Luca Cossu

luca@stereophonicmagazine.com

Fontaines D.C.: La recensione di Romance

  • Fontaines D.C. – Romance
  • 23 Agosto 2024
  • ℗ XL Recordings

Sta succedendo di nuovo, vero?

“Di nuovo nell’oscurità” – sono queste le parole che Grian Chatten, frontman della band, ha utilizzato per aprire Romance, il nuovo disco dei Fontaines D.C. a due anni di distanza da Skinty Fia.  Eppure, saranno i richiami allo “Shining” di Kubrick nel video di Romance, o le lucenti melodie di Favourite, ma questo disco sembra apparire tutt’altro che oscuro.

Da quel debutto, Liberty Belle, uscito nel 2017, ne è passata di acqua sotto i ponti. Il quintetto è stato consacrato a salvatore del post-punk con Dogrel nel 2019. Ha sfiorato il Grammy nel 2021 dopo aver pubblicato A Hero’s Death. Lo switch vero e proprio arriva però nel 2022, quando la band tira fuori dal cilindro il suo terzo disco. Skinty Fia è la cosa più completa che abbiano mai fatto, uno dei migliori dischi irlandesi dal 2000 ad oggi e un classico istantaneo. 

Ora la domanda sorge spontanea: Per quale motivo siamo tornati indietro così tanto per parlare del nuovo album? La risposta è nei fili conduttori. Gli scorsi tre dischi erano legati a doppio filo dalla stessa identica visione. Un morboso attaccamento verso la loro terra natia. Mentre su Dogrel Chatten si era scagliato sull’Irlanda – e in particolare su Dublino – sul terzo disco, uscito dopo il loro trasferimento a Londra, la band appariva come tormentata da un insaziabile senso di colpa per aver lasciato quella terra che aveva contribuito a formarli come persone e come artisti. Bene, tutto questo sembra essere solo un lontano ricordo. Ora i Fontaines D.C. sono liberi da quel tarlo, liberi di andare oltre, di esplorare e sperimentare. Su Romance tutto questo è espresso all’ennesima potenza. 

Romance

Come sonorità possiamo dire che la band sembri ripartire dai tratti Shoegaze espressi su Skinty Fia, ma la verità – anche in questo caso – è molto più articolata. Mentre facevano da spalla agli Arctic Monkeys durante il loro tour, tutti i membri del gruppo hanno avuto modo di condividere gli uni con gli altri i generi e gli artisti più disparati. Si passa da Sega Bodega agli OutKast, dai Deftones ai Korn. Spunti sonori che vanno dall’Hip-Hop al Metal, hanno influenzato pesantemente i processi creativi dei cinque membri.

Si sono presi anche del tempo per loro stessi. Grian si è trasferito a Los Angeles e ha fatto uscire il suo disco di debutto da solista. Con Chaos For The Fly si è completamente staccato dalle sonorità cupe dei Fontaines, rifugiandosi nei toni caldi del Pop Barocco e del Folk. Ha scoperto un nuovo modo di scrivere e ha portato la sua voce verso orizzonti che non aveva mai sperimentato. Deegan, il bassista, si è trasferito a Parigi, mentre O’Connell, che insieme a Chatten rappresenta una delle menti più creative del gruppo si è spostato in Spagna. Ha contribuito, insieme a Peter Perrett (The Only Ones) ad alcune sue produzioni, ha esplorato l’arte di arrangiare gli archi e, nel mentre, è pure diventato padre. Poi, come in un film, il disco ha chiamato, e i cinque ragazzi di Dublino hanno risposto. 

Romance è il cambio di rotta più incredibile che una band potesse intraprendere dai tempi di Tranquillity Base Hotel & Casino dei Monkeys e – in un certo senso – ci sono delle sensazioni simili. Non a caso, concluso il sodalizio con Dan Carey, il gruppo si è rivolto a James Ford (Depeche Mode, Arctic Monkeys, Gorillaz), per la produzione. Lui più di tutti sa cosa vuol dire intraprendere un percorso di cambiamenti radicali e, più di tutti, sa come farlo mantenendo intatta l’identità artistica. Tra gli scricchiolii distorti dell’alt-rock anni ’90 e estetiche di primi anni 2000, i Fontaines D.C. suonano come la miglior band a cui potessero mai ispirarsi, loro stessi.

Messo da parte il senso di identità dei lavori precedenti, la band non riesce però a mettere da parte la costante sensazione di degrado in cui si sente immersa. Solo che, invece di abbandonarsi completamente ad essa, questa volta sceglie il distacco. Il disco si sposta verso orizzonti astratti, a metà fra ciò che è reale e ciò che è finzione. Grian e gli altri si tengono in equilibrio fra i due mondi come dei funamboli. E mentre questa pressione, e questa sensazione di degrado sembrano non scrollartisi mai di dosso, la band ci trova dell’amaro Romanticismo.

“Forse il romanticismo è un luogo” – canta Chatten tra inquietanti crescendo e imponenti melodie nella title-track. Su Starburster arriva uno dei momenti più sperimentali del gruppo, dove sezioni ritmiche propulsive e stridenti melodie di Mellotron, fanno da bozzolo per tematiche autodistruttive, prima di abbandonarsi a orchestrazioni barocche. Nato da un litigio tra Chatten e O’Connell, Here’s The Thing schiaccia il piede sull’acceleratore (o sui pedali delle distorsioni). Il brano è ansiogeno eppure alla costante ricerca di un briciolo di desiderio. Desire resta su questo ridondante gioco di ritmiche, delle montagne russe che oscillano fra ritmi narcotizzati e frenetici, abbandonati a tinte shoegaze e sonorità sensuali. 

Le influenze losangeline si avvinghiano a In The Modern World. Tra suoni fortemente ispirati allo slowcore di Lana Del Rey, il brano si addentra in tematiche fortemente politicizzate, che raccontano di un mondo decadente, del fallimento del capitalismo, e della lotta politica sotto un triangolo amoroso nell’occhio del ciclone. La cosa ironica è che non esiste niente di più romantico di tutto ciò. Su Bug emergono le influenze folk che hanno caratterizzato tutto il debutto solista di Chatten, con uno strumming che ricorda vagamente I Love You. L’acusticità viene polverizzata da orchestrazioni e chitarre squillanti, mentre il frontman danza fra due mondi, uno influenzato dai R.E.M. e l’altro dall’era più pop degli Smiths.

Loop e scricchiolanti chitarre acustiche guidano il sentimentalismo di Motorcycle Boy. Ciò che colpisce a questo punto di Romance è ancora una volta il testo. Grian non ha più paura di parlare di sentimentalità, non importa in che ottica. Nonostante il lavoro squisito di tracce come A Couple Across The Way, lo stesso Chatten aveva più volte detto di trovarsi in gravi difficoltà quando doveva scrivere di sentimenti. Bene, sembra aver trovato la sua strada. Sundowner è un’ode all’amicizia scritta e cantata da Conor Curley, mentre su Horseness Is The Whatness tornano, come ai tempi di Dogrel, i riferimenti a Joyce. Essenzialità e Orchestrazioni sono le due parole chiave di questo brano. Il battito cardiaco della figlia di O’Connell (che ha scritto e arrangiato la traccia), si unisce a un crescendo malinconico e allo stesso tempo caldo e avvolgente. 

Death Kink ancora una volta assorbe scelte sonore dai dischi precedenti, salvo poi trasformarle in strutture apocalittiche a sostegno di un testo che analizza in lungo e in largo il risveglio da una relazione guidata dalla manipolazione in un mondo che farebbe rabbrividire Orwell. 

E poi? Forse è meglio non svegliarsi mai del tutto. Il disco si chiude con il jangle-pop a tinte shoegaze di Favourite. Dite la verità, vi siete spaventati quando questa canzone è stata rilasciata come singolo. Avete pensato che i Fontaines D.C. fossero l’ennesima band venduta a chissà quale sistema discografico. Solo dopo aver ascoltato questo disco nella sua interezza realizziamo il suo vero significato. Perché a volte si può trovare del bello anche negli attimi di tristezza. Perché a volte ti è concesso solo arrenderti in balia degli eventi. Come l’amaro Romanticismo di due innamorati che si concedono l’ultimo bacio, mentre il mondo esplode.

