Fritz Schmidt

Crawlers: la recensione di “The Mess We Seem to Make”

  • The mess we seem to make – Crawlers
  • 16 febbraio 2024
  • Polydor Records

Che fossimo al tramonto di un modo di concepire i generi musicali come entità chiuse, categorie in cui le band si ascrivevano rigidamente, si era capito da un po’. I linguaggi musicali attuali incarnano a pieno una realtà storica fatta di persone che a identità ferme preferisce scorrere fluida attraverso idee, suggestioni ed estetiche tutte differenti tra loro. Il rifiuto degli schemi austeri del passato, il desiderio di rappresentare gli ascoltatori più giovani e “tradire” le aspettative dei più anziani sono i leitmotiv di “The Mess We Seem to Make”, il lavoro d’esordio dei Crawlers.

Il modo stesso con cui la giovanissima band di Liverpool, formatasi nel 2018, sale alla ribalta negli ultimi anni è indicativo delle dinamiche proprie dell’industria discografica di questo momento storico. Se in passato l’imperativo era portarsi sulle spalle una discografica ricca e coerente o un singolo che, periodicamente, concentrasse al meglio l’attenzione e gli ascolti del pubblico, adesso sembra impensabile, per alcuni artisti, concepire la propria musica al di fuori delle realtà social.

Questo i Crawlers lo sanno bene perché è proprio grazie a TikTok che, dalla fine del 2021, la band ha conosciuto il successo. Quando il loro singolo Come Over (Again) diventa virale sulla piattaforma, la band inaugura un tour in giro per il mondo, accumulando una fanbase in crescita costante e preparandosi all’uscita del loro esordio, forti della firma con Polydor Records.

In The Mess We Seem to Make possiamo ascoltare davvero di tutto. Su un songwriting inequivocabilmente “pop” si innestano innumerevoli suggestioni. Agli echi grunge della chitarra di Amy Woodall, che strizzano l’occhio ai NIN e riecheggiano attraverso un oscuro fuzz in Meaningless Sex, Kiss Me, Messiah Hit It Again, si affiancano degli scanzonati guizzi pop. 

Introducing Interview: CRAWLERS – Get In Her Ears

Li ritroviamo in I End Up AloneCall It Love e That Time of The Year Always, brani perfetti per il mercato americano dove è il sound di Taylor Swift e Miley Cyrus a far da padrone.

Non mancano però le intuizioni punk. In What I Know is What I Love e Would You Come To My Funeral i power chords veloci della chitarra e le incessanti linee del basso di Liv May inneggiano a temi tanto antichi quanto cari: adolescenze ribelli, criticità generazionali, amori sgualciti e un’idea di morte gotica e romantica. Sarebbe dozzinale fermarsi qui senza descrivere le affascinanti derive di questo moderno “punk” che sembra sognare, fino a sconfinare in ritornelli eterei che ricordano un dream pop decisamente più moderno. È il caso di brani come LucyKills Me To Be Kind Come Over (Again): un radiofonico invito a danzare senza rinunciare alla ricerca sonora.

A completare questo mosaico variopinto ci pensano le ballad, probabilmente la componente più interessante del disco. In Golden Bridge i Crawlers si lasciano andare ad una dolcezza inaspettata che sembra ricordare quella degli Alvvays, la stessa che ritroviamo in Moving Parts, un brano che ci riporta indietro fino alla drammaticità dei Daughter e al loro esordio If You Leave: probabilmente il pezzo più bello del disco.

Assieme alla spinta di Harry Breen alla batteria è la voce di Holly Minto a tenere in piedi tutto il disco. Sofferente e ruggente, esprime al meglio la sua decadenza in brani come Better If I Just Pretend e Call It Love.

È un lavoro consapevole quello dei Crawlers, una band che sguazza agiatamente nelle dinamiche proprie della Generazione Z, nei suoi spazi, nei suoi linguaggi e, soprattutto, in quell’accesso libero ed illimitato a tutto lo scibile musicale che caratterizza l’attuale paradigma digitale. 

I giovani oggi ascoltano di tutto e lo fanno sia direttamente che lateralmente, rispetto al prodotto. Alle volte le suggestioni arrivano frequentando spazi tradizionali come i negozi di dischi, i concerti e i festival. Altre volte scorrere il proprio feed ed imbattersi in un reel esteticamente coinvolgente può portare ad ampliare gli ascolti, imbattendosi letteralmente in qualsiasi cosa sia stata registrata e pubblicata negli ultimi 70 anni. 

