital era, in particolare tramite I Dind’t Mean to Haunt You, album del 2022 a cui deve il maggior successo e la maggiore svolta artistica. 

Anticipato da alcune previewScrapyard esce il 16 febbraio 2024 sotto DeadAir (la stessa label con cui uscì IDMTHY), ed è la versione finale degli omonimi Scrapyard I, II, III, rilasciate alla fine del 2023 (il quarto e il quinto non vedono ufficialmente una luce, quindi arrivano direttamente sul mixtape completo). Affida l’artwork di copertina a Paige Prier, che aveva curato già quelle delle raccolte di Scrapyard precedenti e di IDMTHY). 

Scrapyard

Per il suo nuovo prodotto, Lasky si avvale della presenza di due altri giovani artisti del panorama americano recente, ossia Kevin Abstractfounder del collettivo rap Brockhampton e solista, e Brakence, produttore e artista in particolare in ambito glitch pop/hyperpop. Con loro in studio, Scrapyard assume un aspetto ancora più variopinto, aperto a influenze e sperimentazioni che ribaltano costantemente il parco giochi musicale imposto da Quadeca, che si mette a nudo e si scopre a 360° sulle sue problematiche, sulle sue insicurezze.

Le quindici tracce che compongono il nuovo lavoro di Lasky, tutte in caps lock come il titolo del disco, rappresentano tre quarti d’ora molto sostenuti, pieno di emozioni sublimanti che vorticano da un brano e l’altro. Apre DUSTCUTTER, un mix di sound morbidi e incisivi allo stesso tempo, in grado di colpire l’ascoltatore con dolcezza e rabbia allo stesso tempo, seguita dal featuring con Brakence in A LA CARTE, che incrocia strofe rap e melodie con sonorità contemporanee. Quadeca si destreggia come un danseur étoile nelle interpretazioni hip hop, da brani tendenti al glitch (WHAT’S IT TO HIM) all’emo rap melodico (PRETTY PRIVILEGE), dallo spoken word (U TRIED THAT THING WHERE UR HUMAN) fino a strofe veloci, taglienti, personali (EVEN IF I TRIEDGUESS WHO?) e brani molto sofisticati nella produzione elettronica (BEING YOURSELF). 

Ci sono ballate elettroniche, calde ed eteree, come U DON’T KNOW ME LIKE THAT EASIER, mentre dall’altra parte si trovano lenti introspettivi ed emotivi, come UNDER MY SKIN GUIDE DOG.  Conclude TEXAS BLUE, il brano che ha visto la partecipazione di Kevin Abstract e dove, su un giro di piano che ricorda vagamente i primi 21 Pilots, lui e Ben duettano con grande affabilità.

Quadeca pone un passo avanti nella sua carriera discografica rielaborando le produzioni degli ultimi anni condendole con una stimolante fantasia, in grado di arricchire e sfaccettare la sua attività musicale. A fronte di una giovanissima carriera, seppur già avviata e riconosciuta, Lasky conferma in Scrapyard una creatività di un produttore di livello, che mescola ingredienti provenienti da più realtà musicali in maniera sapiente e coerente, in un dialogo intimo con la sua generazione e su chi sia lui stesso.  

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/ 5
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Yin Yin: La recensione di “Mount Matsu”

  • Mount Matsu – Yin Yin
  • 19 Gennaio 2024
  • Glitterbeat Records

Quattro ragazzi olandesi che si mettono in gioco attingendo per sonorità, nomi ed estetiche al sud-est asiatico, principalmente al rock psichedelico e alle musiche degli anni Sessanta e Settanta: è così che gli Yin Yin cominciano a solcare le onde discografiche nel biennio 2018/2019, dove uscirà l’ottimo esordio The Rabbit That Hunts Tigers, che li incorona in breve tempo tra i progetti emergenti psych rock europei. Dopo aver affrontato la pandemia registrando e pubblicando Age Of Aquarius (2022), il quartetto olandese si è già fatto un nome, e arriva preparato a questo terzo album, sempre prodotto con la Glitterbeat Records e uscito il 19 gennaio 2024, a cui segue il tour europeo. Gli Yin Yin nascono a Maastricht, da Kees Berkers, Remy Scheren, Robbert Verwijlen ed Erik Bandt e sono un affiatato gruppo di ragazzi che mescola interessi, gusti e predisposizioni per i nuovi lavori a cui si dedicheranno.