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Studio 54: La Golden Era delle Notti Newyorkesi

Nell’immaginario collettivo, lo studio 54, è diventato l’icona della vita notturna newyorkese degli anni ’70. Il celebre Nightclub ha visto nascere e morire la disco music e l’era glamour. Era il simbolo per eccellenza di eccessi e libertà. Il buon vecchio sesso, droga e Rock and Roll. Era un vero e proprio epicentro culturale, dove celebrità, artisti, e la scena della moda si mescolavano in un vortice di musica e stravaganza, ma in verità, lo Studio 54, era molto di più. 

Il locale venne aperto nell’aprile del 77, in un ex teatro situato al 254 West 54th Street a Manhattan, da Rubell e Schrager. Entrambi avevano già esperienza nel settore dell’intrattenimento, ma quello che volevano creare con lo Studio 54, era qualcosa che nessuno avesse mai visto fino a quel momento, e beh, ci sono riusciti. Con l’aiuto dell’interior designer Ron Doud, trasformarono il vecchio teatro nel palcoscenico più importante per il divertimento e la stravaganza. 

Studio 54 foto 1

Tutto al suo interno rispecchiava una cultura piuttosto eccentrica. Le enormi sfere stroboscopiche l’arredamento “teatrale”, fino all’utilizzo di oggetti di scena. Uno di questi, la statua della luna che sniffa cocaina da un cucchiaio, forse uno dei più grandi simboli della cultura delle droghe dell’epoca. 

Sorpassata la rigida selezione all’ingresso dello stesso Rubell, quello che succedeva dentro il club era qualcosa di magico. Lo studio 54 trasudava atmosfere elettrizzanti e la musica regnava sovrana. La zona della console era il trono di DJ leggendari come Richie Kaczor e Nicky Siano, pronti a mixare tutti i più grandi successi dell’epoca, che con l’arredamento e l’illuminazione creavano una miscela incredibilmente esplosiva. 

Purtroppo si sa, quando si ha a che fare con questo tipo di locali, difficilmente si riesce a non incappare nei guai. Lo studio 54 divenne rapidamente il luogo perfetto per tutte le celebrità dell’epoca. Andy Warhol fu probabilmente uno dei frequentatori più assidui del locale, talmente assiduo che, nell’immaginario collettivo, è colui che più di tutti ha contribuito a creare l’immagine di quest’ultimo. In realtà le celebrità che hanno ballato sul dancefloor del club sono tantissime e di tutti i tipi. Da Mick Jagger a Diana Ross fino addirittura a Michael Jackson, che pare abbia tratto parecchia ispirazione da questo paradiso, prima di iniziare a lavorare su Off The Wall.

Studio 54 foto 2
Michael Jackson e Steven Tyler, frontman degli Aerosmith

Insomma, in poco tempo non solo era diventato un luogo di svago, ma anche uno spazio dove nascevano e si consolidavano relazioni tra personaggi importanti nel mondo dell’arte, della musica e della moda. Le celebrità non erano solo ospiti, ma in qualche modo un pezzo dell’arredamento. Parte integrante dell’atmosfera del club, e coloro che più di tutto il resto, avevano contribuito a creare quell’aura di fascino e eccentricità. 

Gli episodi leggendari non mancavano: la famosa entrata di Bianca Jagger a cavallo, la stravaganza di Warhol e del suo entourage e feste di compleanno così sontuose da sembrare più spettacoli teatrali. L’uso di droghe comune e alla “luce del sole” però, fu uno dei principali problemi che decretarono la lenta fine dello Studio 54. 

Studio 54 foto 3

Nonostante il suo successo, il locale venne chiuso nel 1978 a seguito dell’arresto dei due proprietari per evasione fiscale – si scoprì che Rubell e Schrager avevano nascosto milioni di dollari non dichiarati. I due fondatori vennero arrestati e il club chiuso temporaneamente. Durante il processo emerse che avevano nascosto ingenti somme di denaro all’interno di buste della spesa nascoste nel controsoffitto del locale. Durante il processo, Rubell divenne famoso per aver detto che solo la mafia era in grado di generare più soldi dello Studio 54. Scontata la pena, tentarono di rilanciare le loro carriere nel settore dell’Hospitality, ma la Golden Era dello Studio 54 era ormai terminata. Nello stesso periodo (1981), il locale aprì sotto una nuova gestione ma, non riuscendo a recuperare quel suo antico splendore, chiuse definitivamente nel 1986. 

L’incredibile storia di questo posto è durata uno schiocco di dita – un battito di ciglia. Un secondo prima era il punto centrale della vita notturna del Jetset newyorkese, e il secondo dopo era sparito. Era come gli ultimi rimasti di quelle feste sontuose e stravaganti, che una volta sole e alle prime luci dell’alba, guardavano il locale vuoto, increduli di ciò che solo poche ore prima era successo. Nonostante tutto, la sua influenza nella cultura pop è innegabile. Ha definito un’era che continua a ispirare la moda, la musica e l’arte contemporanea. 

/ 5
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Shangri-La Studios: Dalle Origini alle Radici della musica moderna

Gli Shangri-La Studios sono uno dei nomi più leggendari nel panorama musicale, un vero e proprio templio in cui la creatività artistica si spinge verso confini inesplorati, o almeno questo è quello che si crede. Conosciuto dai molti, per la figura estremamente eclettica del produttore Rick Rubin, che ne è attualmente il proprietario, gli studi hanno una storia molto più grande. È una storia che trascende le epoche musicali, da Bob Dylan e The Band, fino ad Adele e Kanye West

Gli Inizi: Anni ‘70

Lo studio fu fondato nel 1974, dopo che Rob Fraboni, un produttore e ingegnere del suono che aveva lavorato con grandi artisti, tra cui The Band e Bob Dylan, decise di acquistare, un terreno nei pressi di Zuma Beach, dall’attrice messicana Margo. Lo studio non era pensato come un classico studio di registrazione. Per Fraboni doveva essere più un ambiente che gli artisti concepissero come un rifugio, in cui esprimere la loro creatività nel migliore dei modi e, cosa più importante di tutte, dove l’industria musicale non potesse mettere bocca sulle scelte artistiche. Mai più azzeccato fu il nome Shangri-La, un luogo di pace e serenità, un vero e proprio paradiso in terra. 

Fra i primi gruppi a registrare nello studio ci furono proprio The Band. Il disco Northern Lights – Southern Cross, venne registrato nel 1975 e fu il primo disco del gruppo, composto esclusivamente da materiale inedito, da Chaoots, uscito nel 1971. Quello che cercavano per le registrazioni dell’album era proprio l’atmosfera voluta da Fraboni quando ha acquistato il terreno per trasformarlo in uno studio di registrazione. Un ambiente che favorisse l’ispirazione e la collaborazione creativa. Seguirono sessioni di registrazione intense e parecchio produttive e il disco fu uno dei primi prodotti che contribuì a creare l’immagine che lo studio si porta dietro ancora oggi, a distanza di quasi cinquant’anni. 

Anni ‘80: L’Era dei Grandi Classici

Nel corso degli anni ’80, gli Shangri-La erano diventati la Mecca dell’industria musicale, attirando tantissimi artisti di fama mondiale, da Eric Clapton a Joe Cocker. Uno degli ospiti più ambiti di quel periodo fu sicuramente Bob Dylan, che registrò una parte del suo disco Shot of Love. Lo studio è sempre stato dotato di tecnologie all’avanguardia e un team di persone estremamente qualificato, eppure quella magia non sembra venire attribuita a questi due fattori. A dirla tutta, nessuno è mai stato in grado di spiegarla, ma tutti gli artisti l’hanno percepita. 

Anni ’90 e 2000: Declino e Rinascita

Durante gli anni ’90 lo studio attraversò un periodo di “magra”, uscendo dai radar dell’industria, tranne che per gli affezionati, ma nei primi anni 2000, cambiò di nuovo tutto. Lo studio fu acquistato da Rick Rubin, uno dei più influenti e tentacolari produttori di sempre. I suoi lavori andavano oltre i generi musicali, passando da Red Hot Chili Peppers a Johnny Cash. Rubin sentì in quello studio una magia che sembrava quasi dimenticata e riporto lo Shangri-La al suo antico splendore.

