Giampiero Pelusi

Nia Archives: La recensione di “Silence Is Loud”

  • Nia Archives – Silence Is Loud
  • 12 Aprile 2024
  • ℗ Hijinxx / Island

Il culto della nicchia – o, se vogliamo tenerci più larghi, di quello che si tiene ben fuori dal mainstream – può essere una brutta bestia: da un lato l’amore sconfinato per ciò che non è per tutti, l’adorazione per quel fiore che cresce solo all’ombra della più grossa e appariscente aiuola; dall’altra, invece, l’impossibilità di veder emergere quel genere sulla superficie del burrascoso e popolato oceano del music business.

Eppure ci sono artisti che, anche se per un piccolo frangente di tempo, riescono a spingere in alto quel rametto staccato dal gargantuesco albero della musica, sollevandolo alla pari di tutto il resto, con perseveranza, qualità compositiva e, diciamocelo, con la giusta dose di attributi.

Nia Archives ha divorato i libri della jungle music come fossero il suo ultimo pasto della vita, assorbendo i ritmi, allineando i battiti del suo cuore agli stop&go della drum and bass. Un percorso di vita, dalle radici giamaicane portate in giro per il Regno Unito, tra Leeds e Manchester, fino a quel Headz Gone West, EP autoprodotto, che ha lentamente iniziato a seminare il verbo.

Sembra essere passata un’eternità da quest’ultimo, eppure il lasso di tempo è piuttosto breve: in soli tre anni Nia Archives si è portata a casa diversi premi nazionali, ha accalappiato la critica ed ha conquistato un opening act per la data di Londra del Renaissance World Tour di Beyoncé. Un’abilità fuori dalla norma nel remixare – vedasi le riproposizioni di “Baianá” e di “Heads Will Roll” degli Yeah Yeah Yeahs, sgretolata e riassemblata sotto il titolo di “Off Wiv Ya Headz” – ed una maestria tecnica nel mescere la d’n’b al pop (e tanto altro): tutto converge in “Silence Is Loud”, debutto in full-length dell’inglese che, più che opera prima, pare essere il frutto avanzato di una discografia esperta.

Nia Archives gioca di prestigio, facendo spuntare da quella onnipresente base jungle generi, attitudini, melodie che si aggrovigliano e si attaccano alla perfezione agli scossoni breakbeat e ad un’ tipo di elettronica che, a primo impatto, sembrerebbe incompatibile con tante cose.

Eppure la vediamo agganciarsi al pop-folk sornione di “Cards On The Table” e di “Out Of Options” o al più spinto power pop di “Unfinished Business” e “Tell Me What It’s Like”, cavalcare la cerniera hip-hop della già nota “Forbidden Feelingz”, uniformarsi alle dispersioni electro-pop à la Morcheeba che aleggiano sul morbido mood di “Nightmares”.

Zampillano le venature, che siano velate – l’indie-rock che pulsa timidamente in “So Tell Me…” – o più marcate: la grossa spinta R&B di “Crowded Roomz”, il soul strascinato di “Blind Devotion, coadiuvato dalla camaleontica voce della Archives, pendolino tra la morbidezza del pop e l’avvolgenza vibrante della black music.

Un album arioso, nonostante l’efferatezza della strumentale a lavorare incessantemente ai piani di sotto, pieno di spunti e di brillantezza esplorativa, la stessa che ha trascinato un sottogenere dell’elettronica sulle luminose lande del mainstream. “Silence Is Loud” è il sinonimo di quanto anche il più insignificante dei suoni possa diventare il più grandioso trionfo auricolare. Basta saper affidarsi al più bravo dei timonieri.

/ 5
Grazie per aver votato!

Little Simz: La recensione di “Drop 7”

  • Little Simz – Drop 7
  • 9 Febbraio 2024
  • ℗ Forever Living Originals / AWAL Recordings Ltd

Kendrick Lamar si era pronunciato piuttosto chiaramente su Little Simz. E come potremmo, noi umili esseri umani, dar torto ad uno dei migliori rapper odierni che fa props su una delle migliori rapper odierne? D’altronde, se un unodue micidiale come quello messo in atto da “Sometimes I Might Be Introvert” (2021) e “NO THANK YOU”(2022), sbocciato nell’arco di poco più di un anno (!), non vi avesse ancora convinto pienamente sulla grandezza dell’artista di Islington, bhe.. suggeriamo un bel ritiro spirituale per purificare i canali acustici.

London-based, cuore nigeriano che getta sangue sulle rime, Little Simz – all’anagrafe Simbiatu Ajikawo – ha sempre vincolato saldamente la sua musica ad una fortissima esigenza di espressione, il bisogno di sputare sul beat il frutto di un carattere piuttosto chiuso, trattenuto a braccia strettissime per troppo tempo. Un talento smisurato che pare essersi espanso definitivamente ed in maniera vigorosa, sia nella doppietta succitata, tecnicamente mostruosa, sia tramite altre vie artistiche – vedasi i suoi ruoli come attrice.

