Gabriele Salucci

The Music Revival Week: My Bloody Valentine – Loveless

Ci sono album che lasciano un segno indelebile nella storia della musica, tracciando una linea che definisce un “prima” e un “dopo”. “Velvet Underground & Nico” e “White Light/White Heat”, ovvero primi due album dei VU. Il debutto della Jimi Hendrix Experience con “Are You Experienced”. La maturità dei Sonic Youth con “Daydream Nation”. Tutti esempi che hanno come comune denominatore una particolarità: hanno reinventato il modo di suonare la chitarra elettrica. Con “modo di suonare la chitarra” non va inteso come virtuosismo o stili chitarristici differenti, ma piuttosto come un approccio allo strumento totalmente innovativo. L’uso della forte distorsione dei VU al fine di abbattere ogni forma di silenzio, il feedback uscito dai Marshall di Jimi durante Foxy Lady che sconvolse il pubblico di Monterey, fino ad arrivare alle accordature alternative di Thurston Moore (g. SY) ad emulare un drone-sound. Pura Avanguardia Chitarristica. 

“Loveless” è il secondo album in studio della band irlandese My Bloody Valentine, pubblicato il 4 novembre 1991 per l’etichetta inglese Creation Records. “Loveless” ha assunto un’importanza capitale per la definizione di nuovo sottogenere dell’alternative-rock: lo shoegaze. Genere che intreccia chitarre distorte, noise e melodie sognanti, creando un sound etereo e ricercato. Proprio per questa ragione le strumentazioni delle band si fecero così complesse, con l’utilizzo di vari pedali con effetti come flanger o chorus, che gli artisti si esibivano sul palco con la testa china rivolta verso il basso per controllare costantemente l’effettistica. Sarà proprio questo comportamento ad etichettare le band di questa scena con il termine “Shoegaze”, storpiatura della parola inglese “Shoegazing” ovvero “fissare-lo-sguardo-sulle-scarpe”.

i My Bloody Valentine nell’88: da sinistra, Bilinda Butcher (guitar and vocals), Kevin Shields (guitar and vocals), Debbie Googe (bass) e Colm Ó Cíosóig (drum)

L’origine del genere “Shoegaze” affonda le sue radici negli anni sessanta, fra le armonie vocali intrecciate dei Beach Boys ed il “Wall of sound” di Phil Spector (si ascolti “Be My Baby” delle Ronettes del 1963). Ma saranno i Velvet Underground ad utilizzare per la prima volta il feedback di chitarra (a.k.a “effetto Larsen”), creando i primi esempi di composizioni distorte e noise (“Sister Ray” del 1968) caratteristici della futura scena shoegaze. La scena punk di fine anni settanta, che già aveva creato una spaccatura con il passato, si contaminerà con varie sfumature, dando vita a svariati generi, fra cui la scena alternative rock, figlia della logica DIY.

Sarà la band alternative inglese The Jesus And Mary Chain che ripescherà dal passato queste sonorità, rielaborandole anche con spunti garage-rock debuttando in studio nel novembre 1985 con “Psychocandy”, pubblicando il primo prototipo del genere. Nel frattempo, band come Spaceman 3 e Sonic Youth sperimentarono nuove forme musicali, spingendo le distorsioni al massimo, facendo a pezzi la “canzone”.

I My Bloody Valentine raccoglieranno l’esperienza di tutti questi gruppi e la misceleranno con il dream-pop inventato dai Cocteau Twins, arrivando a pubblicare il loro debutto in studio “Isn’t Anything” nel novembre 1988. Se con “Loveless” i MBV raggiungeranno la vetta artistica, con “Isn’t Anything” porterà all’esplosione della scena shoegaze, influenzando molte band, come Slowdive, Ride, Lush, ed ottenendo un buon successo della critica.

Nel febbraio 1989 Kevin Shields, principale compositore della band, entra in studio con lo scopo di dare un seguito a “Isn’t Anything”. I manager della Creation Records avevano pianificato circa cinque giorni di registrazione, tuttavia, appena scoprirono che Shields aveva in mente tutt’altro andarono di matto. Le sessioni di “Loveless” durarono circa due anni, periodo in cui Shields sperimentò nuove sonorità e approcci nuovi alla chitarra. Come la caratteristica “glide-guitar”, una tecnica innovativa di suonare la chitarra elettrica che sfrutta la leva del ponte, che, assieme ad una distorsione riverberata, genera un effetto onda eterea, un suono che non si appiattisce mai, ma rimane “ondulatamente” costante.

Un vero e proprio “Wall of sound”. Un suono senza precedenti. Come Brian Wilson con “Pet Sounds”, Kevin Shields registrerà l’intero album da solo, suonando tutti gli strumenti. Scelta dettata dallo stesso Kevin che, avendo bene in mente il suono che voleva produrre, da un punto di vista pratico gli risultava più facile imbracciare una chitarra e un mixer piuttosto di dover perdere tempo a spiegare la sua idea a qualcuno. Per questa ragione anche i collaboratori in studio furono rilegati a svolgere mansioni ridicole, come rimanere fermi a guardare oppure premere un solo pulsante sotto precise direttive dell’artista irlandese. Nel periodo delle registrazioni di “Loveless” uscirono due EP “Glider” e “Tremolo”, rispettivamente nell’aprile del 1990 e nel febbraio 1991, che anticiparono un po’ la direzione intrapresa dai MBV durante le sessioni di registrazione del nuovo LP.

Alcuni componenti della band apportarono un contributo fondamentale. Il batterista per problemi personali non potette presenziare in studio durante le sessioni, per questa ragione Kevin gli chiese di campionare dei beat di drum che poi sarebbero stati usati per i brani. Una figura fondamentale per questa fase fu Bilinda Butcher, che oltre a scrivere un terzo dei testi dell’album, presta una voce sognante e sensuale.

“Spesso, registravamo il cantato alle 7 e 30 di mattina. A quell’ora, di solito, mi ero appena addormentata e dovevo essere svegliata per cantare” ricorda la chitarrista in un’intervista. L’idea di Kevin Shields era proprio quella di mixare la voce di Bilinda come un vero e proprio strumento musicale, conferendo un suono sfuggente e suggestivo. Nella lirica dell’album invece possiamo trovare tematiche ricorrenti, come l’amore, la lontananza emotiva, la solitudine ed una sorta di struggente nostalgia. Tuttavia, i testi spesso si perdono in un mare di suoni eterei, creando un’atmosfera sognante e onirica. 

La prima traccia si chiama “Only Shallow”, che si apre con un passaggio di batteria che ci spalanca le porte del mondo di Kevin Shields, fatto di glide-guitar e distorsioni. Il cantato di Bilinda è semplicemente celestiale, rimane in sottofondo sospeso in balia della wave. I feedback di “Loomer”, seconda traccia del disco, compongono una melodia onirica ricamata su un tappeto di chitarra battente. “Touched” è l’unica traccia non composta da Shields, ma bensì dal batterista. Si tratta di un monologo strumentale fra campionamenti dal sapore sinfonico.

“To Here Knows When” è uno spettacolo, la voce di Bilinda si fa può rarefatta, immersa in un mare di glide-guitar, insieme alla batteria, quasi impercettibile, per poi svanire nella coda di feedback. Il brano era già stato pubblicato nell’EP “Tremolo”. “When You Sleep” è uno dei grandi classici del gruppo, caratterizzato da un riff inconfondibile e dal duetto Shields-Butcher. “I Only Said” rallenta, sfoggiando un ritmo ipnotico e circolare. “Come in Alone” entra potente, settata sugli alti, con un registro corale della Butcher. “Sometimes” ha il sapore di una ballata acustica avvolta da un basso ruggente. è Kevin Shields con la sua glide-guitar, nudo e crudo.