Rick Rubin Shangri-La

Sotto la sua guida, lo studio tornò nuovamente sulla bocca di tutti. Al suo interno vennero registrati gran parte dei dischi della nuova generazione, da 21 di Adele a Yeezus di Kanye West. In questo senso, il lavoro di Rubin è stato più forte rispetto a quello di Fraboni. Mentre Rob creò tutto da zero, Rubin è riuscito a creare un ponte fra le radici storiche dello studio e le esigenze dell’industria di oggi, pur riuscendo a mantenere l’atmosfera unica che lo aveva contraddistinto. 

Gli Shangri-La Oggi: Tra Innovazione e Tradizioni

L’evoluzione dello studio non è mai passata inosservata. Lo Shangri-La oggi presenta le più avanzate tecnologie di registrazione, pur mantenendo un forte legame con elementi più tradizionali. Questo equilibrio è stato fondamentale per far si che, ad oggi, lo studio rimanga al passo con i tempi, offrendo tutti gli scenari possibili immaginabili per sviluppare una canzone. Tra i progetti più recenti spiccano Harry Styles, Lady Gaga e In Times New Roman dei Queens of the Stone Age. Ancora oggi ogni dettaglio continua ad essere curato per favorire la massima espressione artistica. 

Un tempio Creativo per gli artisti

Una delle caratteristiche che rendono lo studio così unico è il contesto naturale. Esistono centinaia di studi di registrazione immersi nella natura, o costruiti sulle rovine di quelli che prima erano casali o fienili, ma per lo Shangri-La è diverso. Situato sulle colline di Malibu, lo studio si affaccia, da una parte sulle montagne circostanti, dall’altra sull’oceano Pacifico. 

È stato progettato per trovare l’equilibrio perfetto tra comfort e funzionalità. Le sale di registrazione sono curate nei minimi dettagli, con materiali di altissima qualità, per favorire l’acustica, pur mantenendo l’ambiente caldo e accogliente. Ogni dettaglio, dalle luci soffuse all’arredamento è pensato per mettere gli artisti a proprio agio e stimolare la loro creatività.

La combinazione di un’ambiente naturale incredibile è la cura nella progettazione ha reso lo studio un vero e proprio tempio creativo. Sono svariate le personalità dell’ambiente musicale che hanno raccontato di aver trovato nello Shangri-La, non solo uno spazio di lavoro, ma un luogo in grado di tirare fuori tutto il loro potenziale. Questa filosofia, è la più importante motivazione per cui, ancora oggi, gli artisti continuano a tornarci.

Shangri-La Interno 1

L’impatto Culturale

Nel corso degli anni lo studio è diventato uno dei punti di riferimento in tutto il panorama musicale. I progetti registrati al suo interno hanno avuto un impatto significativo a livello culturale e sulla carriera degli artisti. Tornando indietro ad esaminare i progetti usciti da questo studio, si nota in poco tempo che molti di loro hanno spesso ridefinito e portato avanti l’evoluzione dei generi musicali più disparati. 

L’influenza dello Shangri-La non è solo musicale. Documentari, film e articoli, nel corso degli anni, hanno celebrato ciò che è stato e ciò che è lo studio, rendendolo uno dei luoghi di creazione della musica più conosciuti al mondo. 

Ad oggi, quest’oasi discografica ha contribuito ad influenzare il modo in cui altri studi vengono concepiti, il modo in cui operano e addirittura, il tipo di tecnologia che utilizzano. Questo approccio ha dimostrato che non è solo chi ha il microfono più costoso, o la console più grande o il produttore migliore, a generare la musica migliore, ma anche l’ambiente che ti permette di farla uscire dalla tua testa. 

Ogni artista che ha lavorato dentro le mura dello Shangri-La ha scolpito qualcosa nell’anima dello Studio. Ha contribuito a costruire, mattone dopo mattone, nota dopo nota, la sua eredità. A distanza di cinquant’anni, questo studio rimane un faro di creatività nell’industria musicale. Speriamo non smetta mai di brillare.

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Intense About Things: La recensione del disco di debutto di June

  • June – Intense About Things
  • 28 Giugno 2024
  • ℗ Vino In Vena Editore

Quello di June, all’anagrafe Giulia Vallicelli, è un viaggio che inizia nell’estate del 2022. La cantautrice romagnola ha sempre avuto un forte legame con la musica e, dal punto di vista compositivo/autoriale, ha preso la strada preferita di chi non vuole passare anni della sua vita a suonare le canzoni degli altri. Ha imparato da sola. Opinione condivisibile o meno, alla fine della storia, quello che conta è cosa hai da dire – e Intense About Things di cose da dire ne ha parecchie. Ma Andiamo con ordine.

June è un nome attribuito all’artista da alcuni amici, un semplice gioco di parole sul fatto che è nata a giugno, eppure, un gioco di parole che suona perfettamente con le atmosfere del disco. Quando si parla di differenze strutturali tra l’indie italiano e quello internazionale, si fa in fretta ad attribuire tutto alla lingua (si questo disco è cantato tutto in inglese). In realtà la differenza sta nei suoni, negli ambienti che si vogliono creare, nel modo in cui si sceglie di raccontare certe storie. Intense About Things, seppur grezzo sotto alcuni punti di vista (cosa piuttosto normale – ricordiamoci che è un disco di debutto totalmente indipendente), ha tutte queste caratteristiche. 

L’album nasce dall’incontro con il produttore Francesco Francia (FRNQ), e un bisogno martellante di esprimere la propria creatività, abbattere i muri della timidezza, essere “Liberi”. I 35 minuti che fanno questo progetto sono un concentrato di indie-pop riflessivo, in cui l’artista segue un percorso di auto-analisi su tutti i momenti che l’hanno accompagnata fin li. Intese About Things racchiude circa due anni di storie e racconti, che legati l’un l’altro creano un viaggio alla ricerca di espressione. Un morbido rimando alla natura attenta e sensibile dell’artista rispetto ai cambiamenti, alla crescita e al sentirsi non sempre al passo con le vite degli altri. 

Intense About Things

L’apertura Bloodline, è il secondo singolo estratto dal progetto, uscito a settembre dello scorso anno. Le atmosfere intime e riverberate si incontrano con campioni (lungo il disco ne troveremo diversi), che creano un’aura perfetta, in cui Giulia riflette sull’importanza e la paura dei cambiamenti. Su The Lights gli arpeggi di chitarra si fondono ad una sezione ritmica sincopata. La fine di una relazione, un periodo di transizione tra liceo e università, fra il mondo dei piccoli e quello dei grandi. Crescita e transizioni guidano ancora una volta il brano che si spegne negli attimi di delusione e vulnerabilità di Whatever It Was. “Cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente?” – ammettiamolo tutti, ad un certo punto ci siamo posti questa domanda, e non sempre abbiamo avuto una buona dose di pragmatismo per poter guardare con obiettività a ciò che ci stava succedendo.

Small Feelings, ultimo singolo di anticipazione del disco, mette in contrasto la rabbia dei testi ad un’incredibile dolcezza compositiva, mentre la nostalgia entra da protagonista in To Kill a Lamb. Fragilità e infantilità guidano il disco e, ciò che veramente è importante, è che non c’è vergogna nella voce di June. Forse è perché questo è l’unico modo per imparare dai propri errori e crescere. Tutte queste sensazioni fanno parte del cambiamento di ognuno di noi.

Questo disco è un reminder: Per prenderne atto, farsene una ragione e andare avanti. I riverberi si ingigantiscono negli arpeggi di Play House. La nostalgia si fa sempre più forte e fa quasi male. È quel momento in cui guardi indietro a quei ricordi in cui il te bambino giocava a fare il grande. Era divertente, perché in fondo eri pur sempre un bambino. E poi? Il sogno si rompe, interrotto dalla suoneria di un telefono. 

