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AcomeandromedA: La recensione di Omissis

A distanza di dodici anni da Occhio Comanda Clori, disco di debutto non che unico progetto, gli AcomeandromedA ritornano con “Omissis”. Questo contenitore di nove nuovi brani, pubblicati per Dischi Uappissimi (Buckwise, Bouvier, Lazzaretto), è una lente di ingrandimento sulla società moderna e sulla qualità della vita. 

La band, composta da Vito Indolfo (voce, flauto traverso), Willy Elefante (tastiere), Andrea Manghisi (chitarra), Matteo Simone (basso, synth) e Michele Manghisi (batteria), ha visto la luce per la prima volta all’inizio del 2008. Occhio Comanda Colori era si un progetto profondamente radicato nel rock, ma con decine di sfaccettature diverse. Il progressive si perde in una terra di confine a metà fra tempeste strumentali e strizzate d’occhio al pop. Da lì iniziano una serie di spettacoli live, non solo sul territorio italiano, intavolano collaborazioni con artisti internazionali e ampliano la loro visione di musica. Purtroppo tutto ciò non basta, perché gli AcomeandromedA si prederanno successivamente una lunga pausa, almeno fino a oggi (in realtà al 2022).

Messo in cabina di regia Giulio Ragno Favero, bassista del Teatro Degli Orrori, il gruppo ricomincia da dove si era fermato circa dieci anni fa. Con Omissis il quintetto pugliese, trova finalmente il modo di approcciarsi alla musica elettronica, tanto cercato prima del periodo di pausa, costruendo una palette sonora a metà fra Afterhours e Bluvertigo. 

omissis

L’album si apre subito con una delle tracce più interessanti. Le voci di Indolfo, immerse in ampi riverberi, galleggiano su stratificazioni di suoni sintetizzati e beat sincopati in Cosmiconica. La morbidezza dei primi minuti si schianta su assoli squillanti fill di batteria e suoni Industrial. Con Il racconto del passero, l’elettronica viene sovrastata da ritmi cadenzati e enormi distorsioni di chitarra prima che, su Tina, si torni alla leggerezza. Alla terza traccia capiamo quanto, ogni volta che droni, melodie sintetizzate o batterie elettroniche entrano a contatto con questo progetto, la band trovi uno spazio infinito per sperimentare, trovando in questo caso spazio per sax e archi.

Inizialmente pensato nel 2013, dopo un incontro con Max Casacci dei SubsonicaSalveremo il Mondo ha visto la luce oggi, dopo più di dieci anni, come singolo di punta di Omissis. Tornano graffianti stratificazioni di chitarra, che fanno da vere protagoniste del brano. Con La perfezione di una lacrima, la band si concede atmosfere acustiche, anche se per solo una manciata di secondi. La Title-track strizza l’occhio al pop e all’indie italiano. Omissis è un brano caldo, dove questa sono gli arpeggi di chitarra acustica ad uscirne protagonisti, prima di tornare alle sonorità che rendono questo album davvero interessante. Sto parlando Andrearitmia, dove noise e shoegaze danzano sotto le rauche voci di Indolfo.

Flauti e corde di nylon portano il disco alla chiusura, in una traccia messa insolitamente alla fine del disco. Intro viene sporcata da sonorità folk, a tratti quasi orientali, insinuandosi direttamente sull’outro di Omissis. Mello Mello è un’altra delle canzoni più longeve di questo progetto. Rilasciata inizialmente nel 2014, con il nome di Sleeping Lotus, dall’artista taiwanese Waa Wei Ruxuan, il brano trova una nuova energia sul finale dell’album.

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Ramco: La recensione di Pròto

  • Ramco – Pròto
  • 20 luglio 2024
  • ℗eRRe 

Ramco è il titolo del progetto “solista” di Marco Franceschelli. Inizialmente partito come chitarrista dei Fronte della Spirale (2016), con cui ha pubblicato un disco nel 2019, e come membro di punta dei Blind Ride, progetto a cui ha dato anche la voce, il musicista di Campobasso ha virato verso sonorità completamente diverse, quando nel corso del 2023 ha dato vita al suo progetto da solista. 

