Giovanni Paladino

Diiv: La recensione di Frog in Boiling Water

Ci sono artisti che col passare del tempo mutano e sperimentano suoni, per perdersi in nuovi stimoli e poi ritrovarsi a proprio agio in altre vesti. Nel caso dei DIIV non si tratta di un cambio di abito ma tuttalpiù di colori. Infatti, con l’ultimo lavoro “Frog in Boiling Water”, uscito lo scorso 24 maggio per la Fantasy Records, la band è passata da immaginari più astratti ed eterei ad altri più pragmatici e viscerali, sedimentando al contempo il sound che li ha fatti diventare il punto di riferimento della scena shoegaze.

Rispetto agli scorsi tre album pubblicati, quest’ultimo ha avuto un parto tutt’altro che semplice, dovuto principalmente ai tumulti pandemici e al passaggio di etichetta, dalla Capture Tracks alla Fantasy. Inoltre, la svolta sulla produzione musicale e lirica, non più solo in mano a Zachary Cole Smith ma in buona parte a tutto il resto del gruppo, ha creato un’interazione espressiva che rende il nuovo lavoro sicuramente più maturo e diversificato rispetto ai precedenti.

Frog in Boiling Water

Il nome dell’album è un richiamo esplicito al romanzo The story of B. di Daniel Quinn e implicito al principio della rana bollita del filosofo Noam Chomsky, in cui viene descritta l’incapacità dell’essere umano moderno di reagire prontamente alle avversità, se non quando è ormai troppo tardi, proprio come una rana messa a bollire a fuoco lento che non si accorge dell’epilogo della propria inesorabile sorte. Frog in Boiling Water presenta difatti continui messaggi socioeconomici attuali e più o meno diretti, rivolti ad un mondo sempre più devoto al capitalismo e al consumismo imperante.

In Amber è la prima traccia e con essa ci si immerge in atmosfere inquietati, con distorsioni che inglobano quasi totalmente la voce del cantante, il quale nel frattempo esprime la rassegnazione per un futuro già scritto, il desiderio di sparire e ritrovarsi alla fine del tutto come un fossile di ambra.

Proseguendo nell’ascolto arriva in Raining on Your Pillow, traccia energica colmata dall’acutezza dell’arpeggio di chitarra, tappeto sonoro che riempie il pezzo per tutta la sua durata, insistente come le piogge invernali, pungenti, fredde, quasi fastidiose. Il senso di inadeguatezza si spezza con l’avvento di Everyone Out ed i suoi armonici battenti sulle corde metalliche, dove il senso di dolore si tramuta in consapevolezza delle proprie azioni passate ma soprattutto su quelle future di emancipazione – “Try and stop me know, I’m ready for my rise”.

Con Somber The Drums si ha la crasi dei tre album precedenti: l’altalena sonora di “Deceiver”, la linea melodica di “Is The is Are” e il climax perpetuo di “Oshin”, un insieme di elementi dosati e missati perfettamente per un risultato quasi perfetto.

L’immaginario di cui sopra viene completamente sviscerato con Soul-Net: si ha di fronte una società fittizia neanche troppo lontana dalla realtà, resa ancora più grottesca dall’omonimo soul-net.co, un sito web zeppo di contenuti complottistici e psicotici, creato appositamente per alimentare il concept di critica e collasso sociale.

Con queste dieci tracce e con non poche difficoltà la band è riuscita a superare l’impulsività e l’hype dei primi anni, arrivando in poco più di una decade a consacrare la propria bravura e determinazione artistica. Un sound che strizza l’occhio ai giganti del genere come Slowdive e My Bloody Valentine ma che rimane nell’atteggiamento indie che li ha da sempre contraddistinti. Al quarto album i DIIV continuano a dire la propria senza mai discostarsi troppo dal nido shoegazer, approfittando della loro crescita e maturità. Seppur trattandosi di un buon lavoro, con un ottimo imprinting non solo musicale ma anche sociale, forse sarebbe giunta l’ora per i quattro di Brooklyn di allontanarsi dal solito vestiario e indossare indumenti nuovi, differire dalla rana e saltare via dall’acqua bollente, si con il rischio di fallire, ma almeno con la consapevolezza di averci provato.