“Blow a wish” ha le sembianze di una filastrocca, mantenendo un beat allegro e una chitarra impercettibile. “What You Want” riprende un ritmo sostenuto, mentre sul finire, un campionamento ci traghetta verso la conclusiva “Soon”. Sette minuti di ritmo Madchester, con un motivetto negli intermezzi che ci costringe a ballare. Uno dei brani più interessanti del disco, apparso come traccia di apertura dell’EP “Glider”.

(Kevin Shields durante un live. Si può notare come l’artista irlandese usi la leva del ponte durante lo strumming)

“Loveless” ha influenzato molte band della scena alternative, come e gli Smashing Pumpkins, i Cure ed i Radiohead. Quest’ultimi furono influenzati in particolare dal suono delle chitarre. L’esplosione dell’album è stata talmente potente che l’eco dei MBV si è propagato fino ai giorni nostri, con una nuova scena “shoegaze” con band come Alvvays, Wednesday e Parannoul. Anche nel panorama contemporaneo italiano si trovano alcuni esempi, come Glazyhaze e Clustersun.

«”Loveless” spara un proiettile rivestito d’argento verso il futuro, sfidando tutti i concorrenti a cercare di ricreare la sua miscela di umori, sentimenti, emozioni, stili e, sì, innovazione.»
(Dele Fadele, NME, novembre 1991)

VOTO: 10/10

/ 5
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Being Dead: La recensione di “When Horses Would Run”

  • Being Dead – When Horses Would Run
  • 14 Luglio 2023
  • ℗ Bayonet Records

I Being Dead – Falcon Bitch, Gumball e Ricky Moto – prima di essere una band, sono un trio di amici per la pelle. Questo aspetto emerge molto nelle loro composizioni, che oscillano fra lo scherzo e la sincerità. Ed il loro debutto in studio, “When Horses Would Run”, ingloba proprio questa atmosfera, con l’aggiunta di un titolo accattivante che rimane un po’ sospeso, incompleto, anche se il quadro risulterà chiaro appena metteremo il disco sul piatto. 

La genesi dell’album risale al 2017, periodo in cui la band inizia a buttare giù del materiale. Nel 2018 esce il loro primo singolo “Perks of Death” che si immette su un binario ben preciso: Testi allucinati e ritmo punk-garage/psych. Qualche mese più tardi è la volta del secondo singolo “Wild Man”, il cui sound risulta più morbido rispetto all’esordio, rimandando a sonorità beat, mantenendo la stessa linea di testi. Il cambio di rotta avviene nel 2019 con l’uscita dell’EP “Fame Money Death By Drive By” dove si avverte un aumento di qualità, in particolare nell’arrangiamento dei brani. I Being Dead si divertono a stravolgere il formato-canzone, cambiando ritmo, momenti psichedelici, controcanti alla Beach Boys e chitarre punk. La formula è stata trovata. Tuttavia, dall’uscita di Fame Money si dovrà attendere fino al 2023 per vedere l’uscita di “Muriel’s Big Day Off”, primo singolo estratto da “When Horses Would Run”.

Perks of Death | Being Dead

“When Horses Would Run” ci proietta in paesaggi vividi: distese desertiche, scantinati sporchi, colline lussureggianti. I Being Dead ci prendono per mano, portandoci nel loro mondo, in cui possiamo immergerci in storie di taccheggiatori spensierati, cowboy ribelli e gli ultimi momenti di un Buffalo solitario sul campo. 

“Muriel’s Big Day Off” è un brano che mostra il processo creativo dei Being Dead, in cui la l’istinto è preferito ai laboriosi tecnicismi. È stata ispirata da un trip di LSD di Falcon Bitch e Gumball, in cui – dopo aver bevuto vino sulla veranda e “essersi divertiti molto con un albero” – sono tornati a casa, innamorati dei disegni delle loro dita sulla chitarra piuttosto che del modo in cui suonavano gli accordi.  La canzone racconta di un personaggio chiamato Muriel e del suo migliore amico Friedrick, che trascorrono la giornata facendo esattamente ciò che vogliono: girare per la città, bere tè e rubare. “The Great American Picnic” in apertura oscilla fra una canzone di surf-rock e una canzone dei Siouxsie and the Banshees.

Il mondo fantastico di “When Horses Would Run” offre anche delle piccole composizioni, ma che nel contesto funzionano molto. Come “God vs Bible” un motivetto alla “White Album” che smorza un po’ la storia, oppure la dichiarazione di intenti di “We Are Being Dead” (“Noi siamo i Being Dead, e ti aiuteremo ad avere un bel momento”). “Come On” ripropone un riff surf-rock riverberato con tonalità decadenti post-punk goth. Il disco abbassa i giri con brani come “Misery Lane” e “Livin’ Easy”, forse un po’ troppo da risultare piatte, senza spessore.

In tutta l’opera si sente la forte influenza dei Beach Boys, sia per gli espedienti vocali sia per il suono delle chitarre. Questa influenza si percepisce ancor di più in brani costruito attorno ad un’armonia vocale, come la title-track “When Horses Would Run” oppure “Daydream”, secondo singolo estratto dall’album. Quest’ultimo ripesca a pieno titolo un sound prettamente american-indie (vedi la voce della band “Team Callahan”). “Oklahoma Nova Scotia” chiude l’album e sottolinea l’inclinazione lo-fi dei Being Dead. 

L’esordio in studio dei Being Dead è un agglomerato di suoni, visioni e riverberi che sognare e divertire allo stesso tempo. Il trio, da buona tradizione texana, influenzato principalmente dal decennio 60s, sfoggia sonorità garage energiche. Sicuramente sui loro scaffali sarà presente come minimo anche una copia di “Freak Out”. A mani basse uno degli esordi più interessanti del 2023. 

VOTO: 8.2/10

/ 5
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Cory Hanson: La recensione di “Western Cum”

  • Cory Hanson – Western Cum
  • 23 Giugno 2023
  • ℗ Drag City

“Western Cum” è il terzo album in studio del leader della band californiana psych-rock Wand. Abbandonate le sonorità psichedeliche, Cory Hanson abbraccia un sound rock più tradizionale. Per questa ragione i grandi protagonisti del disco sono i riff di chitarra (“Housefly”), a cui si alternano anche momenti country-folk e cavalcate southern-rock (“Wings”).

Cory Hanson sembra aver trovato il suo posto nel mondo, non ci sono forzature. L’influenza di “Harvest” si fa sentire in varie parti del disco, soprattutto in venature country, fino a mischiarsi con una tonalità di Jerry Garcia alla “American Beauty” (“Persuasion Architecture”). 

In mezzo a cotanto revival e volontà di attualizzare certe sonorità, il disco “inciampa” in soluzioni “già sentite”. Beh, la probabilità di caduta, se così si può definire, era comunque alta, considerando che la chitarra 70s è stata esplorata in lungo e in larg. Cory tenta di smorzare, allontanandosi dalla forma-canzone con brani come “Driving Through Heaven”. Una composizione lunga oltre i dieci minuti che si lascia andare a fraseggi lisergici, con una chitarra distorta il cui suono è sicuramente parente alla lontana di “And Your Bird Can Sing” dei quattro baronetti, power-chords a creare un tappeto perfetto per le sue jam ed attimi delicati in cui si ricorda all’ascoltare che la dinamica è l’aspetto più importante della musica.

Interessante è la doppia personalità di “Horsebait Sabotage”, che alterna fendenti di chitarra distorta ad atmosfere che avremo potuto ascoltare durante un acid test di Ken Kesey con ospiti dei Sonic Youth in versione hippies. “Ghost Ship” entra a pieno titolo nella playlist “Road songs”, country-rock baby! “Twins” è la chiara dimostrazione che si può fare un pezzo retrò anche senza essere macchinosi, ma in un modo semplice e sincero. E funziona. 

Cory durante tutte le tracce segue la linea della spontaneità e ne esce un disco scorrevole e di piacevole ascolto, anche se tuttavia si rivolge ad un genere vintage che al giorno d’oggi rappresenta una nicchia nel panorama musicale contemporaneo. Ciò detto, “Western Cum” è un ottimo compagno di viaggio attraverso campagne e distese desertiche, non vi deluderà.