L’idea dietro Ramco è sempre stata quella di sviluppare un’entità, più che un artista, che potesse abbracciare non solo l’espressione musicale di Franceschelli, ma anche quella di tutte le personalità artistiche che hanno orbitato attorno al progetto (e ce ne sono diverse) durante la sua stesura. Registrato inizialmente con un’ottica DIY, il progetto, che più avanti diventerà Pròto, inizia a svilupparsi maggiormente con la partecipazione di Domenico Simonelli, che contribuirà a creare un connubio perfetto tra acustica ed elettronica con l’aggiunta delle sezioni di Drum Machines. I brani subiscono mutazioni per svariato tempo, fino a quando, nel dicembre dello scorso anno, con l’ingresso di Fulvio Gramegna (basso), inizia il processo di produzione vero e proprio. Le registrazioni vere e proprie di Pròto cominciano in realtà durante febbraio 2024 a Bologna, presso “Lo studio Spaziale”, sotto la supervisione di Roberto Rettura. 

Pròto

Il disco si apre con Right the Other Side. La prima cosa che emerge durante l’apertura è che ogni ritmica repentina, ogni distorsione massiccia e in generale i più canonici tratti punk dei precedenti progetti di Franceschelli qui vengono ridotti all’osso, per far spazio a riverberi, sintetizzatori e suoni ambientali. My Names is Nothing è la prima traccia di Pròto ad aver visto la luce del sole lo scorso aprile. È un brano più dolce rispetto al suo precedente in cui le strutture di chitarra, profondamente ispirate ad un indie-rock di matrice britannica di primi anni ’90, fanno da protagoniste.

Il pesante pattern ritmico di Your Life apre ad un arrangiamento cupo e minimale, che avvolge le traballanti linee vocali di Marco. Ego’s Lie è caotica. Le voci si consumano lungo gli strumming squillanti di chitarra, per poi perdersi negli ampi riverberi del brano. L’EP si chiude con The Last Hope, brano che in qualche modo torna al punk del primo periodo, pur con una connotazione sonora completamente diversa. 


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Fu il Periodo Blu: La recensione del debutto di River X

  • Fu il Periodo Blu – River X
  • 12 Luglio 2024
  • River X

In “Fu il Periodo Blu”, EP di debutto di River X, al secolo Luca Carnevale, l’elettronica avvolge una ovattata e cupa visione di angoscia e precarietà. Mai nome fu più azzeccato di questo. Chi ascolta musica in inglese, sa quanto il colore Blu rappresenti una chiave di lettura molto importante per i testi. Esprime la tristezza come nessun’altra parola riesce a fare, crea atmosfera e, in qualche modo, contribuisce a renderci parte di ciò che stiamo ascoltando. 

In “Fu il Periodo Blu”, in realtà, la chiave di lettura principale non è proprio questa, o meglio è più articolata di così. L’EP prende il nome dal Periodo Blu di Picasso. Durante i primi anni del 900, l’artista utilizzò proprio il colore blu, come parte preponderante dei sui lavori, per raccontare una Spagna cupa, dolorosa e precaria. In questo progetto non ci sono prostitute, mendicanti, e ubriachi, ma nonostante ciò è ricco di similitudini con quella fase artistica del pittore spagnolo. 

Fu Il Periodo Blu

“Fu il Periodo Blu” è un diario di bordo – uno scatolone dove intrappolare i brutti ricordi. Un attimo di lucidità per fare un’autoanalisi sul proprio passato. L’unico modo possibile di spogliarsi di un po’ di quel blu che avvolge, chi più, chi meno, ognuno di noi. 