E parallelamente ad una carriera in ascesa, mattoncino su mattoncino, c’è quella scaletta a pioli leggermente nascosta, una sorta di piano b, di percorso evasivo che giunge al suo settimo gradino, forse il più stuzzichevole e “laterale” di tutti.

“Drop 7” si trascina dietro proprio quel sentore di side-project, pur trovando su di sé la medesima firma: necessità di esplorare, reinventarsi, sviare gli standard, andare oltre. Scema, infatti, quell’impegno “fisiologico”, quel bisogno forte alla base dei full-length della discografia principale, esce fuori, invece, il desiderio di scavalcare il già ampio confine tratteggiato in questi anni, spingendo molto di più sulla ricerca del suono e su nuove ambientazioni in cui farlo riecheggiare.

Un EP dai bpm sotto taurina, devoto come non mai all’elettronica da club e ad un certo tipo di pop che svernicia le classifiche di oggi: dall’ibrido inglese/portoghese di “Fever”, pulsante di radici reggaeton e scossoni amapiano su un esoscheletro trap – Rosalía risuona forte – ai sussulti techno e afro-beat di “Mood Swings”, che traslano l’ascoltatore su un dancefloor attrezzato nel bel mezzo di un deserto notturno, l’extended play preme sui bassi, si insinua tra le radici di popolazioni diverse, acciuffa le tradizioni e le sbatte sui beat, lavorati e cesellati da Jakwob, innesto che si fa sentire proprio nello stacco (stilistico) netto coi predecessori.

Gorgheggi elettronici e tribali invocano lo sciamanico ballo di “SOS”, mentre la drakeiana “I Ain’t Feelin It” ci fa capire che, anche in ambito trap, la Simz sormonta molti suoi colleghi più blasonati. Se non bastasse, l’adrenalinica “Power” scastra di prepotenza il riflettore e lo punta su una drum’n’bass più accessibile, tra qualche timido richiamo ai Chase & Status e grosse similitudini con tutto quello che gira sui piatti di Nia Archives. D’n’b che pare voler scardinare anche le placide atmosfere della conclusiva “Far Away”, arrendendosi però ad un guinzaglio hip-hop più classico, edulcorato da rivoli sassofonistici e adagiati su cuscinetti pianistici da singolone dance pop.

Una sorpresa continua: Little Simz è un’artista pazzesca, capace di eccellere in tutto, anche nei suoi piccoli “capricci” musicali, che rimangono comunque di assoluto spessore: “Drop 7” respira (e fa respirare) aria nuova, mischia le carte e le gioca diversamente, non allontanandosi troppo dai risultati precedenti. Un disco che, per forza di cose, non può essere accostato ai suoi fratelli maggiori, vuoi per la sua durata, vuoi per la sua spiccata anima “parallela”, ma che riconferma in toto le qualità ingiocabili della rapper di North London.

/ 5
Grazie per aver votato!

Chartreuse: La recensione di “Morning Ritual”

  • Chartreuse – Morning Ritual
  • 10 Novembre 2023
  • ℗ Communion Group Ltd

Nel titolo “Morning Ritual” captiamo un senso di rivalsa verso tante cose, ci sentiamo dentro l’orgoglio di aver finalmente trovato la propria strada – gli Chartreuse sono, effettivamente, in attività dal 2014, ma solo oggi arriva il loro primo full-length – osiamo palpare tutto lo sfogo – e il sollievo – del post pandemia; insomma, questo disco rivendica una routine riconquistata, con tutti i suoi problemi di sorta, la monotonia delle gestualità ripetute all’infinito, i dialoghi stereotipati con la società, le taglienti ferite dell’animo, i pensieri che svolazzano e impregnano gli occhi assorti.

Gli Chartreuse debuttano eviscerando le loro emozioni più genuine, le piazzano sullo spartito e ce le fanno toccare, provare per credere. D’altronde, dagli esordi in duo di Michael Wagstaff e Harriet Wilson, impegnati – ma non troppo – a proporci un folk dall’identità ancora latente, sono passati nove anni, impiegati a trovare la chiave o il grimaldello per scassinare quella dannata porta, ora varcata e parcheggiata alle spalle, grazie anche agli inserimenti nell’ensemble di Rory Wagstaff dietro alle pelli e di Perry Lovering ad animare basso e tastiere.