Nell’ultimo decennio si sono affermati a livello internazionale varie band alt-psych-rock, sia dagli States (Khruangbin, All Them Witches) che dagli altri continenti (Kikagaku Moyo, Altin Gün, Mildlife) che hanno effettivamente modernizzato il genere, facendo buoni numeri e creando effettivamente una mini-corrente internazionale: gli Yin Yin partecipano all’equazione, aggiungendo alcuni elementi che proprio in questo Mount Matsu risalteranno all’occhio.

Yin Yin

È, in un certo senso, con il 2023 che comincia l’album, ossia con la traccia The Year of The Rabbit (che nel ciclo dello zodiaco cinese era lo scorso) che mostra in piena regola le proprietà caratteristiche del gruppo, uno strumentale psych con sonorità orientali e arabeggianti; seguirà il filone The Year of The Tiger (che, sempre nello zodiaco cinese, simboleggerebbe il 2022), un potente incrocio di vari strumenti anticipato da un incipit quasi tribale. Tam Tam e The Perseverance of Sano (la quale richiama un po’ la storica Misirlou di Dick Dale) mescolano allo psych quel tanto di surf rock alla formula.

L’altra faccia della medaglia è il lato funk e city pop, espresso pienamente da pezzi come Takahashi Timing, coronato di synth magici e sensuali bassi, Pia Dance (fresca ed estiva, che col suo “Pia, you make me wanna dance” inneggia al ballo e all’amore) e la nipponica Tokyo Disko, una giravolta di ritmi e melodie. Riportano alla calma il lo-fi quieto di Komori Uta e la splendida Shiatsu For Dinner, che, come l’omonimo massaggio, vuole allentare le tensioni dell’ascoltatore tra il reiterato coro “shiatsu for dinner”, le percussioni secche e le chitarre placido. Concludono White Storm, un brano frenetico, con degli assoli pronti a infrangersi su scogli come cavalloni, e la serafica outroAscending to Matsu’s Height.  

Fin dall’inizio il progetto Yin Yin è apparso interessante, con qualche sperimentazione in più e un comparto vintage e contemporaneo allo stesso tempo: Mount Matsu non tradisce le aspettative, e nella sua eterogeneità fa di nuovo appoggio sui propri capisaldi, un lavoro fresco e piacevole adatto a vari ascoltatori. Il terzo lavoro degli Yin Yin non offre una composizione rivoluzionaria, ma calibra al meglio un buon album, dove, per quasi 45 minuti, si viaggia spensierati tra sperimentalismo, psych-rock e concept sud-est asiatico.

/ 5
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Peter Gabriel: La recensione di “I/O”

  • Peter Gabriel – I/O
  • 1 dicembre 2023
  • ℗ Peter Gabriel

Monumentale è il termine che con tutta probabilità si vorrebbe associare all’ultimo figlio artistico di uno dei più importanti artisti della musica contemporanea internazionale; Peter Gabriel non ha bisogno di alcuna presentazione, tra Genesis, carriera solista e ambito di produzione e sound design, e dopo decenni di altissima caratura musicale è voluto tornare con un progetto accantonato nel tempo, ma mai cancellato. È da quasi vent’anni che voleva dare alla luce i/o, ma alla fine, come spesso accade, i progetti possono essere messi da parte, ripensati e addirittura rimessi a nuovo.

Il progetto è enorme, e segue una campagna marketing ancora più interessante: il cantante britannico vuole produrre ben tre mix diversi del proprio disco, una Bright Side (con Mark Stent), una Dark Side (con Tchad Blake) più la In Side Mix in Dolby Atmos per la massima immersione possibile (con Hans-Martin Buff).