VOTO: 7.5/10

/ 5
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Black Country, New Road: La recensione di “Live at Bush Hall”

Il 2022 ha rappresentato un vero anno di svolta per la band inglese. A cominciare
dall’abbandono di Isaac Wood a causa di problemi di salute mentale, avvenuto
proprio a ridosso dell’uscita del secondo disco in studio “Ants From Up There”. Il
successo che si è portato dietro questo lavoro, elogiato ad unanimità dalla critica,
non ha distratto il resto della band, messa di fronte alla Scelta: andare avanti o
chiuderla qui? The show must go on!

  • Tyler Hyde (bass guitar, backing vocals, lead vocals)
  • Lewis Evans (saxophone, flute, lead vocals)
  • Georgia Ellery (violin, backing vocals)
  • May Kershaw (keyboards, piano, backing vocals, accordion, lead vocals)
  • Charlie Wayne (drums, backing vocals)
  • Luke Mark (guitar, backing vocals)
  • Isaac Wood (lead vocals and guitar) – uscito dalla band nel febbraio 2022

La prima volta che vidi un live dei BCNR percepì una enorme energia provenire da
questi ragazzi. Guardate i loro occhi. Soffermatevi sui loro sguardi. Le loro anime
danzano al ritmo dei loro strumenti. In ultimo, ma non certamente per importanza,
vi è una grande amicizia che li lega fra loro. Ed è stata proprio quest’ultima a salvare
i BCNR dal loro scioglimento, perché alla fine questo sono, un gruppo di amici che
vogliono semplicemente fare musica. The show must go on!

Febbraio 2022. I BCNR orfani di Isaac decidono coraggiosamente di lasciarsi alle
spalle tutto il repertorio cantato da Isaac (da ricordare che il primo album “For The
First Time” era stato nominato per il Mercury Prize 2021 e anche il già sopracitato
“Ants From Up There” avrebbe poi riscosso un buon successo nel corso del 2022) e
di rinchiudersi in studio per lavorare a del materiale totalmente originale,
cancellando i live in programma nei prossimi mesi. Il processo è stato folle e veloce,
la scrittura è stata affidata a chiunque membro della band avesse un’idea. Questo

ha portato ad avere un set con brani scollegati fra loro. Tuttavia, la qualità che ne è
uscita è talmente alta da mandare in secondo piano questo “difetto”, se così si può
definire.

In tutti i testi si respira la figura errante di Isaac. “Torna a ridere di nuovo delle tue
stesse canzoni” canta Tyler in “Laughing Song”, ma anche in “Across the Pond
Friend”, cui Lewis sogna di rivedere il “suo amico dall’altra parte dello stagno” e di
abbracciarlo ancora una volta. Gli esempi si sprecano. Il grido di amicizia di “Up
Song” riecheggia in tutta la Bush Hall: “Guarda cosa abbiamo fatto insieme, BC, NR
amici per sempre”. Il disco abbandona i suoni cupi e le distorsioni dell’esordio (per
questa ragione la chitarra emerge poco, tuttavia Luke fa un ottimo lavoro di
accompagnamento), rielaborando alcuni elementi del precedente “Ants From Up
There”. Si alternano momenti di pura energia a momenti lenti, come la bellezza
disarmante di “Turbines/Pigs”, circa nove minuti per una suite struggente in cui la
voce di May Kershaw tocca vette celestiali. Il racconto dal sapore Tolkieniano di
Robin ,“The Boy”, tra foreste, talpe e cervi solitari, alla ricerca di una cura per le sue
ali rotte. La qualità delle registrazioni è talmente alta che quasi non si percepisce che
la performance in realtà è dal vivo di fronte ad un pubblico. Le canzoni hanno
dinamica, un “roller-coaster” di suoni ed emozioni, che non stucca mai, arrangiato
sempre con garbo, stile ed originalità. La partenza di Isaac non ha scalfito la
macchina dei BCNR. Nella Bush Hall sono tutti sono a loro agio, liberi e creativi. Tyler
si trasforma in direttore d’orchestra, dettando il ritmo sincopato nella prima parte di
“I Won’t Always Love You”. Brano impreziosito anche dal suono arabeggiante del sax
di Lewis. Questo disco è la batteria di Charlie. L’uso importante dei piatti in
“Dancers” unito al suo controcanto rabbioso spazza via ogni cosa, un grido
liberatorio che satura la sala e lascia spazio al coro ancestrale di Georgia e May, che
ci traghetta verso “Up Song (Reprise)”. La conclusione riprende il tema del principio,
come a chiudere il cerchio. Una metafora di un grande abbraccio dei BCNR attorno
al loro amico… Isaac Wood.

VOTO: 9/10

/ 5
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Black Honey: La recensione di “A Fistful of Peaches”

  • Black Honey – A Fistful of Peaches
  • 17 Marzo 2023
  • ℗ Foxfive Records

“Written & Directed”, uscito esattamente due anni fa (marzo 2021), si è rivelato un
successo commerciale, numero cinque nella classifica UK e numero uno nella
classifica “indie UK”. Ciò ha portato la band inglese a puntare ancora una volta su
questo cavallo. Eh sì, perché “A Fistful of Peaches”, terzo album in studio dei Black
Honey, prosegue sulla linea già traccia dal predecessore, oscillando attorno ad
espedienti pop-rock, ma senza mai divergere in terre sconosciute. Perché alla fine “A
Fistful of Peaches” è un album pop vestito con abiti rock. Al suo interno troviamo i
singoli da classifica (“Out of My Mind” oppure “Up Against It”), sonorità che fanno
l’occhiolino a band alternative/garage oltre-oceano (“Charlie Bronson”), ma il tutto
arrangiato in maniera molto schematica. Per scalare le classifiche avere un buon grip
è fondamentale.

Una volta trovata la formula magica non è difficile rimanervi assuefatti, dipendenti.
Solo i grandi sono capaci di accantonarla, guardando oltre, con religiosa risolutezza.
Si tratta comunque di un lavoro ben suonato, sicuramente dal punto di vista
strumentale, mentre una parentesi va aperta per la voce. Non tanto la vocalità della
cantante Izzy Phillips, sempre eccellente fra sinuose danze melodiche, capace di
toccare le corde più intime del nostro timpano, ma piuttosto il ruolo della “traccia
vocale”. La voce si amalgama poco con gli altri strumenti, ma rimane sempre un po’
distante, in direzione dell’ascoltatore. Ciò emerge ad esempio in brani come
“Heavy” (altra hit da radio) e “Nobody Knows”. Un errore di mixaggio oppure scelta
stilistica?

Riguardo ai testi, la Phillips affronta tematiche molto personali, come la malattia
mentale, ispirata dall’esperienza di intensa terapia. “Ho dovuto essere più onesta e
vulnerabile con me stessa. La maggior parte di questo disco sono io che cerco di
capire dov’è il confine tra la normale salute mentale e quando invece hai dei crolli
ogni giorno, che poi alla fine diventano parte della normalità” ha dichiarato la
cantante inglese.