I leggeri strumming di chitarra acustica trasformano Funkiller in una traccia che strizza l’occhio alle prime composizioni di Phoebe Bridgers. Seppur leggero, questo è il brano più frenetico del disco, alla ricerca delle motivazioni per cui a volte ci si sente fuori luogo. My Eyes, My Angel, scritta e composta in collaborazione con Guido Natalini, ci conduce dolcemente verso la fine del disco. Slant è assolutamente il momento compositivo più alto di questo disco. Le emozioni si affievoliscono e si accentuano lungo tutta la durata, man mano che i suoni si evolvono, si sporcano e si aprono. Sebbene sia stata scritta durante un trasloco nel periodo in cui è avvenuta un’alluvione a Faenza, città dell’artista, il finale della traccia ritorna a quei dubbi martellanti che ci hanno cullato per tutto l’ascolto del disco – they might be wondering if i am enough.

/ 5
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Blue Rev: la recensione del terzo disco degli Alvvays

Il destino di Molly Rankin era già scritto alla sua nascita. La figlia di John Morris Rankin, della band canadese, The Rankin Family, è nata con la musica nel sangue. La frontwoman degli Alvvays, però si è ben presto allontanata dall’educazione folk che le terre rurali della Nova Scotia le avevano instillato, pur mantenendo un amore speciale per il genere. Dopo una breve carriera da solista, in cui ha pubblicato un solo EP, l’artista delle “terre del nord” fa la sua conoscenza con Alec O’Hanley (attualmente chitarrista del gruppo). Il chitarrista dei Two Hours Traffic sporcherà gli elementi folk e Twee Pop di Molly con indie rock, dream pop e shoegaze. Insomma, gli Alvvays sono un successo non solo prima di Blue Rev, ma addirittura prima di nascere. 

Dopo il successo dei due dischi precedenti “Alvvays” e “Antisocialities”, la band si è trovata nel vortice dei revival musicali che hanno caratterizzato la seconda metà degli anni ’10. A differenza di tanti altri, Rankin e Soci hanno surfato divinamente su quell’onda shoegaze che ha trovato il suo culmine nel corso del 2023. 

Molly e Alec, hanno iniziato a scrivere “Blue Rev” nel corso del 2017, subito dopo Antisocialities, ma una serie di problematiche non di poco conto, quella della pandemia prima fra tutte, hanno ritardato le sessioni di registrazione del disco. Una volta arrivati in studio, affidate le tracce a Shawn Everett (Brittany Howard, The War On Drugs, Beyoncé), il quintetto ha portato Alvvays ad un passo successivo, un nuovo livello di grandezza. Blue Rev entra di diritto nella lista dei più grandi dischi del genere, attraverso un’analisi dettagliata nelle radici di pop e rock. 

Sebbene il disco sia profondamente innovativo, e in questo Everett è stato un maestro, la cosa davvero brillante è la sensazione di familiarità che trasmette, dalla prima all’ultima traccia. 

Blue Rev

Le melodie filtrate esplodono in chitarre ruggenti nella nostalgica apertura. Pharmacist riporta a galla vecchie relazioni finite, tra ricordi e accettazione, non tanto della relazione in sé, quanto dei cambiamenti. Su Easy On Your Own?, gli strati scricchiolanti di Synth, fanno da tappeto perfetto per una Molly che riflette sul modo in cui le scelte influiscano sulle nostre vite come, ad esempio, l’abbandono dell’università per inseguire un sogno. “In quei giorni non ti avrei mai lasciato a pezzi” – canta nella Morisseyiana After The Earthquake, a metà fra punk e morbido indie rock. 

Le atmosfere movimentate si perdono nei riverberi di Tom Verlaine, traccia dedicata al Cantante/chitarrista dei Television. Ritornano con più forza in Pressed, colma di sonorità prese in prestito da Johnny Marr. Tutto il disco si muove ciclicamente fra post-punk, indie rock e Shoegaze, e lo fa dannatamente bene. Many Mirrors si tuffa nell’autostrada dei ricordi, con tastiere scintillanti e sonorità soffici, ricorda i primi Alvvays.

I ricordi pandemici riaffiorano su Very Online Guy. Tra ritmiche sporche e sovrapposizioni vocali, la traccia racconta la vita (in questo caso una frequentazione), filtrata dai pixel, dai followers e dai filtri stessi. Le liriche ironiche esplodono in un turbine di malinconia in Velveteen. “Chi è lei?” / “Perché non posso essere io?” – canta Molly tra assoli squillanti e crescendo di arpeggi sintetizzati nell’ennesima storia andata in frantumi. Eppure le melodie sono così soffici che sembra quasi impossibile riuscire a vedere quei nuvoloni neri, colmi di tristezza che spesso troviamo nei testi. 

Ancora amori, e ancora amori andati male. Tile By Tile si colora di suoni barocchi: dalle chitarre, spogliate di tutti gli effetti, alle orchestrazioni, agli organi che occupano il punto centrale nell’arrangiamento. La band torna con una dose massiccia di irriverenza, nell’energico inno punk Pomeranian Spinster, prima di muoversi su una delle tracce di punta di Blue Rev. Le sonorità anni ’80 sull’intro di Belinda Says sono solo l’apri pista per un arrangiamento impeccabile. Il brano è una ballad nostalgica piena di dubbi e incertezze: “Troverò la mia strada” / “Avrò un bambino” / “Cambierò Città”. Sembrano tutte più domande che affermazioni, in una composizione che cerca di dare un volto al dover crescere.

Bored in Bristol si ripulisce da ogni schizzo di nostalgia, portando il disco verso un attimo di spensieratezza, per spegnere il cervello e non pensare. Dura davvero poco, perché, mentre le dita di Kelly MacLellan toccano dolcemente i tasti del piano elettrico, Molly si affida a Kate Bush, per far fronte alla sua solitudine. La chiusura del disco (Fourth Figure), a metà fra requiem e Baroque Pop, mette il sigillo finale ad uno dei dischi migliori che il 2022 abbia regalato. Il brano dura a malapena un minuto, ma questo non ha impedito agli Alvvays di creare un arrangiamento complesso e magistrale, in cui la spettralità diventa un tutt’uno con la quiete.

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Fairlight CMI: La rivoluzione digitale degli anni ’80

Oggi chiunque può produrre musica. Il processo produttivo di una canzone è diventato molto meno complesso e macchinoso. Basta realmente un computer, ma c’è stato un periodo in cui era tutto molto più complicato. Non potevi produrre musica se non in studi estremamente costosi e non potevi pubblicare una canzone se non con un’etichetta discografica. C’è stato un giorno, nel 1978, in cui il corso della musica è stato completamente stravolto. Il giorno in cui è stato messo in commercio il Fairlight CMI.

Il Fairlight CMI (Computer Musical Instrument) è uno degli strumenti più rivoluzionari nel music business. Introdotta nel 1979, questa macchina, è considerata il primo campionatore digitale della storia, nonché colui che ha cambiato radicalmente il modo in cui la musica veniva composta, registrata e prodotta. Con le sue capacità avanzate (per l’epoca) di sintesi e campionamento, il CMI ha introdotto gli artisti a nuove possibilità creative, influenzando profondamente la musica degli anni ’80 e non solo. 

Le Origini

L’innovazione Australiana

Fairlight CMI
Peter Vogel e Kim Ryrie con il Fairlight

Il Fairlight fu sviluppato da Peter Vogel e Kim Ryrie, due ingegneri australiani che avevano una passione particolare per la tecnologia orientata alla musica. Fondarono la Fairlight Instruments Pty nel 1975, spinti da una visione innovativa mirata a sviluppare una macchina che inglobasse le capacità di un sintetizzatore e quelle di un computer. Dopo quattro anni di ricerche, nel 1979, nacque il primo modello di CMI. 

Caratteristiche

Il primo modello di Fairlight era dotato di una tastiera simile a quella di tutti i sintetizzatori già in commercio, un computer con monitor e un dispositivo di puntamento chiamato “light pen”. La vera svolta non era però nell’hardware. La sua capacità di campionamento digitale permetteva di registrare suoni a 8 bit e riprodurli a varie velocità. Grazie al linguaggio di programmazione di cui era dotato, i musicisti potevano manipolare e modificare i suoni con una maggiore libertà rispetto ad ogni campionatore esistente. 