Ecco che le pietre miliari vengono tramandate alle nuove generazioni in un modo che nessuno avrebbe previsto. Ecco che le nuove produzioni salgono alla ribalta diffondendosi in modo virale. Le band? Suonano di conseguenza: i Crawlers spaziano un po’ di là e un po’ di qua, al di fuori di ogni categoria e regola, come un fiume che, annoiato dal solito percorso, straripa fluido oltre ogni argine e schema.

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GIORGIO DEBERNARDI: LA RECENSIONE DI “SHAJARA”

  • Shajara – Giorgio Debernardi feat. Shajara Ensemble
  • 23 febbraio 2024
  • Stand Alone Complex

Guardare in alto nella foresta più fitta significa incontrare i raggi del sole che trapelano fra gli alberi e le loro foglie, dipingendo ghirigori unici dove oscurità e luce danzano insieme, generando scintillii che si estendono a perdita d’occhio. Questa non è solo una scena suggestiva ma è anche l’immagine che meglio rappresenta Shajara, il disco d’esordio di Giorgio Debernardi e della sua Shajara Ensemble, uscito il 23 febbraio per Stand Alone Complex.

Shajara è un disco immersivo, un percorso di otto tappe in cui si avvicendano sensazioni e contaminazioni continue in cui, al primo ascolto, sembrerebbe di percepire un sound diviso nettamente fra notte e giorno. È bene, tuttavia, assaporare a pieno il viaggio e interiorizzarlo per non accontentarsi della prima risposta che viene a farci visita.

Si tratta infatti di un lavoro “dalle luci soffuse”, che mischia il chiarore dei ritmi e del sound vivace della world music all’oscurità di contrabassi e fiati jazz, assieme ad inaspettate chitarre acustiche dolci e meditative. In tutto questo, quasi voler innalzare tutto verso un “Sacro” palpabile, si inseriscono moltissimi strumenti, alcuni così esotici da risultare sconosciuti.

Al musicista siro-italiano Debernardi (chitarra acustica, weissenborn, daf, sansula, calimba cromatica, cori), si aggiungono Marco Bellafiore (contrabbasso), Alan Brunetta (percussioni, marimba, rodes) e Matteo Cigna (vibrafono, marimba, balafon). Assieme a questi Shajara può vantare la collaborazione di diversi artisti provenienti da diverse culture come il chitarrista sudafricano Guy Buttery, la cantante francese Nadine Jeanne, il trombettista Luca Benedetto, la korista Elena Russo e la calabasista Carla Azzaro.

Attraverso le ciclicità ritmiche e i loop melodici condotti da questa originale miscela l’ascoltatore ritorna alla sua origine, ad un tempo d’ascolto lento e rigenerativo.

Il merito di guidare questa catarsi va essenzialmente a Debernardi, ma anche all’ensemble che lo accompagna, che oltre ad essere un gruppo di musicisti unico e variegatissimo rappresenta la compagnia perfetta per un lungo viaggio, uno di quelli che si intraprende quando si è alla ricerca di qualcosa di importante.

Non è un caso che il musicista siro-italiano scelga come titolo la parola che dall’arabo si traduce letteralmente come “albero”. Quante volte, persi in una quotidianità intrappolata nei loop burocratici e nel cemento più freddo ci è capitato di riconoscere quanto sia effimero e il mondo che ci siamo costruiti attorno, quanto artificiali siano i suoi schemi e i suoi ritmi?

È quando questa consapevolezza fa capolino nella nostra sensibilità che sentiamo il richiamo. Vi sarà capitato almeno una volta nella vita. Come un antico mantra questo ci invita a scappare dal grigio dalla nostra realtà per ritornare all’origine, a correre liberi lungo foreste sconfinate, fino a (ri) abbracciare la natura che ci ha creato.

Quella chiamata Giorgio Debernardi la segue fino a tradurla in Shajara e a portarci assieme a lui. Giunti fin è giusto chiedersi: può il contatto con la natura risolvere quell’antica incomunicabilità fra noi e il mondo che ci circonda? Può il ritorno a luogo che ci ha generato risolvere l’enigma che porta gli esseri umani a sentirsi da sempre così fuori posto? Può un solo albero, e il suo abbraccio, riuscire a salvarci e farci ricordare chi siamo?

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