Il disco si apre con “Charlie Bronson” e con un riff di chitarra fuzzy che sfocia in un
ritmo accattivante, che esprime la rabbia femminile nel ribellarsi allo status di
“ragazze pacate”. Si, perché le donne si possono arrabbiare, e non perdono

femminilità in ciò. Quindi fot***evi, “There is no in between / I’ll take you down
with me”. “Heavy”, così come altri momenti del disco, danno priorità a ritornelli
trascinanti, orecchiabili, tuttavia utilizzando lo stesso espediente, che vede la strofa
seguita da un’esplosione di frenesia chitarristica. Il prevedibile testo della seconda
traccia (“La mia testa è il mio nemico”) viene rimpiazzato subito dall’ottima “Up
Against It”, brano in cui Izzy Phillips esplora più affondo il tema della salute mentale
“Concediti una pausa ragazzo / eri contro di essa, non lo sai?”. “Out of My Mind” ha
tutte le carte in regola per fare fuoco e fiamme nelle radio, un ritornello semplice ed
efficacie, ritmo rockeggiantemente pop e melodia orecchiabilissima. Con “Rock
Bottom” i Black Honey fanno uno step-back, attingendo a sonorità del loro album di
debutto. La batteria apre “Cut The Cord”, suonando come un brano indie pop dei
primi anni 2000, che non suonerebbe fuori posto nei titoli di coda di un classico film
per adolescenti. Stessa solfa per la successiva “OK”. “I’m a Man” è una canzone
carica di emozione sulla violenza sessuale, in cui Izzy si immedesima nella figura
dell’aggressore maschio, elaborando ed esorcizzando il trauma subito. Le parole
“I’m a man / ‘cause I can” ripetute durante il brano sono pugni diretti in faccia. Con
“Nobody Knows” l’atmosfera si fa più dolce, inglobando echi shoegaze e chitarre
lente. Sembra di essere in un sogno malinconico, oppure nel “sottosopra” di
Stranger Things, in cui l’inquadratura si apre ad uno scenario desolato, cupo, e noi
siamo soli, al centro del mondo. Anche se con un testo scontato (“Questa è una
canzone per i tipi strani, gli antieroi / Non ci entrerà se ci provi / Una canzone per i
mostri e gli stronzi / I bravi ragazzi sono diventati cattivi”), “Weirdos” tutto sommato
risulta gradevole, soprattutto nel ritornello. “Tombstone”, penultimo brano, ci
regala uno dei momenti più alti del disco. Un basso importante e chitarre distorte
saturano l’aria circostante. La conclusiva “Brummer” è una via di mezzo fra cantato
e ritmo degli Arctic Monkeys (strofa) e Wolf Alice (ritornello). Un modo sobrio per
chiudere un album tutto sommato buono, ma che non riesce a raggiungere i picchi
dei due precedenti album, finendo per perdersi in soluzioni ripetitive e poco
originali.

Voto: 7.5/10

/ 5
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Shana Cleveland: La recensione di “Manzanita”

  • Shana Cleveland – Manzanita
  • 10 marzo 2023
  • ℗  Hardly Art

A Giacomo Leopardi non sarebbe piaciuto “Manzanita”, terzo album in studio di
Shana Cleveland. L’artista visiva, scrittrice, cantautrice e musicista statunitense,
meglio conosciuta per aver prestato chitarra e voce nel gruppo surf-rock La Luz, si
concentra sulla natura, ricamandone attorno testi intrisi d’amore ed un tappeto di
sonorità psych-folk in pieno stile californiano. Il mondo naturale continua ad ispirare
l’artista statunitense, in parte perché è il suo luogo di lavoro. “Una parte del
trasferimento in California per me era vivere in un posto dove fosse possibile
scrivere all’aperto tutto l’anno” dice Cleveland. Il disco è stato registrato nel periodo
in cui ha avuto il suo primo figlio, un’esperienza che le ha fatto capire che non è
separata dalla natura, che nessuno di noi lo è. “Penso a questo disco come a un
disco di primavera” commenta l’artista statunitense. “In California, la primavera è la
stagione in cui la natura entra in casa. La casa è improvvisamente piena di strani
insetti. Tutto è brillantemente in fiore”. La primavera si manifesta in tutta la sua
potenza e tu non hai alcun potere su di essa. Non è un caso che l’album esca il 10
marzo, una decina di giorni prima del suo inizio, anticipando con immagini e suoni la
rinascita della vita.

Pe questo album Shana si avvale di una più ampia tavolozza di colori. Johnny Goss,
che ormai è di casa (ha registrato tutto il materiale solista della Cleveland, fra cui le
prime registrazioni dei La Luz), imbraccia il basso assieme ad Abbey Blackwell (già
nell’organico Alvvays e La Luz); Olie Eshleman è alla steel guitar; il polistrumentista
Will Sprott suona tastiere, dulcimer, Glockenspiel, clavicembalo e sintetizzatore.
Forse quest’ultimo strumento potrebbe essere inquadrato come freddo e
“innaturale”, tuttavia la Cleveland sostiene che “In realtà sono il veicolo migliore per
trasmettere i suoni della natura (insetti, vento, uccelli, motoseghe, rumore bianco
rurale); abbiamo usato i sintetizzatori per ricreare l’atmosfera di essere all’aperto
nel mondo naturale mentre eravamo in studio”. In gran parte dei brani Shana, voce
e chitarra, predilige accordature aperte (open G, ad esempio): “Sembra che si adatti
al mio cervello, è così naturale e facile per me scrivere canzoni con questa
accordatura. Trovo che suonare con accordature aperte sia molto meditativo”. Il
nuovo lavoro dell’artista statunitense dal punto di vista sonora si colloca in uno
scenario simile a quello dei due precedenti dischi solisti, lontano dai suoni surf-rock
del progetto La Luz. La motivazione è sicuramente riconducibile all’aver utilizzato
molti strumenti, al fine di ricercare un suono personale e ricco di dettagli differenti.

La maggior parte della musica che amiamo è spinta da quei bagliori di infatuazione e
lussuria, ma “Manzanita” non si conforma a questo schema, anzi basa le sue
fondamenta sull’attesa, sul tipo di amore che si può sperimentale solo con il tempo,
il lavoro e la devozione. Le combinazioni di parole e la struttura delle canzoni sono
talmente forti che al primo ascolto non si apprezza l’abile fingerpicking di Shana. I
testi sono diretti, con descrizioni stravaganti che rimandano un po’ allo stile della
penna newyorkese degli anni sessanta.

Il disco comincia con “Ghost”, un canto angelico sostenuto dal mellotron. Si tratta di
scene di vita quotidiana, ma con sempre la stranezza di fondo di riconoscere di
essere una creatura, come nella chiusura “Walking Through Morning Dew” con il suo
“Little Ozzy crawling up my lap/ To claw my playing mute/ Sometimes in his face I
think/ I’m seeing you”. “Faces in the Firelight” è rivolta sia al figlio in utero che a Will
Sprott, suo compagno di vita. “La canzone parla del fatto che Will si occupava di un
enorme cumulo di legname, che continuava a bruciare anche dopo il tramonto e si
rendeva conto che là fuori, nel campo oscuro, assomigliava all’immagine
dell’ecografia che avevamo sul nostro frigorifero” racconta l’artista statunitense.
“Stavo pensando che il più grande atto d’amore potrebbe essere quello di aspettare
qualcuno. Dire: “Sarò qui quando avrai finito, quando sarai pronto””. Dal punto di
vista musicale “Faces in the Firelight” è un brano pop con un arrangiamento
orchestrale che offre piccoli spunti di riflessione ad ogni ascolto. All’inizio Shana
canta “Faces in the firelight/ A blooming room inside the night/ Do you love me like I
do?”. Pausa. “Youuu”. L’autrice rielabora genuinamente la solita canzone d’amore,
ponendo l’attenzione sull’amore per sé stessi prima di esprimere la devozione verso
l’altro. È una considerazione umile, sincera, piccola, ma per questo è enormemente
preziosa, grande e vera. In “Mayonnaise” la Cleveland ci dichiara di aver trovato il
suo piccolo angolo di mondo, la California. “Ho sentito per la prima volta la melodia
in un sogno in cui qualcuno di nome Mayo cantava e quando mi sono svegliata
riuscivo a ricordare completamente la melodia, così l’ho cantata in un registratore
vocale”. Ma è anche un tributo Richard Brautigan, poeta molto amato dall’artista
statunitense per le “dolci e delicatamente psichedeliche scene di natura
californiana”. “”Mayonnaise” è l’ultima parola del libro più famoso di Richard
Brautigan, “Trout Fishing in America”, quindi ho pensato che avrebbe avuto senso
usare la melodia in una canzone su di lui. Cerco sempre di registrare le melodie dei
sogni, a volte sono ottime e a volte non lo sono affatto, ma mi piace come è venuta
fuori questa canzone”. “Gold Tower” prende ispirazione del libro di fantascienza “La

macchina del tempo” di H.G.Wells. L’inizio con il mellotron aiuta a settare il mood
fantascientifico. “Un giorno l’ho letto e mi è entrato in testa. È stato facile sentirmi
come in un romanzo di fantascienza mentre ero incinta e sola nella natura selvaggia
ed ho scritto la canzone “Gold Tower”, come una sorta di ponte tra la fantascienza e
la mia strana realtà”. Gli intermezzi “Bloom” e “Light on the Water”, sono agli
antipodi. Il primo è un pezzo cupo di solo mellotron che sfocia nella dolce “Faces in
the Firelight”, mentre “Light on the Water” è leggiadra, una ninna nanna che
prelude l’arpeggio di “Quick Winter Sun”. “Bonanza Freeze” è un brano acustico
interamente strumentale, asciutto, bagnato un po’ nel riverbero, con una steel
guitar a dar man forte. Essenziale.