L’Impatto del Fairlight CMI sulla Musica

Un Suono Iconico

Il CMI divenne in un battito di ciglia uno strumento essenziale per molti artisti dell’epoca. Il modo in cui permetteva di lavorare sul suono offriva possibilità creative potenzialmente illimitate. Brani iconici come “Beat It” di Michael Jackson presentano suoni campionati con il Fairlight. Kate Bush è però l’esempio più incredibile delle possibilità che aveva questa macchina. L’intero album “Hounds of Love”, dove è contenuta la celebre canzone “Running Up That Hill”, è prodotto attraverso il Fairlight. Quello di Kate Bush è il primo caso nella storia in cui il computer prende un ruolo fondamentale nella produzione di un disco. 

Fairlight CMI
Kate Bush con la prima versione del Fairlight CMI – 1980

Il CMI fu pane per i denti di produttori di musica pop, rock e New Wave, ma non solo. La versatilità di questo campionatore influenzò in poco tempo i generi più disparati, dal Jazz alla musica classica. Ad un certo punto arrivò anche nelle colonne sonore, diventando uno degli strumenti di punta nelle composizioni di Hans Zimmer. 

Evoluzione del CMI

Fairlight CMI Series II e IIx

Nel 1982, l’azienda lanciò il secondo modello del CMI. In questa nuova versione, il campionatore offriva una maggiore memoria, una qualità sonora superiore e nuove funzionalità. Nel IIx, introdotto l’anno dopo, aggiornarono ulteriormente la risoluzione del campionamento, passando a 16 bit, e aggiunsero un’interfaccia MIDI. Le modifiche lo resero ancora più efficiente, consacrandolo come lo strumento più avanzato dell’epoca. 

Fairlight CMI Series III

Lanciato nel 1985, il Fairlight Series III rappresentò il culmine dell’innovazione. La risoluzione di campionamento era sempre a 16 bit, mentre la polifonia era stata aumentata fino a 16 voci. Questo modello offriva una qualità sonora eccezionale e includeva una libreria di suoni campionati e un’interfaccia utente migliorata. Pur essendo un macchinario molto costoso diventò il prodotto più ambito dai produttori e musicisti di tutto il mondo. 

Impatto del Fairlight CMI sulla Tecnologia Musicale

Campionamento e sintesi

Il Fairlight CMI fu pionieristico non solo per le sue capacità di campionamento, ma anche per le sue funzionalità di sintesi additiva e sottrattiva, che permisero ai musicisti di creare suoni nuovi e sempre più complessi, combinando le onde sonore a proprio piacimento. Il CMI introdusse anche il concetto di sequenziamento digitale, permettendo di programmare e riprodurre sequenze di note e suoni con una precisione mai vista fino a quel momento. 

Rivoluzione Digitale

L’introduzione di questa macchina segnò l’inizio della rivoluzione digitale nell’ambiente musicale. Prima del Fairlight, la maggior parte della produzione musicale avveniva attraverso macchinari analogici. Con il CMI, i musicisti potevano manipolare e riprodurre suoni in formato digitale. In questo senso, il Fairlight, aprì la strada alle tecniche di produzione attuali.  

Declino e Riscoperta

La Concorrenza e il declino

Nonostante l’ampio successo, le nuove scoperte degli anni ’90 iniziarono a far perdere terreno al CMI. I nuovi sintetizzatori e campionatori erano meno costosi, più accessibili e, inoltre, occupavano meno spazio. Strumenti come l’Akai S1000 e il Roland S-770 offrivano capacità di campionamento molto simili e a un prezzo ridotto. Anche l’evoluzione dei computer era progredita a vista d’occhio e di conseguenza certi software erano ormai obsoleti.

Fairlight CMI
AKAI S1000

Operazione Nostalgia

Negli anni 2000, ci fu una riscoperta degli strumenti vintage, fra cui il Fairlight CMI. Molti musicisti si trovarono a preferire il colore e la qualità di questo strumento. La nostalgia per l’estetica e il suono anni ’80 portò a un rinnovato interesse per il CMI, alimentato dal crescente stato di popolarità della musica elettronica e della synthwave, che celebravano le sonorità vintage.

Cosa ci resta oggi del Fairlight CMI

Oggi il CMI è un antico cimelio da museo e le nuove tecnologie lo rendono sempre più obsoleto. Eppure il Fairlight è dentro il processo creativo di qualunque produttore moderno. Esso introdusse i concetti e le tecniche che oggi stanno dietro qualunque software di produzione musicale. Ha dimostrato quanto forte può essere l’ingegno umano e cosa succede quando digitale, analogico e creatività si incontrano. Se oggi si può “fare musica con il computer”, lo dobbiamo solo a questa macchina semplicemente incredibile.

/ 5
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Off The Wall: L’album d’oro della Disco Music al tramonto della Disco Music

  • Michael Jackson – Off the Wall
  • 10 Luglio 1979
  • ℗ Epic / MJJ Productions

Life ain’t so bad at all / If you live it Off The Wall

Al suo ventunesimo anno di età, quella che sarebbe diventata una delle icone pop più grandi di tutti i tempi, aveva più anni di carriera di molti altri musicisti. E non era una cosa positiva. Per il bambino prodigio di Gary, le luci dei riflettori sono sempre state più un male che un bene e, complice un padre fin troppo severo e esigente, Michael Jackson non ha mai vissuto la tenera età come tutti gli esseri umani meriterebbero. Questo è forse il primo punto che rende il suo quinto disco così incredibile. Off The Wall è da considerare a tutti gli effetti come un secondo debutto per Jackson. Un secondo debutto in cui tirare fuori tutto sé stesso, celebrare la vita e la voglia di divertimento che solo in giovane età si ha. Quale genere migliore per esprimere questo concetto se non la Disco Music

Off The Wall arriva apparentemente nel momento sbagliato e sembra proprio non interessarsene minimamente. Esce in commercio il 10 Luglio del 1979, appena due giorni prima che il mondo decretasse la fine del genere. Con la Disco Demolition Night, un evento in cui, in uno stadio di baseball, vennero demoliti migliaia di dischi, al culmine di un movimento reazionario contro la Disco Music. Off The Wall procede a passo spedito, scala le classifiche, entra nei cuori di qualsiasi ascoltatore e fa capire al mondo che l’ultimo ad avere la parola prima del tracollo del genere è Michael Jackson.

Per quello che diventerà il Re Del Pop, questo disco è un processo di transizione di 42 minuti da prodigio dei Jackson 5 a icona mondiale. Per comprendere meglio il disco, forse bisognerebbe fare qualche passo indietro, più precisamente all’estate del 1976. I fratelli Jackson disegnano sulla CBS un mondo fatto di luci abbaglianti, costumi e stravaganza, che debutterà col nome di The Jacksons. Quel programma cucirà su Michael un personaggio complicato da scrollarsi di dosso, ed è molto difficile far vedere davvero chi sei, se il mondo rimane avvinghiato ad un’immagine di te completamente distorta e “abbagliata dai flash”. Con Off The Wall, Jackson disegnerà un nuovo artista a 360 gradi. Look nuovo, personaggio nuovo e, in un modo o nell’altro, una persona nuova. 

off the wall

L’idea del disco ha iniziato a prendere forma nella testa di Michael a New York, durante le riprese di The Wiz, nel 1978. In quel periodo, la Grande Mela era un costante via vai di artisti e personalità di spicco del mondo dello spettacolo, che il Michael ventenne ha attirato (o da cui è stato attirato) come una calamita. Ben distante da quelle atmosfere stile “Sesso, Droga e Rock N’ Roll”, si è limitato ad assimilare quanto più l’ambiente era disposto ad offrirgli, per trasformarlo in un’istantanea perfetta dell’epoca simbolo di stravaganza e eccessi.

Durante le riprese del film, il giovane Jackson non si diverte solo, ma fa anche parecchie conoscenze. E una di queste gli cambierà la vita. Ha un curriculum chilometrico, va da Dizzy Gillespie a Frank Sinatra, e il suo nome e Quincy Jones. Quando l’idea del disco iniziò a concretizzarsi, il dinamico duo non voleva solo un album che permettesse a Jackson di affermarsi artisticamente, volevano il miglior album di Disco Music mai prodotto. A distanza di 45 anni dalla sua uscita, possiamo dire che ci sono riusciti. Q e Michael ascoltarono un totale di circa 800 demo, prima di scegliere le dieci tracce di Off The Wall.