Voto 7,5

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Coca Puma: La recensione di “Panorama Olivia”

  • Coca Puma – Panorama Olivia
  • 19 Aprile 2024
  • © Dischi Sotterranei / Odd Clique

Una stanza avvolta da una luce calda e soffusa, colma di pensieri che rovistano nostalgici nel passato e speranzosi nel futuro, adagiandosi nella stasi apparentemente equilibrata del presente. Questo è l’immaginario che suscita fin dal primo ascolto l’album d’esordio di Coca Puma, “Panorama Olivia”, uscito il 19 aprile per Dischi Sotterranei.

Olivia” è il nome di un gatto e “Panorama” è il mondo che Costanza Puma vuole mostrare attraverso la propria espressività. Born and raised in Rome, ha deciso di destreggiarsi in solitudine nella difficile scena musicale italiana, con il suo immancabile bucket hat e l’urban style che richiama il calore della città capitolina. In passato ha studiato e suonato Jazz ma con questo lavoro ha voluto cimentarsi in suoni più elettronici, soul e pop, che nuotano all’unisono in una piscina dalle dolci acque sognanti.

Un rumore sordo di passi, un messaggio vocale di scuse e un arpeggio “sintetizzato” formano Intro, la prefazione che da inizio alle emozioni altalenanti che verranno provate durante tutto l’ascolto dell’album. Tardi è il singolo uscito qualche settimana prima del disco e abbraccia subito le atmosfere oniriche preannunciate. Pezzo malinconico e pieno di timore si immola successivamente in un turning point, con note di piano pestate, ritmi di batteria fragorosi e chitarre graffianti.

Panorama Olivia

Porta Pia è l’altro singolo che ha preceduto” Panorama Olivia”. Si parla di insicurezza, over thinking e rassegnazione, frutto dell’attesa di una risposta, quelle tipiche attese che ti consumano da dentro e che prima o poi si paleseranno inesorabilmente, tacite, amare o dolci che siano. Tutto questo fardello emotivo è accompagnato da sintetizzatori profondi e da un ritmo delicato, scandendo perfettamente il tempo che sembra non passare mai.  

Con Non ci Penso si rimane nell’intimità dei pensieri più personali ma diversamente dal resto del disco ci si dirige in suoni più ruvidi, formando un preambolo che darà vita nel finale ad un vero e proprio pezzo drum & bass. Tutto questo si lega perfettamente alla vena più elettronica di Tappeto, traccia senza lyrics in cui l’artista si sfoga (finalmente) attraverso bassi pienissimi e ritmi incalzanti da clubbing. L’introspezione sembra svanire però nel finale con Come vuoi, dove si incontrano melodie leggere e sgargianti che, unite al groove del synth bass e l’ironia nella voce, portano un tocco di luce al termine di un percorso inizialmente malinconico. 

Definirlo come “il sorprendente album d’esordio di Coca Puma”, per citare il primo lavoro dell’l’ei fu Contessa, è un errore in quanto il paragone non può reggere. Infatti, non si tratta di una vera propria rivoluzione musicale come quella avvenuta una decina di anni fa, bensì di un accurato uso degli elementi scelti dall’artista: il connubio fra sintetizzatori precisi, testi informali e una voce tenera e pacata crea squisite melodie per un ascolto piacevole e distensivo.  Nell’attesa di scoprire cos’altro nasconde sotto la visiera, consiglio di continuare a sognare e a godere dei “Themes From Cameretta” di Coca Puma. 