VOTO: 8.5/10

/ 5
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Max Boonch: La recensione di “You Might Chortle”

  • Max Boonch – You Might Chortle
  • 8 Marzo 2023
  • ℗ Heavy Wild

Navigando fra le nuove proposte di questa settimana ha attirato la mia attenzione la copertina di “You Might Chortle”. Forse per il titolo accattivante “potresti ridere”, o per la spensieratezza. Probabilmente per la simpatia. O forse perché ricorda molto la cover di un album di Frank Zappa. L’artista è Max Boonch, all’anagrafe Max Boonch, su TikTok “maxboonch”, per gli amici semplicemente “Max”, un social media creator canadese noto soprattutto per i suoi video comici e per il suo modo originale di far musica. Nel momento in cui scrivo il profilo TikTok di Max conta 267k followers, non male se consideriamo che non sono passati neanche quattro anni dal suo approdo sulla piattaforma. Un post Instagram di qualche giorno fa anticipa, e allo stesso tempo riassume, il contenuto del disco: “10 delle vostre canzoni divertenti preferite online + 1 nuovo brano inedito ed un bonus”. 

“You Might Chortle” esce l’8 marzo 2023, distinguendosi fin da subito dagli altri progetti del panorama contemporaneo per la sua spiccata originalità. In primis per la modalità di concezione dell’opera (una raccolta di “video tiktok” già fruibili online), in secundis per gli arrangiamenti dei brani che calzano a pennello con la retorica pungente di Max. Quest’ultima rappresenta il vero cuore dell’album. Pura satira. A questo punto vale la pena spendere due parole per l’etichetta che ha prodotto questo gioiellino: la Tinpot Records. Etichetta fondata nel 2021 dal cantautore londinese Tom Rosenthal con l’ambizione di creare un luogo in cui si sentisse a suo agio a firmare.

La cosa curiosa è che, nonostante le canzoni di Tom abbiano guadagnato più di un quarto di miliardo di stream (consiglio l’album del 2018 “Z-Sides”, un songwriting caldo ed acustico, un cuscino di nuvola), lui si è sempre autoprodotto e non ha mai avuto un’etichetta. Molte di queste, soprattutto le major, utilizzano da tempo strutture di sfruttamento che limitano gli artisti in vari modi. Per questo motivo, Tom ha progettato un’etichetta con il solo obiettivo di mettere al centro l’artista. Un’etichetta gestita da artisti per artisti, che promuove una comunità creativa e solidale. 

You Might Chortle

“Thinking Problem”, debutto in studio di Max Boonch era uscito nell’aprile 2020, in piena pandemia Covid-19. Un lavoro sofferto, che ha visto una gestazione di oltre sei mesi da parte dell’artista canadese. A posteriori possiamo definirlo un disco più canonico rispetto a “You Might Chortle”, una raccolta di brani indie-folk con una forma-canzone tradizionale. Ma con il secondo lavoro in studio, Max cambia definitivamente rotta.

La durata consigliata di un video caricato su YouTube, al fine di massimizzare la monetizzazione, quella dei tempi supplementari di una partita di calcio nel campionato allievi. 

La durata ideale di un rapporto sessuale, secondo gli ultimi studi. 

Il tempo record mondiale di raccolta di tartufi (3.6 chili). 

La durata di “You Might Chortle”. 

10 minuti.

Iniziamo con “Ironic Anymore”, una canzonetta orecchiabile, la cui progressione ricorda vagamente “Sweet Jane” dei Velvet Underground. Dalla prima battuta si intuisce il taglio di Max: “Non voglio più essere ironico, mi piace davvero rivedere il Jersey Shore, ed è proprio così che mi sento”. Tradotto per l’italiano medio: “Non voglio più essere ironico, mi piace davvero rivedere il Grande Fratello, ed è proprio così che mi sento”. Il protagonista sta lottando con tutte le sue forze per essere “fucking for real” (fottuto per davvero), ma viene comunque scartato ad un provino. Si consola con una ventina di magliette All-Stars con stampati sopra dei cuori. 

“Attention Span Man” rimane sullo stesso stile musicale dell’inizio. Il titolo del brano rimanda un po’ all’universo dei supereroi. Max è l’uomo con la soglia di attenzione bassa, un superpotere invidiabile! Ha letto in vita sua solo tre libri: “Chi sono i Beatles”, “Diario di un bambino fifone” e “Diario di un bambino fifon-Rodrick Rules”. Ma è anche il “Mr. Next”, l’eterno procrastinatore. Ma è anche il sig.“Horseshoe Shaver” ed il sig. “Minecraft Puzzle”. Si rifugia nello yoga per trovare la concentrazione, ma niente da fare (“Meditation yoga app is a lie”). In conclusione, la scenetta tiktok viene interrotta dall’arrivo di un sms del suo vicino di casa Steve: “Smettila di cantare dal piano di sotto. Sono le 2 del mattino, alcuni di noi domani dovranno andare a lavorare!”. 

“YouTube Thumbnail” ha un ritmo folkeggiante, con al centro il tema dei titoli “clickbait”. Strategia che in questo universo viene applicata anche ai libri e al cinema. “Scommetto che inizieremo a vendere molti più libri se cambiassimo la copertina, mettendo titoli come “1000 persone vedono per la prima volta”, oppure “ho passato 50 ore sepolto vivo”. Ed invece abbiamo titoli come “Twilight”, “Moby Dick” ed “Il signore delle mosche”. Max conclude con un’intuizione: “potemmo usarlo [il titolo “clickbait”] per le notizie giornalistiche, ma credo che lo facciano già”. Geniale! 

“Bo Bridgers”, uscito a luglio 2022 su tiktok, è un brano pop molto orecchiabile che ha assunto una connotazione quasi profetica. “E se Phoebe Bridgers avesse un figlio con Bo Burnham..”. Da inizio anno alcuni giornali di gossip hanno diffuso dei rumors su una possibile loro frequentazione. “..Sarebbe un episodio crossover per i loro fan. È l’ereditiera per il regno delle persone fastidiose, un figlio per governare la terra dei bastoni e dei poke” prosegue Max. Fino ad una versione indie della Bibbia, che profetizza un messaggio sarcastico in falsetto: “Gesù sono pronto, ti prego, salvaci dal Saturday Night Live, abbiamo bisogno di te, puoi sentirmi o la profezia è una bugia del tipo TMZ”. Ma forse non questa volta.

“How To Tell”, traccia vestita di pop e truccata con colori che fanno riflettere sul rapporto uomo-tecnologia. “Non me ne può fregare di meno del tuo oroscopo, dimmi solo quali sono le app che il tuo cervello ha deciso di mettere in fondo al tuo telefono”. La personalità umana proiettata nella tecnologia di tutti i giorni. Se non hai settato la configurazione (da sx verso dx) come Safari, Music, Messages and telephone, allora sei una persona strana. Se invece hai settato la configurazione cui sopra, allora sei una persona noiosa. Max applica la stessa riflessione anche al tema degli emoji. “Non c’è quiz di tipo INTJ che tu possa mai fare che possa battere la visione della pagina delle emoji che usi di frequente”. Tanto veritiero, quanto inquietante. 