Fatto il pieno di alcuni dei musicisti migliori che la scena musicale del tempo potesse offrire, prenotarono gli studi. Il disco è stato lavorato fra gli Allen Zentz Recoding Studios, i Westlake e i Cherokee. L’El Dorado della produzione musicale, dotato di alcune delle apparecchiature più avanzate dell’epoca. Dentro questi veri e propri templi della musica, la raffinatezza delle produzioni di Jones e la creatività di Michael diventarono un tutt’uno. Dentro l’apparente involucro Disco di Off The Wall, si incrociano Jazz, R&B e Funk, sorrette da riff scoppiettanti, orchestrazioni e sezioni ritmiche incalzanti. Il mix tra elementi acustici e i primi elementi elettronici crea un sound riconoscibile alla prima nota e incredibilmente fresco, almeno per l’epoca. Ricordiamoci sempre che siamo nel 1978. 

Il disco si apre con i sussurri di Jackson che si trasformano in falsetti, in Don’t Stop ‘Til You Get Enough. Il groove irresistibile e i suoni scintillanti delle sezioni di ottoni hanno catapultato il brano ai vertici delle classifiche. Rock With You è un’altra punta di diamante. La traccia simbolo della Disco Music, che ancora oggi è una lezione di come si scrive musica per il dancefloor. Scritta da Rod Temperton, è uno dei brani più iconici della discografia di Michael Jackson. I morbidi tocchi di piano avvolgono perfettamente le voci in una produzione in cui il muro portante è affidato ad una sezione ritmica magistrale. Con Working Day and Night si creano alcune delle strutture vocali che faranno da cifra stilistica per il Michael degli anni ’80. Versetti, armonie e linee melodiche incredibilmente dinamiche si fondono ai riff funky, in una delle tracce più movimentate del disco. 

Co-scritta con Louis Johnson, Get on the Floor è un inno alla danza. Jackson mette da parte le sperimentazioni delle prime tracce dell’album e si concentra sull’obbiettivo iniziale: La Disco. La title-track è qualcosa di magico. Scritta ancora una volta da Rod Temperton, celebra la libertà e la voglia di divertirsi, di cui l’artista si era innamorato durante la sua permanenza tra i club di New York City. La produzione raffinata fa da trampolino di lancio per un performance vocale di Michael Jackson che va oltre tutto ciò a cui eravamo stati abituati fino a quel momento.

Paul McCartney firma Girlfriend. Il pop di ieri e il pop di oggi (ovviamente si parla sempre del 1978) inchiodano la spensieratezza in una traccia allegra e giocosa, prima di entrare in contatto con un’altra punta di diamante di questo disco. She’s Out Of My Life è una bomba emotiva a cui non eri abituato. Vista l’euforia delle tracce precedenti, arrivato a questo punto resti come spiazzato, e forse è per questo che l’impatto è così forte. La straziante fine di una relazione in un’interpretazione impeccabile di Jackson, che trasuda vulnerabilità e malinconia come mai fino a quel momento. Il Brano si trasforma in un secondo l’apice più toccante di Off The Wall.

Stivie Wonder e Susaye Green lasciano il loro nome sul mix perfetto fra Jazz e Pop. Il modo in cui gli strati di sintetizzatore si incrociano alle ritmiche e ai soffici glissando di Rhodes in I Can’t Help It, mostrano la grande versatilità di Jackson, mentre gli archi ci portano verso la fine del disco. It’s the Falling in Love, vede il ragazzo di Gary intento a duettare con Patti Austin, in una traccia rilassata, dagli spunti funky delle chitarre effettate alle armonie vocali. La chiusura del disco è una sentenza. Con Burn This Disco Out Jackson invita il mondo a ballare finché non esaurisce le forze e, su un groove irresistibile, decreta la fine dell’era Disco. 

Se c’è stato un momento in cui Michael Jackson, Mj, o qualunque sia il modo in cui vogliate chiamarlo è stato semplicemente Michael è questo. Per questi 42 minuti tutto quello che è stato prima: i Jackson 5, un padre che l’ha cresciuto come un prodotto da vendere; Tutto quello che è stato dopo: Thriller, Il Re Del Pop, le controversie e le battaglie legali, sono nulla. Questo è il momento in cui, più di tutti, Michael Jackson è stato semplicemente Michael.

/ 5
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Taylor Swift: La recensione di “Folklore”

  • Taylor Swift – Folklore
  • 24 Luglio 2020
  • ℗ Taylor Swift / Republic

Un sodalizio in parte inaspettato, quello con Aaron Dessner, principalmente tenuto in piedi tramite video call, ma nonostante tutto incredibile. Per quanto possa sembrare strano, in realtà, il chitarrista dei National, non è poi così lontano dalla linea di pensiero di gran parte dei dischi di Taylor Swift. Lo abbiamo visto l’anno scorso, quando abbiamo recensito Good Riddance di Gracie Abrams. 

Amore, perdita e il passare del tempo. Una ricetta immortale che funziona sempre e in tutte le salse. Anche (e soprattutto) nel periodo indie-folk dell’artista della Pennsylvania. Non si può mai sapere cosa succederà poi, ma ad oggi, il momento che intercorre tra Folklore e Evermore, è il punto più alto che la carriera di Taylor potesse toccare. 

Uscito a sorpresa il 24 luglio del 2020, a poco meno di un giorno dall’annuncio sui social, Folklore ha segnato, seppur in maniera poco duratura una svolta epocale nella carriera dell’artista. L’allora trentunenne poteva evitarlo, e mantenere il primato di popstar, eppure ha scelto di esplorare. Certo, non si apre a particolari sperimentazioni, e gran parte delle sonorità cercate, erano viste e riviste, eppure, l’aura che si è creata dietro il suo ottavo disco, è riuscita ad essere qualcosa di diverso. Swift ha deciso di abbandonare i suoni di Lover e, quello che probabilmente è il suo peggior disco, Reputation, per abbracciare un suono più intimo e acustico.

Questa presa di posizione ha creato una palette di tematiche completamente diverse. Folklore sembra quasi un libro di fiabe. Attraverso storie e personaggi immaginari vediamo un lato di Taylor più “maturo” (completamente disintegrato in The Tortured Poets Department, ma questo è un altro discorso).

Complice la pandemia, molti artisti hanno dovuto interrompere le loro “routine creative”, molti altri invece, hanno utilizzato quel momento di isolamento per espandere i loro orizzonti. Swift è una di loro. Con la collaborazione non solo di Dessner, ma anche di Bon Iver e Jack Antonoff, con cui aveva collaborato anche per il disco precedente, ha iniziato la lavorazione del disco in pieno Lockdown. Dessner ha fatto forse il lavoro più pesante, co-scrivendo e producendo undici delle sedici tracce del disco. Quello che è veramente importante nel lavoro del chitarrista dei National è però ben altro. È riuscito ad arricchire il suono di Taylor con la sua influenza indie-folk, a metà fra malinconia e momenti di riflessione. 

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L’intero disco è in bilico fra realtà e finzione, con un mosaico di esperienze umane, non più solo personali e autobiografiche, come era stato nel caso di Lover. La scelta stessa del titolo è il riflesso di questa nuova direzione: miti e racconti popolari reinterpretati dagli occhi della Swift.  

Il disco si apre con The 1, brano dai tratti nostalgici. È costruito sulle macerie di un amore finito e una melodia orecchiabile, tra le riflessioni di Taylor su ciò che sarebbe potuto essere. Cardigan è la traccia di punta del disco, una ballata emotiva segnata dal destino. Vulnerabilità e forza di volontà si intrecciano ad uno storytelling perfetto che racconta di amori perduti e poi ritrovati.