Praticamente ognuno dei dodici brani ha visto la luce nei mesi precedenti l’uscita ufficiale dell’album il 1° dicembre 2023cadenzati dalle fasi lunari (da gennaio a novembre dell’anno passato, con un mix o con l’altro a seconda del plenilunio o del novilunio) e seguiti da dei media di riferimento dello stesso Gabriel. Oltre ad avvalersi di più produttori di fiducia, Peter gira per più di venti studi a livello internazionale (tra cui uno in Italia) per produrre alla perfezione il proprio lavoro, che lo ha ripagato con eccellenti risultati di charts e vendite (tra cui un eccellente #1 in quella UK).

Il timbro e la prosodia del cantante inglese non sono esenti dalla sua età anagrafica, eppure sembrano essere ancora più avvolgenti e morbide, un lusso che altri non si sono potuti permettere. Seguito come al solito dai fedeli accoliti Tony Levin, David Rhodes e Manu Katché, molti altri musicisti si sono susseguiti tra le produzioni e le registrazioni in studio, fra cui la figlia di Gabriel Melaniee il trombettista italiano Paolo Fresu. I singoli hanno inoltre copertine prodotte tutte da artisti diversi che Gabriel conosce e/o stima, e che sono legati a forti tematiche sociali e riguardanti i diritti umani.

L’opening act del disco è il primo singolo Panopticom e rappresenta il tema della sorveglianza (ovvio il rimando al panopticonideato dal filosofo J. Bentham) misto all’idea dell’interconnessione degli esseri umani, come una sorta di cloud; le sonorità accurate e vintage ricreano nostalgiche sensazioni nei fan di vecchia data, in una traccia piacevolissima. Seguono The Court, degno successore di Up a livello di sound e sempre incentrata sulle tematiche etiche dell’essere umano, e Playing For Time, una ballad pianistica che ricorda la sua Wallflower, e come quest’ultima è piena di sentimento, riesce a toccare le corde più remote degli animi, parlando dell’importanza dei legami e degli eventi della nostra vita.

La title-track i/o (Input/Output), canta il bisogno di trovare un proprio posto, sotto un agile ritornello e melodie dritte, congiungendo le individualità al collettivo. Four Kinds of Horses, nata prima per un progetto di Richard Russell, fonde i principi “gabrieliani” con il trip-hop e un racconto della tradizione buddista; Road To Joy è un ottimo ritorno alle vibrazioni ritmiche degli anni Ottanta e Novanta dello stesso artista (comprensibile dato che è una produzione che Gabriel si porta dietro dai tempi di OVO), che si oppone alla seguente So Much, una quieta e intima riflessione sulla morte e sulla caducità dell’esistenza, un picco di elevata sensibilità per l’ascoltatore. 

Olive Tree è un tripudio di vitalità e veemenza, come “acqua che scende sulla testa”, come dice lo stesso cantante, che anche qui si pone come possibile contraltare a Love Can Heal, la quale rimanda col dolce chorus femminile al duetto con Kate Bush in Don’t Give Up di quasi quarant’anni fa, avvolta nel mistico violoncello di Linnea Olsson. Sembra fare un salto tra Us e le tracce di nuovo millennio This Is Home, dove il groove gabrieliano è fresco e aggiornato; la personalissima And Still, che Peter dedica alla madre morta alcuni anni fa, è un groviglio di pop, elementi di musica classica, ricordi felici commisti a quelli più tristi; conclude Live and Let Live, che seppur non sia una delle tracce più memorabili del disco, riassume ideologicamente tanto l’intero disco quanto una parte del Gabriel artista, pensatore e uomo.