Se ti piace coca puma potresti trovare interessanti: Marco Castello, Fulminacci

/ 5
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Newdad: La recensione di “Madra”

  • Newdad – Madra
  • 26 gennaio 2024
  • ℗ A Fair Youth

Le onde sonore d’oltre oceano arrivano fin qui incontrandosi e scontrandosi con chi è pronto a recepire e comprendere l’evoluzione. Tale comprensione è propria di “Madra”, l’album d’esordio dei Newdad, uscito lo scorso 26 gennaio per la Fair Youth. 

Partendo da Galway, 200 km a ovest di Dublino, Julie Dawson è riuscita a formare una band tutta sua, attraverso cui esprimere il proprio animo artistico ed emulare le fonti di ispirazione musicale come i Cure, gli Slowdive ed i Pixies. 

“Madra” vuol dire “cane” in irlandese ma le volontà del gruppo non sono quelle di rifarsi al folklore nazionalistico come uno Skinty Fia qualunque, piuttosto parlare di ansie struggenti e malinconia quotidiana. Etichettare i Newdad in un solo paio di generi sarebbe riduttivo e approssimativo ma, allo stesso modo, il compito di chi scrive è soprattutto incuriosire l’ascolto e facilitarne la comprensione: il suono creato dalla band è uno shoegaze pulito dalle sonorità sognanti del dream pop, il tutto sorretto dal chirurgico songwriting della cantante.

madre

Il disco esordisce col singolo Angel che si presenta già come una delle migliori tracce delle undici presenti. Il basso cantilenante e il riff acuto di chitarra reggono alla perfezione lo stato confusionale ma cosciente che vuole esprimere nel testo Julie: “You can swim around, But I don’t, Want you drown inside of me, It’s not fair to be your  responsability

Con Nosebleed si passa ad atmosfere più intime e oniriche, ad un sound che risveglia anima e corpo da un sonno profondo. Il tappeto sonoro sembra quasi un tributo alle torve composizioni di Badalamenti, avvolgendo l’ascoltatore in una coperta di calda flanella, confortevole ma disagiante allo stesso tempo. 

Let Go è l’altro singolo significativo dell’album che richiama melodie gotiche e cupe. Il testo infatti è ponte di dolore e separazione retoricamente fra la vita e la morte. Le difficoltà espresse nelle parole vengono poi accentuate dai suoni riverberati e ritardati della batteria, ricordando quasi le ansiogene ambientazioni dei Bauhaus in Bela Lugosi’s Dead.

Annebbiarsi con alcol e fumo per non pensare, superare un trauma o dimenticare, incolpandosi di quello che si perde seppur volutamente. In chiusura l’omonimo pezzo dell’album, Madra, parla di questo, ricreando scenari in cui chiunque può immedesimarsi. Inizialmente sembra di ascoltare una ballad sussurrata condita da chorus e synth immaginari, fino a quando non ci si imbatte in un ritornello distorto e incalzante, in cui il basso esprime il meglio di sé per i virtuosismi finali. 

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Ad oggi i Newdad offrono poco di nuovo alla scena ma la volontà di cambiare rotta è chiara e cristallina. La vera peculiarità è la destrezza dell’autrice nell’affrontare le tematiche dell’animo umano più nefaste: la solitudine, l’insicurezza, l’ansia e tutte quelle sensazioni disagianti che sono sempre più diffuse e radicate in noi. È come guardarsi allo specchio, osservando scrupolosamente i dettagli del proprio viso e memorizzarli così tanto da non riconoscersi più. Trovarsi e perdersi in un battito di ciglia. 

/ 5
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Marco Castello: La recensione di “Pezzi della Sera”

Dalla Sicilia, terra fertile di cultura e artisti, sboccia il secondo fiore di Marco Castello con l’album Pezzi Della Sera, confermando la sua bravura nel muoversi nella musica italiana senza scendere a troppi compromessi e anteponendo la propria passione alle forze esogene di mercato.