In The Last Great American Dynasty i ritmi iniziano a velocizzarsi. L’arrangiamento è minimale, regola che come tutti i dischi folk, bisogna imparare ad accettare. Tutto ciò che non è essenziale non ti serve. Quella raccontata qui dentro è una storia vera. È la storia di Rebekah Harkness, la precedente proprietaria della casa di Taylor a Rhode Island. Con Exile, arricchita dai corposi toni vocali di Justin Vernon tocchiamo uno degli apici di questo disco. Un duetto struggente a piedi nudi sui cocci di una relazione finita. Il contrasto tra la profondità della voce di Vernon e la dolcezza della voce di Swift è qualcosa di incredibile. 

In My Tears Ricochet la cantante torna a parlare dei momenti difficili della rottura con la sua ex etichetta discografica, mentre su Mirrorball la vediamo intenta ad esplorare fragilità e resilienza, nella metafora di una sfera stroboscopica che cerca di riflettere la luce, nonostante le sue crepe interiori. Le atmosfere eteree si polverizzano sui suoni ovattati di piano in Seven. L’innocenza dell’infanzia incastonata in ricordi sbiaditi, è perfetta sul semplice e delicato arrangiamento, alla ricerca di un legame emotivo. Le strumentali tornano a caricarsi in August fra triangoli amorosi inventati e cottarelle estive non corrisposte. L’organo di This Is Me Trying crea un ambiente perfetto per una Taylor annegata nei riverberi che cerca di migliorare sé stessa. Il brano altro non è che uno sguardo onesto sulle sfide e sul desiderio di crescere, nonostante le difficoltà. 

Con Illicit Affair si torna su ballate leggere, guidate da arpeggi di chitarra e accordi di piano. È una storia alla Romeo e Giulietta, sulla complessità e il dolore di una relazione clandestina. In Invisible Strings vediamo una Taylor per la prima volta veramente ottimista, prima di cadere in un vortice di rabbia e frustrazione su Mad Woman. Le esperienze del nonno dell’artista durante la Seconda Guerra Mondiale si incontrano con il lavoro degli operatori sanitari durante la pandemia, in uno degli arrangiamenti più belli del disco in Epiphany, mentre su Betty si ritorna al triangolo amoroso introdotto in August

Peace potrebbe essere una traccia che interessa molto la Swift, costantemente sotto la luce dei riflettori. La traccia analizza le difficolta delle storie d’amore quando la vita pubblica minaccia di invadere la sfera privata. Anche qui ci troviamo difronte a una Taylor profondamente ottimista, che promette amore e fedeltà, pur riconoscendo le difficoltà che il suo stile di vita comporta. Questo cammino nei sentieri oscuri di Folklore si conclude con Hoax. Malinconica, disillusa e allo stesso tempo speranzosa, l’ultima traccia del disco ci lascia con una nota di riflessione: “come fai ad andare avanti se il dolore della distanza supera quello della relazione stessa?”. 

/ 5
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How To Disappear Completely: Storia di una canzone perfetta

  • Radiohead – How To Disappear Completely 
  • 2 Ottobre 2000
  • ℗ XL Recordings Ltd.

Se tu scomparissi domani, c’è una canzone con cui vorresti essere ricordato? È forse l’eterno dilemma di ogni musicista, ma forse più che di ogni musicista è l’eterno dilemma di ogni essere umano. Forse non per una canzone, ma ognuno di noi, in piccolo o in grande, vive per restare inciso nei ricordi di qualcuno. Tom Yorke non era (e non è) poi così diverso da tutti noi. 

A quella domanda, il frontman dei Radiohead, ha risposto in un’intervista per la BBC nel 2000. E ha dato una risposta estremamente chiara, una cosa non da poco quando tu e il tuo gruppo siete all’ennesimo gran disco della vostra carriera.  Ciò che rende così importante questa traccia è proprio quell’intervista, che riesce a fartela “guardare” sotto un’altra prospettiva. 

Prima di andare avanti occorre però fare un piccolo passo indietro. È il 1997 e il gruppo si sta preparando a sconvolgere il rock alternativo in maniera massiccia, non come ai tempi di “The Bends” e “Pablo Honey”, no. Questa è una vera e propria rivoluzione. “Ok Computer” è completamente diverso da tutto ciò a cui erano ed eravamo (anche se io ancora non c’ero) abituati. Quando il disco uscì, i Radiohead furono catapultati sul tetto del mondo. Erano delle superstar. E tutto era successo da un momento all’altro. Un giorno vendi a malapena 400 biglietti per una data del tuo tour europeo e quello dopo sei davanti a 40.000 persone. Sei headliner al Glastonbury. Tutti vogliono il tuo autografo, la foto, sapere cosa ne pensi di quel film o libro, o che marca di birra bevi. Tu vorresti solo scomparire. 

How to disappear completely

Il primo punto di rottura per Yorke era arrivato durante le registrazioni di “Ok Computer”, ma dopo Glastonbury, il malessere del cantante riesce a crescere solamente. Il concerto fu un disastro sotto tutti i punti di vista. La band non riuscì a creare contatto col pubblico e i problemi di natura tecnica furono solo la ciliegina sulla torta. Terminò lo spettacolo, dopo essere stato convinto a restare sul palco da O’Brian. Alla fine del set per Tom Yorke arriva il punto di svolta. 

Forse le luci della ribalta non fanno per lui, i concerti, i tour, la musica, non fanno per lui. È una cosa difficile da mandare giù se sei un’artista, ma lo è ancor di più se sai che stai per iniziare un tour di un anno. Yorke si spense. Fu come uscire dal proprio corpo. Passo tutto il Tour di OK Computer come se non esistesse e alla fine, nel 1998, né usci in uno stato mentale pessimo. Quando la fama arriva così però, spesso c’è un prezzo da pagare. Fai un disco per andare in tour, dopo il tour scrivi un altro disco e poi vai di nuovo in tour. E così via finché non sei più in grado di poterlo fare. Per Yorke questo era troppo. 

La spirale depressiva in cui si era ritrovato nel ’98 e il blocco dello scrittore misero a dura prova la stabilità del gruppo. Le sessioni di scrittura non portavano a nulla. Ogni idea veniva scandagliata allo sfinimento, fino a quando non si arrivava al punto di renderla inutilizzabile. I Radiohead arrivano al punto in cui l’unica soluzione sembra quella di sciogliersi. Poi qualcosa cambiò. Un’idea si insinuò lentamente all’interno della band, si fece sempre più grande fino al punto in cui plasmò un nuovo modo di vedere la musica. “La melodia è morta, il ritmo è il re”. Nasce KID A. 

Uscito all’inizio del secolo, il disco portò i Radiohead verso una direzione che nessuno si aspettava. Gli Anthem che potevano aver caratterizzato “OK Computer” e “The Bends”, ma anche “Pablo Honey”, basti pensare semplicemente a “Creep” erano completamente spariti. Con loro avevano portato via le chitarre e anche gran parte degli strumenti tradizionali. Al loro posto, sintetizzatori, drum machine e, per Johnny Greenwood, un Ondes Martenot (quello che possiamo classificare come il primo sintetizzatore della storia). Era sicuramente una scelta insolita, visto che fino a quel momento Greenwood era il Lead Guitarist della band. Il fatto è che non avendo più bisogno di tracce di chitarra, il suo ruolo nella band doveva spostarsi altrove. 

Ci furono più fattori positivi che negativi, in questo cambio di rotta, per lui. Greenwood era l’unico del gruppo ad avere una vera e propria formazione musicale. Questo gli permise di prendere solo il meglio dal suo nuovo ruolo nei Radiohead. Si cimentò nella scrittura delle linee orchestrali e nella composizione, sia di strumenti analogici che digitali e, insieme a Godrich iniziò alla prima stesura degli arrangiamenti. Il risultato? Erano troppo complessi per il resto dei componenti. Nel disco viene ridotto tutto all’essenziale. Qualsiasi cosa non sia indispensabile va eliminata. In effetti “Kid A”, non ha particolari sezioni orchestrali, o espressioni strumentali barocche, salvo per una traccia. La quarta. 