In “The Company TikTok” Max consiglia ad alcuni profili tiktok di avvicinarsi al linguaggio dei ragazzini, così da sentirsi come se Slim Jim fosse loro amico quando parla con meme popolari. Una carrellata di POV’s memes. “POV: sono morto! Tagga qualcuno che faccia un duetto, e che per favore scopra quale articolo di Burger King mi rappresenterà”. Possiamo trovare motivetti migliori.

“Panik Attack Song” è un vortice di problemi. Fra paure che crescono, occhi che ingannano, saliva che manca, sudore che c’è nel sedere.. È solo un attacco di panico. Il ritmo frenetico del brano si sposa alla perfezione con il tema, così come il video tiktok registrato per l’occasione. “È solo un attacco di panico. I miei polmoni si staranno divertendo”.

In “This isn’t it” Max scava nei suoi ricordi, tirando fuori una scenetta d’amore adolescenziale. Un film assieme, il suo braccio attorno alle sue spalle, la condivisione di un bacio, il tutto con in sottofondo “Beat It” di Michael Jackson (“Non eravamo ancora a conoscenza del suo passato”). Il ragazzo canadese uscirà deluso da questa esperienza (“Non credo che le sia piaciuto, avrei potuto usare il burrocacao”), e con la frustrazione fra le mani stroncherà MJ su Rotten Tomatoes (“Not a very romantic movie! Very stressful watch”). Musicalmente il brano si presenta come una ballata acustica, fino all’ingresso del beat, che trasforma l’atmosfera folkeggiante in un pop degno dell’innocenza che si può avere a quell’età.

“Is It Normal?” è una serie di interrogativi sentiti, sensati, ingenui. “È normale avere un milione di mail non ancora lette? Piangere dopo l’ennesimo rewatch di “Cambia la tua vita con un click”? è molto triste quando ignora suo padre e poi invecchiando si ritrova da solo, fino in punto di morte. E questo sarebbe un film per bambini?!” Il groove scandisce le domande di Max con una cadenza regolare, l’accompagnamento in sottofondo conferisce simpatia al brano. Atmosfera piacevole.

“Chunk of Brain” nasce da una notizia trasmessa dalla stazione statunitense “National Public Radio” (NPR): il nostro cervello non si svilupperà completamente prima di aver compiuto venticinque anni. Su questa premessa Max ricama un motivetto molto evocativo, fra i nei di Tom Holland, chi ha inventato i pantaloni con le ginocchia increspate e il cringe intrinseco per chi è nato fra due linee generazionali. Riporto gran parte del testo, perché anche voi possiate apprezzare il genio di questo ragazzo. “C’è un pezzetto di cervello là fuori che fra due mesi arriverà, ed io conto davvero che il pezzetto sia di dimensioni abbastanza grandi e conosca tutte le risposte ai miei chi, dove, quando e perché.

Chi ha inventato i pantaloni con le ginocchia increspate e dovrebbe essere incriminato per un crimine o in che tipo di cringe mi inserisco se sono nato tra due linee generazionali (Gen Z vs Millennials) e dove tengono il neo di Tom Holland da quando l’hanno scritturato in Spiderman 5 o quando troverò un lavoro regolare invece di googlare parole che fanno rima.” Alla fine, il pezzo di cervello mancante bussa alla porta, Max apre tutto contento e la materia grigia esordisce con: “Come si cucinano le fettuccine Alfredo?”. 

“Awkward Death” è una folk acustico in cui Max si immagina scenari di morte imbarazzanti, come soffocare con la propria saliva oppure slogarsi una caviglia. Il ragazzo deve essere un fan di “1000 modi per morire”. Alcune scenette sono davvero esilaranti. “Spero di non morire in un luogo imbarazzante, come mentre scorreggio in pista da ballo, oppure mentre sto spingendo una porta o mentre sto aprendo il tuo soft-core porn della sera prima nell’alimentari sotto casa”.

“When I Said LOL” è una bonus-track veramente singolare. Max sconvolge il significato di alcune espressioni del linguaggio comune, rivelando la vera intenzione dietro tali parole. Quel che emerge è un dialogo surreale, instabile, un po’ come quello instaurato fra Woody Allen e Diane Keaton nell’iconica scena sul balcone del film “Annie Hall” (1977). “Quando ho detto LOL, non ho riso. Quando ho detto ha ha ha, non l’ho fatto affatto”. Le parole scorrono talmente veloci che non facciamo neanche caso al tappeto musicale in background. Ci accorgiamo della sua esistenza solo duranti alcuni obbligati verso la fine del brano. Gradevole.

“You Might Chortle” è un album estremamente particolare, non convenzionale. Molto azzeccata l’idea di Max di far conciliare LP e social network. La probabilità che venisse fuori un lavoro scadente era alta. Tuttavia, l’artista canadese è riuscito a tirare fuori dal cilindro un disco fresco, divertente e molto attuale, sia dal punto di vista dei temi trattati, sia per gli arrangiamenti musicali scelti.

/ 5
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Errorr: La recensione di “Self Destruct”

“Self Destruct” è il debutto in studio degli Errorr, un viaggio intriso di
contaminazioni oltre tempo. La console della Delorean lampeggia “Alternative
scene 80-90”. Sonic Youth, Pixies, la scena grunge di Seattle, My Bloody
Valentine, sono solo alcuni dei traghettatori di questo lungo (circa 40min) trip.
Un album sincero, che non tradisce mai le sue origini, ma anzi ne va fiero,
dando sfoggio di un muro di suono avvolgente, compatto e caloroso.

Per chi è addentro alla scena alternative-underground contemporanea, il nome
Leonard Kaage dirà sicuramente qualcosa. Polistrumentista svedese che si è
distinto per le sue molte collaborazioni, fra cui The Underground Youth (cui
ricopre il ruolo di produttore e chitarrista), Kristof Hahn (membro degli SWANS),
Holy Motors, The Brian Jonestown Massacre, e molti altri. I progetti citati, che
vanno dal dream pop, all’ambient, all’indie-rock, al post-punk, allo shoegaze,
metteranno le fondamenta per gli Errorr, progetto lanciato dallo stesso Leonard
nel 2019. I primi demo, prodotti ed arrangiati interamente dall’artista svedese,
sono stati sviluppati nel suo studio, nei ritagli di tempo dai progetti cui sopra, fra
lavori di registrazioni e tour in Europa, Asia e Stati Uniti. Con il tempo l’organico
si è ampliato, inglobando anche Nick Mangione, André Leo (frontman dei
Medicine Boy) e Adriano Redoglia, rispettivamente al basso, chitarra e batteria.

“Self Destruct” uscito il 3 marzo 2023 per Anomic Records (etichetta
underground berlinese) è un debutto sofferto, che si può definire un “quasi”
lavoro solista del polistrumentista svedese. Interamente scritto e prodotto da
Leonard, che presta la sua arte con ogni strumento (guitar, drum, bass, organ,
piano and vocals), oltre al suo seminterrato per la registrazione. André Leo
imbraccia la chitarra in più di metà album, dando manforte a Kaage, producendo
un suono crudo e diretto. Il tutto impreziosito da un basso fuzzy, suonato in
alcune tracce da Nick Mangione. Nota a pié di pagina: alcuni beat sono
dell’ingegnere del suono berlinese Mathew Johnson. Il mixaggio, ad opera
(sempre) di Kaage assieme a Oskar Lindberg, è stato effettuato allo Svenska
Grammofon Studio (SGS) di Göteborg (Svezia), studio di grande prestigio che
ha ospitato in passato giganti, quali Rolling Stones, Miles Davis, David Bowie,
Led Zeppelin, Stevie Wonder, ecc. Il mastering non è da meno, si parla di
Frederic Kevorkian, figura legata a The White Stripes, Beyonce, Iggy Pop e molti
altri.