Non sembra passato un attimo da quando Peter Gabriel ha cominciato a fare della sua musica una firma indiscutibile, un giubilo di sonorità che compongono una sofisticata musica art-pop. L’età non ha invecchiato la sua musica, non ha dato per scontato il solito lavoro riempitivo: Gabriel propone un ballo lento, immensamente emotivo, che non indietreggia di un passo rispetto ai lavori del recente passato, ma che riconferma l’autorità del musicista inglese nell’olimpo degli artisti della musica contemporanea internazionale.

/ 5
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Fulminacci: La recensione di “Infinito +1”

  • Fulminacci – Infinito +1
  • 24 Novembre 2023
  • Artist First / Maciste Dischi

Infinito + 1 si ispira a quel mondo ludico ancora ingenuo e inconsapevole, che comincia dall’infanzia e che sembra svilupparsi senza mai arrivare a una fine: Fulminacci non è affatto una new entry della musica italiana ma è ancora un ragazzo, un artista che non smette di migliorare la propria mentalità e che esplora, forte di una certa emozione positiva che lo incalza. Il puzzle in copertina, che compone il viso del cantautore, richiama a quel senso di gioco, mentre mancano ancora dei pezzi, qualcosa è ancora sparso qua e là, non abbiamo la visione completa che ci aspetteremmo e che non sappiamo se vedremo mai. 

Registrato e prodotto nel triangolo che include Roma, Milano e Bergamo, la terza produzione di Filippo Uttinacci (vero nome dell’artista classe ‘97) è affidata al coetaneo Giorgio Pesenti (Iside, okgiorgio) e come sempre orchestrata da Maciste Dischi, icona delle label indipendenti da tempo produttrice di artisti come GazzelleMobrici e via discorrendo. Quei paragoni di inizio carriera che lo hanno avvicinato molto a figure come Daniele Silvestri (sono usciti anche un paio di brani insieme, di recente) hanno visto negli ultimissimi tempi invece un adattamento alla scena pop giovanile italiana, che sembra rappresentare un’idea precisa della direzione che l’artista in questione ha preso.    

Fulminacci - Wired Next Fest 2021 -

Nei dieci brani del disco (poco più di mezz’ora), si distende la facciata dualistica di Fulminacci tra canzoni di amore e di personalità, per quanto non riproponga quella primigenia ma anche espressiva spregiudicatezza e provocazione di La Vita VeramenteInfinito + 1 comincia col botto con Spacca, un ottimo brano di apertura per dinamismo e per la riproposizione dei punti forti del cantautore romano, immerso tra cori e ritmi accattivanti, “un po’ giovane vecchio”. Forte della sua collaborazione bergamasca, si ritrova in Puoi la presenza di uno dei gruppi indie di punta in Italia, ossia i Pinguini Tattici Nucleari: il duetto con Riccardo Zanotti è amalgamato, il pezzo è leggero (un classico connubio amore-gioventù), meno arzigogolato di altri ma abbastanza funzionale. 

Ragù è la miglior miscela del Fulminacci più “generalista” (come quel “pubblico faticosamente conquistato”) e quello spontaneo senza filtri, forse rappresenta simbolicamente quel “ragù di cantautore” che lui professa nella stessa canzone; successivamente arriva il terzo singolo del disco, Filippo Leroy, che tra citazionismi artistici (Fontana, Da Vinci, Magritte) e qualche solito fendente stilistico non è certo il brano di punta. Seguono due ballate, una molto mielosa per quanto riconoscibile e profonda, un po’ De Gregori un po’ Jovanotti (Simile) e l’altra invece forte e delicata allo stesso tempo, che usufruisce della mente artistica di Giovanni Truppi e si sente, rivolta verso il tema dell’età e della caducità della vita (Occhi Grigi).

Qui si spezza improvvisamente il pathos creato in mezzo al disco per fare spazio a Baciami Baciami, che mostra le buone doti del cantautore romano di cimentarsi in brani power pop, vestita comunque con un testo nostalgico e amoroso. Delle chitarre spagnoleggianti introducono il primo singolo dell’album, Tutto Inutile, e in meno di tre minuti fa del pop un blender variegato, sicuramente pensato come un singolo che avrebbe anticipato il disco per la sua natura. Chiudono Così cosà, un brano abbastanza tradizionale che combina strofe intimistiche e un ritornello cantabilissimo, e l’ultima La Siepe, un brano molto tendente alla musica folk, composta da chitarre limpide e una voce cantautorale che Filippo recita con giudizio e cura.