How to Disappear Completely è la prima è unica traccia di Kid A a contenere una chitarra acustica. Ed è l’unica canzone del disco ad essere in qualche modo più vicina alla classica forma-canzone. Sin dalle prime note ti rendi conto di quanto tutto suoni fuori posto. E no, non è un caso. Tutto suona fuori posto perché deve suonare così. E più la canzone cresce più questa peculiarità assume un ruolo di importanza. Passi i quasi sei minuti di durata, senza capire minimamente che cosa la band stia suonando e dove stia portando la canzone. Le melodie di Greenwood sono incredibilmente dettagliate, non stanno mai ferme, si spostano fra le tonalità e si ingrandiscono a proprio piacimento. Le strutture di “Archi” sono forse quello che rende questa traccia così incredibile. 

A ribilanciare le pesanti strutture dell’arrangiamento, un Tom Yorke più morbido e mai visto fino a quel momento. How to Disappear Completely è il tentativo di Tom di esorcizzare quei demoni che si erano impossessati di lui durante il tour di Ok Computer. Ci sono riferimenti al Glastonbury. Il ritornello stesso è l’esatta frase che il suo amico Michael Stipe gli aveva detto prima di partire per il tour: “Non sono qui” / “Questo non sta succedendo”. 

Il disastro tecnico di Dublino rimane al centro della traccia e sembra incastrarsi perfettamente nei testi di Yorke. Quello che rende davvero incredibile ogni verso è proprio la sensazione che la traccia riesca a riflettere esattamente i sentimenti che il frontman aveva provato in quei giorni del ’97. L’evoluzione continua delle strutture orchestrali in continuo sviluppo e in continuo mutamento, trascinano le liriche sempre di più, fino a che, all’apice della tensione, tutto scompare. Come un uragano che si porta via qualsiasi cosa trovi sul suo cammino. 

La cosa peggiore è che lui sa di non poter fare nulla. Si, può lamentarsi, può piangere, ma non può fare nulla di concreto per cambiare la situazione in cui si trova. Almeno finche tutto non finisce. Ad un certo punto eccolo lì. Emergere da chissà dove un piccolo puntino luminoso, che si ingrandisce sempre di più. È la luce infondo al tunnel. All’improvviso tutto è tornato al suo posto, mentre gli archi arrivano ad uno stato di tensione straziante, prima della fine del brano. 

How to Disappear Completely, non è una traccia leggera. È scritta e arrangiata in maniera tale che ogni suo componente sia estremamente pesante. È un brano che mette in guardia dai pericoli che nuotano sotto la superficie della fama. Quelli che tutte le superstar dovrebbero conoscere. Purtroppo non c’è però una scuola che ti insegna ad essere una super star. Ti ritrovi in balia degli eventi e l’unica cosa che puoi fare, è mantenere la calma. È un avvertimento su cosa può accadere quando spingi un artista fino, e oltre, al punto di rottura. È l’altra faccia della medaglia, quella che ti spiega perché anche la cosa più ambiziosa, il grande sogno di ogni musicista, può diventare un incubo in pochi minuti. 

Finalmente i Radiohead sono di nuovo 5 musicisti che vogliono solo fare musica. Una storia di ossessioni, una storia di “non scendere a compromessi”, ma dopo tutto, una storia con un lieto fine. 

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Lauryn Hill: La recensione di “The Miseducation of Lauryn Hill”

  • Lauryn Hill – The Miseducation of Lauryn Hill
  • 25 Agosto 1998
  • ℗ Ruffhouse Records LP

Il primo (e unico) disco dell’ex Fugees, pubblicato il 25 agosto del 1998, è forse uno dei punti di svolta più importanti nella storia della musica. Con le sue influenze, che spaziano dal reggae al soul, The Miseducation of Lauryn Hill si è trasformato nel giro di poco tempo in un classico istantaneo, rappresentando una pietra miliare non solo nell’Hip-Hop, ma nell’R&B, e in svariati sottogeneri. 

Dopo l’uscita di The Score, i Fugees si erano ritrovati immersi in un enorme successo. Avevano consolidato il loro status nella scena musicale internazionale, ed è proprio quando il sogno sembra non poter essere intaccato, che si frantuma in mille pezzi. Nonostante il grande successo, il percorso della band di Wyclef Jean, Pras Michel e della Hill, non è stato privo di difficoltà. La storia insegna che più la tensione è alta, più è facile che la corda si spezzi. Queste tensioni interne e una visione artistica incapace di scendere a compromessi, portarono la Hill ad intraprendere la sua carriera da solista. E per fortuna. 

Come molto spesso accade con questo tipo di progetti (vedi Mr. Morale & The Big Steppers), il disco è nato da un intenso periodo di isolamento. Dopo la “caduta” dei Fugees, l’artista di East Orange, è sparita per un po’ dalla scena musicale, per concentrarsi su sé stessa e sulla sua famiglia. Fu proprio questo periodo, a dare a Hill l’ispirazione per i temi che sarebbero poi confluiti in The Miseducation of Lauryn Hill. Una dichiarazione d’indipendenza, sull’essere genitore, sul trovarsi da sola a crescere un figlio, in balia di un mondo non esattamente buono. Il risultato finale del disco è una lettera d’amore a sé stessa e a chi riesce a non darsi per vinto.

Ciò che è veramente perfetto è pero, l’incredibile capacità della stessa Hill (e in questo la sua militanza nei Fugees ha aiutato non poco) di unire la profondità e la spiritualità dei testi con delle melodie accattivanti e arrangiamenti complessi.

foto the miseducation of lauryn hill

L’intro del disco introduce il concetto di “maleducazione”, nell’ambiente in cui l’educazione è più importante, quello di un’aula scolastica. Con Last Ones, una delle tracce più aggressive del disco, ci troviamo difronte una Hill che si scaglia contro chi ha tradito la sua fiducia, a colpi di strumentali a metà fra reggae e Hip-Hop. Le atmosfere si ammorbidiscono nel soul strappa cuore di Ex-Factor, tra dolore, confusione e una relazione travagliata. L’amore prende un’altra sembianza in To Zion. La traccia, dedicata a suo figlio Zion, è un concentrato di gioia e vitalità, sostenuto dalle chitarre di Carlos Santana.

Doo Wop (That Thing) è un inno all’essere donna, al rispettare sé stesse e a non cadere vittime della superficialità. In Superstar torniamo a vedere una Lauryn trasportata dalla rabbia, mentre si scaglia contro l’industria musicale e contro il concetto di celebrità. [“La musica dovrebbe ispirare”]. La vediamo alle prese con spiritualità e giustizia sopra un capolavoro di Boom Bap su Final Hour, prima che si confonda fra i glissando di arpa e le percussioni reggae di When It Hurts So Bad, ancora una volta intrappolata dentro storie d’amore. È bene o male la stessa storia di sempre. Usare l’amore per incanalare la forza di volontà. I Used to Love Him rimane su questo concetto, e la collaborazione con Mary J. Blige non può fare altro che rendere questa traccia ancora più incredibile. 

Su Forgive Them Father il reggae si sposta dalla produzione alle linee vocali, mescolandosi perfettamente fra soul e desiderio di perdono, prima di virare sui ritmi Funky di Every Ghetto, Every City, un’istantanea dell’infanzia di Lauryn a East Orange, il luogo in cui è nata e cresciuta, e che in qualche modo ha contribuito a plasmarla. D’angelo spinge Nothing Even Matters in caldi e romantici ambienti R&B, mentre con Everything Is Everything torna l’anima pura dell’Hip-Hop, tra campioni di soul e jazz e un inno alla speranza e resilienza. La title-track arriva a chiudere il disco. The Miseducation of Lauryn Hill riassume tutto il disco in quasi quattro minuti di puro calore. È tutto ciò che il mondo avrebbe voluto da Hill, ed è tutto ciò che lei non gli darà mai. È uno specchio della sua crescita personale e del viaggio che l’ha portata fin lì. 

Il disco, in realtà si conclude con due hidden track, Can’t Take My Eyes Off of You (I Love You Baby) e Tell Him viaggiano nei profondi dell’R&B, con linee melodiche che ricordano vagamente Sinatra e vocalizzi incredibili, rivelandosi due delle tracce migliori di questo capolavoro mastodontico. 

The Miseducation of Lauryn Hill è un’opera fuori da ogni barriera culturale e genere musicale. Una discografia intera in un unico album a dimostrazione che a volte non servono quarant’anni di carriera per cambiare il mondo. 

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