Come anticipato precedentemente, “Self Destruct” è sincero. Già dalla prima
traccia ci possiamo già farci un’idea di quale direzione prenderà il disco.
Direzione mai del tutto sconvolta (salvo rari casi), addolcita solo con le pillole
che hanno fatto grandi gli esponenti dell’alternative a cavallo fra ’80 e ’90. Il
feedback dei Sonic Youth. La dinamica dei Pixies. La chitarra graffiante del
grunge americano. Il muro di suono di Kevin Shields. In “Innocent” Kaage parla
di controllo sulle menti altrui. “Sono solo un soldato e metterò in pratica i tuoi
comandi / obbedirò alle tue religioni / forse dovrei tenere un’arma / forse dovrei
premere il grilletto”. “Sixxx” ti fissa dall’alto verso il basso, ostentando una
sicurezza che in realtà maschera una debolezza di fondo. “tu pensi di avere una
sorta di dote divina / ma sei soltanto sei piedi sotto tutti noi”. La saturazione ha
un maggior sustain rispetto all’inizio. In “Just Another” si intravede un cambio di
ritmo, un beat più lineare accompagnato da una linea vocale leggermente
melodica. Distopia di un sistema malato, che pur essendo ormai prevedibile,
risulta inarrestabile. “Ho già visto il disegno che stai cercando di dipingere / ho
già visto il sistema che stai cercando di creare”. “Deep Blue” tira il freno, per poi
esplodere sul finale. Un tuffo alla ricerca di sé stessi. “Non riesco a vedere la
terraferma attraverso la tempesta / non riesco a dire cos’è vero / non riesco a
vedere davanti a me attraverso le bottiglie vuote / non riesco a vedere sopra la
mia testa, in fondo al mare”. “Paranoia” riaccende il gain. L’intero brano suona
come un estremo grido di aiuto. “Ho bisogno di qualcuno che mi scuota / ho
bisogno di qualcuno che mi mostri cosa è reale”. “8 hours, 5 days” è forse la
canzone più vera del disco. Veicola un messaggio tanto semplice, ma
estremamente attuale nella nostra epoca. “Non dovrei avere ragioni per esser
pazzo / ringrazio tutti i privilegi che ho / ma in tutta la mia vita non riesco a capire
/ perché il duro lavoro dovrebbe rendermi libero”. È pura rabbia, feedback,
dissenso, ribellione, distorsione. Una vera perla. “Heroine (got to let go)” si
mantiene sulle strutture già viste nel corso dell’ascolto. Quando si parla di droga
è difficile non cadere nel cliché, e gli Errorr ci affossano entrambi gli scarponi.
“So che lei ti manca e non è la stessa cosa / senza la sua eroina”. Forza Kaage
puoi fare di meglio. 56 anni fa New York cantava “Non so proprio dove vado /
ma proverò a aggiungere il regno se ci riesco / perché mi sento un vero uomo /
quando infilo l’ago in vena”. “Not Even Bored” è l’ennesimo brano alternative
tradizionale, senza fronzoli, non sono d’accordo con il titolo. “Dimmi tutti i tuoi
segreti / e non sarò più annoiato”. Gli Errorr hanno ancora gli scarponi
impantanati. Con “Something” inizia una sezione dell’album più moderata, se
così possiamo definire, che abbraccia atmosfere più morbide e smussate
rispetto ai muri di suono. In un sistema in cui i politici disquisiscono sul niente,
l’artista svedese ci propina una tiritera che ci ripete che “qualcosa accadrà”. Il
groove del brano si fa sempre più sinuoso. Kaage è un disperato che ti fissa
diritto negli occhi, ripetendoti allo sfinimento che “something’s gonna happen”.
Ciliegina sulla torta, dei passaggi di chitarra in background che ricordano molto

le chitarre di “I’m only sleeping”, quando i Beatles giocavano a riprodurre i nastri
al contrario. “Makeshift Happy” ha una strofa che fa tanto “Definitely Maybe”, sia
per l’arrangiamento sia per il modo di cantare di Leonard. “Vorrei poterti leggere
/ ma sono senza parole. / Vorrei poterti liberare / ma tu preferisci restare. /
Qualsiasi cosa ti renda felice / per sempre sogni improvvisati”. Un simile testo
me lo sarei aspettato, ad esempio, da un artista della scena mainstream italiana,
oppure come testo proposto ad una competizione poetica delle scuole medie. In
ogni caso non fa differenza, il peso è lo stesso. La musica salva ancora una
volta in corner gli Errorr. Dalla scuola media possiamo al cimitero. “With Love
from the Grave” ci setta di nuovo su onde sinistre, atmosfera Black Sabbathiana
per questa penultima traccia. L’oscurità ci pervade. Pervade la stanza. Pervade
il cantato di Leonard. Ian Curtis è in mezzo a noi. Siamo in una tomba. “Guardo
dal basso verso l’alto / e qui aspetto”. In mezzo alla terra sporca aspetto, sopra
la mia testa un cielo nuvoloso. Non c’è spazio per la speranza. Arriviamo al
finale acustico di “I don’t feel like talking” che rimanda ad una Screamdelica
ricamata di riverberi. Un finale alla “Disraeli Gears”, alla “Happy Trails”. Un
brano inaspettato, che conclude un viaggio sonoro intenso.

“Self Destruct” è un titolo coerente con la retorica proposta da Kaage, che
tuttavia qualche volta ricade nel cliché. Mancanza sopperita dall’ottimo lavoro di
mixaggio in studio. Non siamo sicuramente di fronte ad una novità, ma ad un
disco della scena alternative contemporanea suonato molto bene, con dinamica,
qualche pizzico di fantasia, e tanto gain. “Self Destruct” brilla della luce riflessa
di “8hour, 5days” miglior pezzo del disco. Forse gli Errorr avrebbero dovuto
approfondire di più questo raggio di luce.

Voto: 7.5/10

/ 5
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Master Peace: La recensione di “Peace of Mind”

  • Master Peace – Peace of Mind
  • 24 Febbraio 2023
  • ℗ Jasmine Music Ltd. / PMR Records

From indie-pop to “punk”. Questa è la formula vincente di “Peace of Mind”,
nuovo EP dell’artista inglese Master Peace. In questo caso con “punk” non è da
intendersi il fenomeno musicale Ramones o Sex Pistols, ma in senso lato.
Quella spinta viscerale che trasforma stati d’animo che, come un cancro, ci
consumano dall’interno. La volontà di dire “non ci sto!”. Ma cosa può aver
stimolato una transizione così netta? La risposta è “frustrazione”. Ma facciamo
un passo indietro.

Peace Okezie, in arte Master Peace, nasce nella contea del Surrey, in
Inghilterra. Terra che ha generato alcune fra le più grandi figure della storia del
Rock: Eric Clapton, Jimmy Page, Jeff Beck, Roger Waters e mi fermo qui, ma la
lista è ancora lunga…ma questa è un’altra storia. Torniamo a Peace. Classe

Fra le sue maggiori influenze vi è il rap britannico, con artisti come The
Streets e Gorillaz. “Se arrivassi a fare musica con Mike Skinner e Damon
Albarn, prometto che lascerei la musica quel giorno stesso, sarei arrivato”
dichiara Peace. Ad onor del vero, lo scorso anno ha raggiunto il giro di boa,
registrando un featuring proprio con Mike Skinner (The Streets). Il brano è
“Wrong Answers Only”. Tuttavia, con “Peace of Mind” prende le distanze da
queste sonorità, abbracciando un sound più aggressivo, chitarre garage e riff
che faranno felici i fan dei “primi Arctic Monkeys”.