Impensabile oggi potersi proporre al pubblico senza passare prima dalle catene dello streaming. Stavolta però c’è da ricredersi. L’album, infatti, è stato distribuito a fine settembre solo su vinile, con l’intenzione di portare avanti l’analogico prima del digitale, contrastando la concezione odierna del tutto e subito. L’audacia, sorretta dal fascino dell’idea, ha prodotto il suo più inaspettato effetto: la prima stampa si è volatilizzata in una sola settimana dall’uscita, comprovando la volontà preventiva di saziare la curiosità del fruitore musicale. 

È un disco più maturo ma cugino del primo, sia nella scrittura che nel suono, espresso in racconti ironici di una quotidianità meridionale e avvolto in un’aria pop accuratamente auto prodotta che abbraccia Jazz, Funk e R&B.

Legandosi probabilmente a Porsi, prima traccia di Contenta Tu, si parte con Porci dove la chitarra esplora fin da subito terreni intimi, mettendo a proprio agio l’ascoltatore ed invitandolo ad accomodarsi su una su una soffice poltrona di velluto.

Il sarcasmo e l’autoironia predominano in tutti i pezzi, come in Polifemo dai palesi ritmi Bossa Nova e continui richiami a situazioni vissute, che danno più credibilità al tutto: i tipici pensieri annoiati da pennica post pranzo della domenica, manifestati attraverso uno story telling arguto, dal lessico diretto e moderno. 

Pipì è il manifesto della natura artistica e della forza espressiva di Marco. Riconoscibile ma sorprendente come al primo ascolto, il pezzo si tinge di colori caldi e del groove che ha fatto innamorare i seguaci fin dal primo disco. È un Enzo Carella che fa l’amore con Lucio Battisti mentre Alan Sorrenti spia segretamente dal buco della serratura. 

Con Copricolori esce fuori l’animo più funk del progetto ed è una gustosa condanna al movimento. La melodia pestata delle tastiere, la sezione ritmica inarrestabile e il synth che armonizza l’atmosfera sono in grado di animare anche i più disattenti. Dancing without moving

È la scrittura però la parte più importante dell’opera, imprescindibile per la comprensione dell’intero album. I testi genuinamente beffardi e cinici non sono altro che una sottile critica sociale del mondo visto dagli occhi dell’interprete, come il sunto del vissuto personale ma applicabile a tutto il belpaese. I frangiflutti del “non prendersi sul serio” che difendono la libertà del linguaggio dalle mareggiate del perbenismo ossessivo.

Marco è figlio del suo tempo ma soprattutto nipote del passato italiano, quel passato che ancora oggi ammiriamo e bramiamo silenziosamente. È ora di sventolare con fierezza questo stendardo nostalgico, senza sentire il bisogno di celarsi dietro la paura di apparire ascoltatori bigotti e ammuffiti. 

Rendiamo grazie a Marco Castello.

5,0 / 5
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Egyptian Blue: La recensione di “A Living Commodity”

  • Egyptian Blue – A Living Commodity
  • 27 Ottobre 2023
  • ℗ Yala! Music

L’Inghilterra continua a sfornare talenti come non mai, in un fordismo pedissequo all’insegna dell’arte del
suono. Figli di quest’arte non possono non essere gli Egyptian Blue con l’uscita del loro primo album, A
Living Commodity.
Sembrerebbe inizialmente di ascoltare la solita nuova-vecchia solfa di revival post-punk. Dietro c’è molto di più: animo grintoso che sfocia in eloquente ribellione, frutto di spirito ma anche di tecnica da vendere.
L’insieme può essere erroneamente considerato come l’esatta mescolanza degli artisti che polarizzano la
scena, un vero proprio shuffle di tributi. A questa apparente playlist si aggiunge però la singolarità verace di ogni singolo pezzo. Non si tratta di un disco drive n’play, che finisce col far perdere l’ascoltatore nei pensieri abitudinari della spesa da fare o delle bollette da pagare, tuttalpiù un’attenta ricerca di quanto si vuole esprimere nella breve durata di un Long Playing. Mera concisione di idee.
A Living Commodity, il singolo che dà il nome al disco, è il sunto preciso di quanto detto fin ora. Completo e maturo al punto giusto, in grado di aprire le porte ad una band fino a ieri sconosciuta o, meglio, perduta nei meandri del calderone musicale a cui appartengono. Il pezzo esordisce con un riff acuto che rimbomba nella testa durante l’ascolto, quel tipo di arpeggio di chitarra che non ti abbandona più. Il cantante, in merito, afferma:

“per caso ho notato uno strano effetto orientaleggiante sul mio pedale delay, così ho iniziato a
sperimentare. In questi casi la mia mente corre: sono tornato a casa pensando alla canzone che si costruiva nella mia testa e nello stesso giorno avevo gran parte della sua struttura”.

Egyptian Blue

La sezione ritmica fa da padrona: un basso sostanzioso si affianca ad una batteria dai piatti fragorosi, base perfetta per la voce strepitante e diretta di Andy Buss.
In Geisha tutta l’idea progettuale della band diviene realtà tramite una costruzione articolata, ritmo
irrequieto portato costantemente lungo tutto il pezzo, il quale si rivela il più complicato dell’album. In
merito, Andy conferma:

“Non mi piacciono le cose facili, a volte voglio rendere le cose strutturalmente più complesse, le preferisco”.

Con Apparent Cause la band si prende una pausa dai tumulti delle altre tracce, mostrando come sia
possibile il passaggio da una enorme vigore ad una calma inquietante, mantenendo totalmente il controllo in un ambiente, quello del disco, diversamente equilibrato. Nella sua saziante drammaticità, la voce qui ricorda particolarmente quella di Grian Chatten, sia nel suono grave che nel portamento.
Il vero grande cambiamento viene affrontato nei testi, passando da una rappresentazione di ascolti casuali a dolorose interrogazioni sulle incertezze esistenziali, frutto delle normali contraddizioni quotidiane. Siamo consapevoli di essere timonieri di una vita che non si sceglie ma da cui possiamo trarne linfa, soprattutto grazie alla selezione dei suoi contenuti. È la realizzazione della bellezza durante l’auto-sabotaggio.
Dopo questo primo vero lavoro, gli Egyptian Blue ne escono potenziando le proprie caratteristiche, con
dinamiche più profonde e svelando una propensione emotiva covata da tempo sotto la superficie. Il
cambiamento risoluto dell’alternativo, quindi, può e deve passare da loro.

/ 5
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Mali Velasquez: La recensione di “I’m Green”

Da Nashville, capitale del Tennessee ma soprattutto del country, la ventenne Mali Velasquez debutta col
suo primo album I’m Green, ergendosi come nuova promessa della musica.
Assurdo come il progetto sia già così maturo, soprattutto se i risultati sono quelli ascoltati in queste tracce.
L’album si presenta con una cover disegnata a matita che ricorda infantili scarabocchi su fogli di carta,
frutto evidente di innanti flussi di coscienza del momento. Un richiamo visivo alla semplicità della vita che è tutt’altro che semplice.
Si parte con Bobby, canzone di libertà e dolore, come quello provato dall’artista nel parlare per la prima
volta della madre scomparsa prematuramente. Un diario di emozioni e di immagini ideali attraverso cui
Mali sfoga la sua sofferenza. Presente qui, come in tutto l’album, un tappeto di chitarra acustica che
accompagna la sua voce tenue e quasi spezzata.
In chiusura il pezzo si lega meravigliosamente al secondo dei nove totali, attraverso un mix di suoni caotici che portano però all’apertura dell’intro arpeggiato. Si tratta di Shove, dove è palese il ricordo di momenti andati, che essendo tali diventano nostalgia e maturità, cicatrici che formano ciò che si diventerà nel futuro.