Ad aprire l’EP è “Presa di coscienza”. Lungo poco meno di due minuti ci ritroviamo immersi in un ambiente sfocato, quasi onirico. Persino le tracce vocali appaiono sbiadite, avvolte da una strumentale che fa della melodia la protagonista, intenta a cullarci con note dolci prima di catapultarci in balia della tempesta. E la tempesta arriva nell’autoanalisi di “Vernissage”. Tra sovrapposizioni di percussioni africane e stratificazioni di samples e sintetizzatori, la voce di Carnevale appare ancora avvolta dalla melodia, le linee vocali si trasformano quasi in sussurri, mentre il cantautore si guarda dentro. 

I vocal chops di “Le api ci diranno” aprono la porta a un brano più canonico, in cui l’artista si concede un rap fuori dagli schemi. Con “Manifesto”, traccia di chiusura di Fu il Periodo Blu, ci spostiamo in ambienti sonori ancora diversi. Elettronica e breakbeat si fondono in una traccia dal ritmo rallentato, che strizza dolcemente l’occhio al trip-hop.


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Paix & Funk: Recensione dell’EP di debutto di Braoboy

Al secolo Emanuele Tosoni, l’autore/produttore si approccia alla musica per la prima volta a undici anni, da li in poi la musica diventa una costante nella sua crescita. Liceo musicale e poi conservatorio, viaggiano in parallelo con una grande passione per gli anni 70/80 e 90, che sono i veri protagonisti di Paix & Funk. A dirla tutta, questo non è realmente il primo progetto di Braoboy, almeno non in termini assoluti. Il musicista si butta nel settore musicale per la prima volta nel 2019, quando inizia a suonare come turnista in tutta Europa con diversi artisti e gruppi (Chiamamifaro, Elasi, Darn…). Nel 2020 inizia a esplorare l’attivtià da producer. Nel 2021 pubblica, sotto il nome di “Furamingo” il suo primo vero EP, un progetto lo-fi, e diversi remix Disco-Funk. Nello stesso anno inizia a pensare a quello che diventerà Paix & Funk.

Sotto l’ala dell’etichetta indipendente Nufabric Records (Anna Carol, Stramare, Vergine…), Braoboy ha potuto sperimentare e lavorare quanto più possibile il suono distintivo di questo EP, nonostante complicazioni iniziali date da un modo diverso della concezione del fare musica. Se pur le influenze sonore ricordino situazioni felici e giocose (non è forse questo il cuore del Funky?), Paix & Funk esplora, in realta, dinamiche molto più complesse. Lungo poco più di un quarto d’ora, Braoboy si avventura in tematiche sociali, incomunicabilità e rapporti di dipendenza affettiva, trovando spazio anche per viaggi introspettivi.

Paix & Funk

Il disco si apre con massicci pattern percussivi e sintetizzatori stratificati in Villapizzone. La traccia trasuda atmosfere vintage. Non solo dal punto di vista dei suoni, ma anche dal paesaggio descritto nel testo, che pur facendo solo da sfondo, aiuta a comprendere meglio da cosa l’artista è stato influenzato durante la stesura di questo progetto. Masaniello crea un contrasto netto fra sonorità futuristiche, electro pop e solitudine, mentre su Mayday la sezione ritmica rallenta, la voce si perde nel riverbero e quello che si crea è un tappeto perfetto per un testo che analizza le dipendenze affettive. I deboli arpeggi di Rhodes guidano una delle tracce costruite meglio in questo EP. 

Mi prendo in giro usa calde linee melodiche di Synth mentre strizza l’occhio alla scena indie italiana attuale. Sulla traccia di chiusura Cosa Cerco da Te, il cantautore si sposta verso ambienti sonori sporchi e sintetizzatori acidi, alle prese con quella che sembra essere una relazione travagliata. 