“Fin dal mio singolo di debutto “Night Time” ho fatto musica indie, ed invece mi è
stata attaccata addosso l’etichetta di rapper, con tutti gli stereotipi che si porta
appresso. Sono di colore, porto il durag e in alcune canzoni faccio uso dello
“spoken word”, quindi sono un rapper. Questo pensa la gente. Come se venissi
da Londra. Sono del Surray, vengo dalla campagna. Ho iniziato a sentirmi poco
apprezzato”. Beh, l’abito non fa il monaco: questa è la genesi del nuovo EP.

“Peace of Mind”. Cinque tracce per un totale di circa 12 minuti di musica. Niente
di troppo stravagante, con nitidezza la musica veicola alla perfezione la
narrazione di Peace. “Country Life” è tagliente, descrivendo in dettaglio il rifiuto
da parte dell’artista inglese di rientrare nel cliché del mondo rock. “Are you
comin’ backstage after the show to take some blow or not? / I don’t take that shit
‘cause I’m not a thot”. “Achilles Heel” si pianta nella testa e difficilmente se ne
va. Questo pezzo ha carattere, ha un ritmo trascinante. Nulla è fuori posto. Altro

bel colpo! In “Veronica” Peace ha messo in background gli Arctic Monkeys di
“Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” ricamandoci sopra il tema
dell’innamoramento giovanile. “There’s something ‘bout Veronica, I can tell that
she likes me / Something in her aura, I can tell that she feels me”. “Groundhog
Day” è una continua autocritica “I Always mess It up, darling / Always mess it up
good”. Forse per questa ragione è il brano più corto, non arriva a toccare
neanche i due minuti. Il mix del mantra “mea culpa” e chitarra distorta funziona.
“Kaleidoscope” chiude i 12 minuti, un brano con una posizione più catartica ed
introspettiva rispetto al pugno in faccia di “Country Life”. Alla domanda “Perché
hai deciso di concludere con una canzone in netto contrasto con l’inizio?” Master
Peace ha risposto: “Sento che “Kaleidoscope” è stata un po’ una sessione di
terapia, la fine del film. Prima facevo riferimento al fatto che sono felice di essere
“Peace dal Surray”, non voglio essere te, quindi non dovresti voler essere me,
perché non sono un modello. Abbraccia tutto, il tuo lato buono, il tuo lato cattivo.
Soprattutto sul web, siamo così presi dal tentativo di essere perfetti, so che è un
cliché folle. Alla fine della giornata moriremo tutti allo stesso modo, quindi
potremmo anche andare avanti”.

Navigando fra atmosfere indie, narrazioni rap e chitarre garage, Peace si spinge
fino ai confini delle “colonne del pop”, alla ricerca di una nuova dimensione.
Iniziativa azzeccata, che avrà sicuramente risvolti futuri interessanti. (Master
Peace non è un rapper!)

/ 5
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Shame: La recensione di “Food for Warms”

La scena post-punk revival britannica, da cui sono nate band come Fontaines DC, Black Country New Road, Squid (per citarne alcune), ha oramai superato quella fase underground-provinciale, arrivando a trasmettere le proprie onde oltre i confini di Londra. Questo ha condotto i gruppi ad esibirsi in ogni parte del globo, dagli USA al Giappone, dall’Australia all’Europa, passando anche per i principali (e non) festival internazionali. “The Wind of change” è soffiato nel “duemila-e-ventidue”. Album come “Skinty Fia” e “Ants From Up There” si sono distinti per la loro maturità, aumentando così la distanza con i rispettivi esordi, “Dogrel” e “For The First Time”. Con “Food for Worms” gli Shame tentano di cavalcare l’onda del cambiamento, con l’obiettivo di raggiungere l’agognata maturità. 

Anticipato da tre singoli e da un calendario di gigs che da inizio marzo toccherà Europa+America (44 concerti in tre mesi), “Food for Worms” è il terzo album in studio degli Shame. Amicizia, rinascita e la fiducia negli altri sono solo alcuni dei temi trattati dal quintetto inglese, che si pongono in netto contrasto con un titolo dal sapore cinico e nichilista. Contrasto accentuato dall’artwork di Marcel Dzama, artista canadese famoso per le sue rappresentazioni surreali e dai tratti  fiabeschi. La produzione dei brani è passata attraverso il processo delle registrazioni dal vivo. Una prima bozza dell’album era già stata stilata nel febbraio dello scorso anno, periodo in cui la band trascorse circa due settimane in studio per lavorare a del nuovo materiale. Su YouTube possiamo trovare interamente la prima performance degli Shame alle prese con “Everything” (la futura “Six-Pack”) oppure “Fingers of steel”, datata 18 febbraio 2022, nel tempio della scena post-punk revival: il Windmill.

“Let’s be real, most of the bands that you like…they suck!” recita Charlie Steen in uno dei tanti spot promozionali postati su Instragram. “But here at Shame Inc. / We are giving you the rare opportunity to see a band that you like play good music”. La satira e il non prendersi troppo sul serio sono sempre stati tratti distintivi degli Shame. Ne sono la conferma questo ed altri spot pubblicati sui social a ridosso dell’uscita di “Food for Worms”. “L’azienda di Charlie” si è messa ciecamente a disposizione di Mark Ellis (aka “Flood”), già produttore di artisti di calibro internazionale come PJ Harvey, Nick Cave, U2, Depeche Mode e molti altri, che ha portato, come già anticipato in precedenza, una ventata di novità. Le radici rimangono sempre quelle del post-punk a cavallo fra 70s e 80s, con oramai influenze consolidate: “Fall”, i “Pavement”, l’energia della “Bandiera Rosa” oppure il “Wall of sound” dei Sonic Youth.

In “Food for Worms” ci sono momenti di chitarre graffianti (“Alibis” e “The Fall of Paul”), ma anche attimi dove gli Shame si abbandonano a soluzioni più morbide, senza però mai rinunciare ad un drumming martellante, muscoloso. L’arrangiamento di “Fingers of steel” ci fa subito intendere che siamo di fronte ad un mutamento, a partire dalla ricerca vocale di Charlie. “Six-Pack” è una cavalcata garage rock che spazza via tutto, portando via con sé anche i nostri desideri più selvaggi (“Now you’ve got Pamela Anderson reading you a bedtime story”). Lo stile di “Yankees” l’hanno preso in prestito direttamente dai Fontaines DC. Buona performance di Grian Chatten-“ah non è lui?!”. “Well, this time you feel that you’ve been found / But when you look there’s no one around”. “Alibis” ripercorre i territori di “Songs of praise”. Energia pura, uno dei pezzi migliori del disco. Il cameo nascosto di Phoese Bridges nei cori di “Adderall” impreziosisce il brano, ma poco rimane. “Orchid”, una ballata acustica che diverge sul finale in un muro di suono alla Sonic Youth. “Burning my design” segue lo stesso schema della precedente, una vera lezione di dinamica. La voce sofferta di Charlie (“I sold my life for you”) lascia spazio ad un cambio di ritmo che ci porta ad un finale frenetico, saturo, compatto. “Cambi il taglio di capelli, i vestiti, il tuo accento-” enuncia “Different people”. Il ritmo frenetico rispecchia alla perfezione la “smania” del cambiamento, ma conclude: “You say you’re different but you’re still the same”. “The fall of Paul” si rivolge ai ragazzini di oggi, la cui tecnologia ha facilitato la vita. “All the kids and the rats / They seem to scurry and crawl / They’re sliding through the cracks / They’re bound to fall”. “All The People” abbassa il sipario, una canzone dal sapore di “you can’t always get what you want”. Un finale perfetto per questo album. “All the people that you’re gonna meet / Don’t you throw it all away / Because you can’t love yourself” è la dichiarazione di amicizia di un gruppo di ragazzi poco più che ventenni, a cui piace fare musica, o come dicono loro “buona musica”. Ed io sono d’accordo con loro.

Il vento del cambiamento ha toccato anche gli Shame. “Food for worms” ha sicuramente buone soluzioni, tuttavia risulta un album di transizione verso nuovi orizzonti. Ma come si dice in queste situazioni “chi ben comincia è a metà dell’opera”.

Voto: 7/10

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