I'm Green


La voce è delicata e soffocata allo stesso tempo, in grado di sprigionare successivamente un canto
liberatorio, proprio come il volo di una rondine verso un cielo più lontano. La particolarità che la rende
davvero unica è quella di reggere le vocali finali a lungo con un lieve tremolio, spezzando a volte il fiato e
lasciando l’ascoltatore perplesso e affascinato allo stesso tempo. Ciò è molto evidente in Medicine, in cui
percussioni e chitarre si legano insieme in una danza di suoni sia acustici che elettrici, formando un
connubio perfetto che pavimenta tutto il pezzo. È la testimonianza della fine di una relazione, che porta
quasi sempre a far soffrire entrambe le parti coinvolte, difficilmente solo una.
I’m Green si chiude con la splendida Death Grip, la più completa di quelle citate (e non): garbatamente
straziante; lenta ma crescente; montagne russe di climax consecutivi che riempiono il cuore e i pensieri di chi non vede l’ora che quel momento sia infinito.
Molto spesso è facile adagiarsi sui rapporti appassiti piuttosto che strappare via l’inquietudine e fare i conti con la realtà. Quello che manca è il coraggio, lo stesso coraggio che invece Mali Velasquez ha saputo afferrare ed esprimere nei suoi testi, soprattutto nelle parole usate in questa ultima canzone.
Il progetto in questione è sostenuto continuamente dalla consapevolezza di sapere quello che si fa,
nonostante l’età acerba, che di acerbo però ha solo la data all’anagrafe. C’è tutto: dolcezza e durezza,
malinconia e gioia, freddezza e nostalgia. È difficile non rimaner affascinati da tutto questo. Si è
piacevolmente accompagnati in un mondo appena aperto alle visite, reale e a volte crudele ma che trova in noi delle verità che non credevamo di conoscere.
La speranza è quella che Mali riesca ancora colmare i nostri animi inconsapevoli.

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Pip Blom: La recensione di “Bobbie”

  • Bobbie – Pip Blom
  • 20 Ottobre 2023
  • ℗ Heavenly Recordings / [PIAS]

I bravi artisti riescono ad esprimere la propria arte soprattutto cambiando nel tempo, rinunciando al
sentiero conosciuto per seguire tracciati istintivi e poi ritrovarsi. È quanto scaturisce dall’ultimo album dei
Pip Blom, il gruppo olandese che torna con un sound tutto nuovo ma con metriche del (proprio) passato.
Da vibes indie e analogiche si passa violentemente ad un suono digitale con velleità synth a cassa dritta.
Rimangono le chitarre diligentemente compresse e la voce chiara e diretta di Pip. Tiger, infatti, è l’evidente espressione di tutto questo inaspettato modo e mondo di intendere la musica.
L’evoluzione è la chiave di Bobbie, probabile primo tentativo della band di dare una rinfrescata all’indie rock già sentito in varie salse speziate, europee e non. Insomma, un palese cambio di rotta
La pietra miliare nonché singolo del nuovo progetto è In This Love: puro pop dance. Vede la partecipazione attiva, sia cantata che attoriale, di Alex Kapranos (Franz Ferdinand n.d.r.), che dà al pezzo un ilare animo funk, proprio come confermato dalla stessa cantante, anche lei presente nel Luna Park in cui è stato girato il video clip.

pip blom

In Kiss Me By The Candlelight è presente un featuring con Willem Smit dei Personal Trainer, dove saltano
subito alla mente le memorie dei primi XX degli anni Dieci, grazie alle percussioni e ai sintetizzatori utilizzati che riempiono la traccia nella sua totalità sonora.

Poi, però, in Brand New Car sembra quasi che le vecchie vicissitudini pungenti dei precedenti dischi siano tornate come un vivo ricordo nostalgico. Niente di più sbagliato: il ritornello affina il diamante grezzo del primo minuto con la ripresa pop vocale che rimarca la volontà della ricerca e del rinnovamento. L’eccezione che conferma la regola.
Non è troppo audace definire la storia di queste tracce come un accordo pungente di nuove sensazioni,
sintetizzatori abbondanti e intramontabili chitarre precise e dirette al torace, saldo di mutazione in
movimento e interpretazione sapiente di ciò che si sta percorrendo. Non è troppo audace, oggi, chiamarli
“Pop Blom”.

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