Il lavoro del cantautore romano è di lima, innegabilmente studiato e con spunti assai interessanti. Questo terzo album apre probabilmente di più quella sorta di spaccatura che si è allargata nel corso della, seppure ancora breve, carriera di Fulminacci: più fedeltà a quel ragazzo “scanzonato” ma così personale ed espressivo, oppure maturare nel segno dell’indie pop (quello di Tante Care Cose) sotto l’architettura di Maciste Dischi? Infinito +1 fa pendere sempre un po’ più l’ago della bilancia da questa parte, dove l’inquadratura di una ideale finta camera vede il giovane artista romano cambiare il modo di cantare le gesta della società che lo circonda, tra quella dolce critica di chi vede coi propri occhi e la traslazione repentina verso l’indie pop italiano. 

/ 5
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Death’s Dynamic Shroud: recensione della nuova Trilogia

Dopo aver pubblicato una produzione all’inizio di quest’anno chiamata After AngelTech Honors, Keith Rankin e James Webster, ossia i tre artisti che compongono i DDS, premono ancora di più sull’acceleratore e fanno uscire una trilogia, un trittico di lavori che permette di addentrarsi intensamente nella cava della loro sperimentazione. Negli ormai quasi dieci anni di vita di questo trio, ormai stabilitosi in California, i death’s dynamic shroud (al quale aggiungono simpaticamente un dominio “.wmv” su piattaforme e siti web) sono estremamente attivi nello sviluppare e portare avanti un mix di estetiche e sound da loro definito NUWRLD, che unisce i canoni principali della vaporwave a una miriade di altre influenze (dance, art-pop, classica, EDM eccetera) nonché a un samplingcurato ed eterogeneo.

death's dynamic shroud

Usciti sulle grandi piattaforme il 10 novembre e annunciati dalla stessa band qualche tempo prima, i tre album mostrano una diversificazione già dalle copertine: Midnight Tangerine rappresenta un dipinto quasi acquerellato, che Tech Honors ha remixato tra Mary Gartside e Kaspar Hauser; quella di Transcendence Bot è un artwork elaborato da Keith Rankin e Keys To The Gate ha in copertina un’illustrazione di James Webster. L’estetica che propongono i tre si spalma dal digitale al transumano, rappresenta in toto l’idea di musica che poi i suoi componenti effettivamente imprimono in studio di registrazione. Parte della produzione ora pubblicata era già appartenente ai mixtape che i singoli membri dei DDS avevano prodotto e che ora vengono riproposti in viniletramite 100% Elettronica, label e casa di riferimento.

Il primo disco che prendiamo in considerazione è Keys To The Gate, il quale si compone di dodici brani e che descrivono loro stessi come “a cinematic and frenetic electronic album confronting personal and geopolitical fears and anxieties”. Esclusi i due interludi (LINIP Vanishing Winteril primo ammantato di etere elettronico e il secondo richiama un movimento leggiadro), la proiezione dell’ascoltatore in questo grande ambiente passa attraverso l’intro Gate Theme, quasi un minuto di tappeto d’archi immersivo, per poi distendersi su Let Them Liveun brano di ritmiche serpentine e di melodie che oscillano tra sezioni à la Muse e il synth pop retrò alla ABBA-maniera.

Per tutto l’album si alternano brani veloci, densi e con selvagge sperimentazioni elettroniche (The Glaciers Are Melting, Love Heat, Free Yourself) ad attimi di quiete, meno appesantiti dai tornanti strumentali (Soft Light Switch, Nothing Lasts Forever). Le ultime due composizioni, Dread in the Modern World e la title-track Keys To The Gate, fungono da collante ideologico dell’album: la prima si posiziona solidamente su un territorio dark ambient, mentre la seconda vuole essere una ballad che sfocia nel lirismo elettronico e simbolico (Somewhere far away/You’ll find the keys to the gate, recita la traccia), con un solo di chitarra che avvicina al pianistico finale di disco.