Tutto è completo. Location: la fumosa Birmingham. Eppure non troviamo refusi industrial o atmosfere soffocanti. Qui c’è armonia, eleganza, sottile malinconia. C’è pacatezza indie pop, sparsa come un effluvio dall’andante leggerezza di “All Seeing All The Time”, c’è pragmatico art-rock bass driven (“Backstroke”) richiamante i Radiohead post “Hail To The Thief” – “Switch It On, Switch It Off” fa il filo a “In Rainbows” – e anche quelli dello spartiacque Kid A/Amnesiac, spalmati sulle languide tessiture elettroniche di “Are You Looking For Something”.

Rimane quell’esigenza folk che perdura dagli esordi e che invigoriva la corporatura dei buoni EP, si sprigiona con grazia tra i rintocchi pianistici della title-track, o tra le acque meste di una “Agitated” che ci risveglia in testa la delicatezza di Damien Rice.

La duplice vocalità della Wilson e di Michael Wagstaff è di una complementarità naturale, toccante per quanto bella, e viene fuori dirompente tra le sentite plettrate di “Never To Be Real” e tra gli strozzati colpi di batteria che collegano “Whippet” alle armonie dell’art-rock.

Una dualità che, sul suolo italiano, ritroviamo nei romani Mòn, padroni anch’essi di una proposta musicale che tanto deve all’indie, ma anche – e soprattutto – al rock alternativo più studiato e minuzioso.

“Morning Ritual” tocca con una carezza e rimane con il marchio di uno schiaffo, un lavoro raffinato e gentile, figlio della visceralità dei sentimenti, quelli che pulsano durante la quotidianità e che sussistono strenuamente, a prescindere da tutto il resto, per farci continuare ad adorare ogni singolo particolare della vita.

/ 5
Grazie per aver votato!

Sextile: La recensione di “Push”

  • Push – Sextile
  • 15 Settembre 2023
  • ℗ Sextile / Sacred Bones Records

Tre tizi piuttosto strambi ci si parano davanti, capelli pittoreschi e abito in pelle, non di certo il miglior outfit per combattere la fitta calura losangelina. Eppure ciò sembra non scalfirli minimamente, anzi, questi paiono vivere di sudore, di palpebre socchiuse e secchiate di musica a bucare i timpani, di arti inferiori mirati a pestare il dancefloor, mentre i rimanenti disegnano astrazione.

I Sextile sembrano i reduci di una serata al Berghain, pur vivendo da tutt’altra parte del globo. Nonostante ciò, quel che pulsa morbosamente dal nucleo di “Push” non si discosta di troppo dal sound che fuoriesce dal clubbing berlinese, dall’estremo bisogno di allineare fiato e battiti ai bassi sparati, mentre l’acido della trance alimenta il moto del corpo.

Non basta, però, ad inquadrare la proposta musicale degli americani, giunti al loro terzo tassello discografico dopo aver rimuginato su un certo tipo di electro-rock dalle radici ampiamente inzuppate in terriccio post-punk e noise (“Albeit Living”). Il risultato era un ibrido avvezzo più alle sferragliate chitarristiche, che all’irruenza techno e, forse, la pausa di tre anni – dal 2019 al 2022 – si è tramutata in uno spartiacque temporale fondamentale per la plasmazione di un sound fino ad allora ancora troppo acerbo e fuori fuoco.

sextile

“Push” onora il passato quasi ribaltandolo, finendo per dare il comando all’elettronica, ora leitmotiv totale del platter – le ballonzolanti pulsioni di “Contortion”, l’ossimorico contrasto tra i synth e la corporatura acid house della banger “New York” – mentre le corde vibrano nelle retrovie, facendo da impalcatura per il rave punk che straborda dall’impianto, frantumando i vincoli con gli aspetti spinosi della vita.

Negatività, insoddisfazione, inappartenenza vengono spazzati via quando “Crassy Mel” scomoda i Prodigy, coi beat graffianti e le vocals pungenti di Melissa Scaduto, gli scatti ferrosi della sei corde, le sgommate breakbeat che ingravidano lo svolgimento del pezzo, così come accade una volta messo piede sul disinibito treno deragliante di “Lost Myself Again”.

È “Crash” a tagliare in due l’album, tra reminiscenze synth pop e le venature indie e slowcore assemblate da Brady Keehn e Cameron Michel – subentrato al compianto Eddie Wuebben – mentre “Modern Weekend” scuote il tempo con afflati nineinchnailsiani di “Pretty Hate Machine”, prima di ricedere il passo all’acido made in Detroit di “LA DJ” e al synth punk perforante di “Plastic” e “Imposter”.

Il disco più audace del trio, una siringa di adrenalina contro l’oppressione della modernità. Non è solo una botta di sana elettronica, è un connubio di passioni borderline, di suoni che sfregano tra di loro e si fondono tra le scintille, in un rave cromato dal deserto e dal fuoco di chi un attimo prima distrugge una chitarra sul palco, poi riprende a ballare.

/ 5
Grazie per aver votato!