Con Midnight Tangerine, invece, i toni solitamente più estrosi dei death’s dynamic shroud si alleggeriscono, al fine di soffermarsi su un ambient pop emotivo, meno ballerino e più sviluppato su synth e palette orchestrali. Buon esempio è il primo dei dieci brani del disco, Who I Say I Am, il quale sollecita ed evoca, tra il pop e giochi sperimentali; a questo si uniscono d’altra parte composizioni struggenti e dolci, che riportano alla luce emozioni nostalgiche (A Part of Me, la più classicheggiante Twin Moons e la potente Autumn Hill).

L’interludio Hotel Girl anticipa forse la più emblematica delle tracce synth pop dell’album, Bleeding Of The Sun, la quale balza facilmente da un sound fine e cadenzato a ritmi più epici ed elevati. Nella seconda parte del disco, l’immaginifica Hologram World avvicina i synth a suoni videoludici, quasi materializzando la stessa strofa del pezzo “We know / The world is fantasy”; si conclude l’album con un collegamento tra il filler Apology Of The Witch e l’ultima Moon Bow, dove in entrambe la cantilena “O Lady / I’m sorry” è reiterata, con un finale tra epica ed EDM, una struttura incalzante per chiudere in definitiva un viaggio fatto di immagini ricche e metaforiche, perdurato per tutti i 41 minuti dell’album.

Conclude il trittico Transcendence Bot, un’opera invece più cupa, legata a un ambiente più contemplativo e a tratti liturgico, dove la pienezza delle composizioni emerge. Dopo essere stati accolti dalla cupa Un-reflected, si impatta in What? to be human, un’inarrestabile onda di synth e drum machine che impegna l’ascolto con continui saliscendi di anafore, distorsioni e sovrapposizioni. La coralità vocale prosegue in Threshold: Return to Me, che prosegue toccando le corde dell’industrial e, sul finale, del metalcore, con un profondo e tremante breakdown.

L’interludio Believe sembra strizzare l’occhio all’hyperpop, e la successiva Over Again è un brano più classico, con ritornelli di archi e muri di synth. Spirit of Loneliness e la title-track Transcendence Botimmergono l’ascoltatore in un soundscape avvolgente, un letto di voci e suoni che trasporta fino all’aggressiva Profane Angelic Function, uno dei singoli i cui elementi costituiscono, come scrive lo stesso gruppo, “some of the heaviest music DDS has ever made”. L’outro In The Clouds Hearing Voices si innalza con il duo vocale fino alla catarsi di un delirio sonoro, stoppato infine da uno ieratico silenzio. 

La logica del progetto Death’s Dynamic Shroud è salda, coerente e tonica in queste nuove produzioni; la trilogia che porta il collettivo al numero di quattro album nel solo 2023 è un ensemble di idee, sfaccettature, prove e maschere che gli autori provano a indossare cimentandosi in varie forme della propria musica. Se Midnight Tangerine si inoltra più a fondo nelle onde della canzone cantata e più orecchiabile, Trascendence Bot ripaga invece con maggiore cupezza, durezza sonora e atmosfere ipnotiche, mentre Keys To The Gaterievoca in salsa prettamente elettronica dubbi e incertezze del presente. Se la trilogia non si configura come la produzione catchy e accessibile al grande pubblico, sempre che ne abbia mai avuto l’intenzione, per gli amanti del genere è sicuramente una certezza, l’ottimo lavoro di un trio dalle idee sconfinate, così estese da rendere l’impressione di non aver inserito ancora tutto nel loro vorticoso frullatore. 

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Black Country, New Road: La recensione di “Ants From Up There”

È con una triste notizia che si apre l’uscita del sophomore di uno dei gruppi più ricercati nella nuova ondata britannica: il frontman Isaac Wood lascia il gruppo, a fronte della necessità di staccare dal mondo a cui i Black Country, New Road sono approdati con forza e irruenza. Il folto gruppo di Cambridge scrive e registra il suo secondo album nel corso del biennio pandemico, dopo un importante avvio ottenuto con l’ottimo For the First Time, affiancando per suoni e modalità a quella serie di gruppi che si muovono tra post-punk e talk singing, con sprazzi di post-rock ed elementi sperimentali quali Black Midi (di cui sono anche amici), Squid e Shame.

Ants From Up There

Uscito il 4 febbraio 2022, anche questo per Ninja Tune come anche il fortunato esordio, Ants From Up There mostra dietro la copertina disegnata dall’artista Simon Monk un totale di 10 tracce, che occupano quasi un’ora di ascolto. L’ascolto continuato della produzione degli Arcade Fire sotto pandemia, in particolare della bassista Tyler Hyde, sembra aver messo una buona mano su quelli che sono gli arrangiamenti del disco, ma non mancano altri tipi di artisti tra le influenze, come ad esempio Frank Ocean.

Concentra su di sé il concept dell’album l’aereo Concorde, ossia un jet supersonico anglofrancese ormai non più in funzione, rappresentato anche in cover da Monk, e che dà nome a un brano della tracklist e un senso a quel titolo immaginifico; un incidente di linea rese celebre in negativo l’aereo in questione, che ora partecipa alla metafora di un album scuro, ricco ma accompagnato dagli spettri di una mente pervasa.

Rispetto alla prima opera del gruppo, l’overture è Intro di soli 54 secondi, ma che ben si presta al mood del disco, viste le sue linee ipnotiche ma dirompenti. Punto forte della scrittura dei testi è il citazionismo assai variegato, ad esempio verso il famoso tabletop game Warhammer 40.000 (“Chaos Space Marine”) o verso altri artisti (Billie Eilish in Good Will Hunting o Charlie XCX, seppur più velato, in Basketball Shoes) o addirittura personaggi storici (il re Henry VIII in Snow Globes).

Il songwriting è alquanto profondo, scava nelle incertezze che lo stesso cantante stava affrontando durante la scrittura dei brani ed è più prolisso, ai limiti di un flusso psicologico; le emozioni sono nette ed emerse in superficie, giovanili ma più mature, che anche gli arrangiamenti vogliono manifestare tramite suoni ampi, a volte assai cupi (ad esempio l’arpeggio presente in Bread Song, quasi tendente all’emo come anche Good Will Hunting).

In Haldern, un wall of sound incontra come in un ballo gli altri strumenti, come il riff incalzante della violinista, il sax e il pianoforte. La suite finale, anticipata dalla lenta e dolce Mark’s Theme che funge da sorta di lungo interludio, si compone di tre brani che occupano da soli quasi metà album: The Place Where He Inserted The Blade ha un refrain quasi cantabile, è dolce e impetuosa allo stesso tempo; il pathos cresce e comincia a diventare spasmodico, al limite della frenesia in Snow Globes, e torna a ondeggiare nella più ambientale Basketball Shoes. La catarsi passa attraverso una produzione più solenne, ricca come identità e annidata nelle tenebrosità dell’animo di Wood e dei suoi compagni, i quali coi propri strumenti sembrano voler dare un segno della personalità di ognuno di loro.

I Black Country, New Road sono solo all’inizio, e nonostante il trauma dell’abbandono del cantante e musicista lasciano un album pieno, soddisfacente, che avvalora i tratti dello stile del genere in cui è inserito e ispessisce la caratura del progetto. Il concept e la strutturazione del disco sono pensati e omogenei, già più maturi del loro ottimo primo album. Si vedrà come andrà da qui in avanti dopo lo shock dell’uscita del cantante dal gruppo, ma la band inglese ha dato già valide dimostrazioni e idee precise.

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