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A MARE: La recensione del disco di debutto di Cristiana

Quello che stiamo ascoltando non è un disco di canzoni. A MARE è il titolo del primo progetto discografico di Cristiana. È l’ennesima prova del turbine creativo che si cela nel sottosuolo musicale italiano. È importante soffermarsi sulla frase di apertura di questo articolo. L’album non è un disco di canzoni, perché ogni brano non nasce come tale. Prima di essere canzoni, le tracce sono poesie. È bene tenerlo a mente durante l’ascolto di questo progetto, poiché si potrebbe rimanere inizialmente disorientati, se non si è abituati agli storytelling musicali. La classica forma-canzone, non ha spazio in questo progetto e i testi difficilmente si legano a metriche standard.

A MARE è un fiume in piena, dove le parole escono così come sono, senza dar troppo peso a dove metterle o come incastrarle. L’altro filo conduttore del disco, che si lega perfettamente alla poesia è l’amore, non quel tipo di amore che ci viene in mente appena sentiamo questa parola. È descritto quasi astrattamente. 

Nelle sonorità, ci troviamo invece su ambientazioni più canoniche. A MARE gioca molto su un mix di suoni a metà fra cantautorato italiano e un indie di respiro internazionale. Ogni strumento rimane libero nelle stesse ambientazioni delle poesie che compongono il disco. Spesso appaiono fuori fuoco, lasciando spazio solo alla voce di Cristiana, in alcuni casi anche troppo. È un suono ancora grezzo, ma non per questo meno interessante. Nella produzione e negli arrangiamenti (sviluppati incredibilmente bene), l’artista si è affidata ad Alex Ferro (i Santini).

A MARE

Ad aprire l’album è intro. Gli arpeggi di chitarra si intrecciano con un’ampia struttura di sintetizzatori. I droni creano un’atmosfera perfetta, dove veniamo introdotti a tutto ciò che ascolteremo per il resto di A MARE. Su Verde ci scontriamo con un’ottima produzione, la chitarra, pur sempre presente si defila, per lasciare spazio a piani elettrici e synth. Tutto è attentamente dosato, non c’è alcun tipo di sfarzosità ad appesantire la traccia. Poesia è forse la traccia che più si avvicina ad una forma canzone più classica. Il brano, dedicato alla nonna, cresce emotivamente ogni secondo di più, liberandosi in un outro strumentale che sembra perdersi nell’aria.

Un po’ De André, un po’ Calcutta, Finestra altro non è che un ricordo. Di giornate passate a leggere, pensare, ascoltare musica. Ogni momento, anche il più piccolo, che possa trasmettere un barlume di emozione, si insinua in A MARE, per colorarlo, per renderlo autentico, per renderlo vivo. Fragile rimane sullo stile del brano precedente, spogliandosi di ogni strumento superfluo e lasciando il posto da protagonisti a chitarra acustica e percussioni. 

Pur mantenendo qualche punto debole, quello che troviamo su A MARE, si conferma comunque piuttosto interessante. I dischi di debutto sono un po’ questi, servono per prendere le misure, capire dove si sta andando e impostare l’asticella.


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/ 5
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Folks: La recensione del debutto degli Haara

  • Haara – Folks
  • 25 Giugno 2024
  • ℗ Delma Jag Records

La band, nata nel 2018 a Lugano, composta da Lisa Attivissimo (voce), Raffaele Ancarola (chitarra), Massimiliano Marra (Basso), e Nicolas Pontiggia (batteria), si presenta al mondo musicale con un’immagine unica che parla da se.

Gli Haara non hanno bisogno di testi costruiti alla perfezione, incastri metrici o giochi di parole – la vera protagonista di questo brano è la melodia. Folks è una danza intorno al fuoco, tra immaginari folkloristici, persone e le culture da cui i membri stessi del gruppo provengono. Tutto si amalgama in maniera squisita, in un’ambientazione sonora calda e allo stesso tempo intrigante. È un tipo di rock alternativo a cui oramai siamo ampiamente abituati: suoni ed elementi tradizionali, dalle chitarre alle ritmiche “terzinate”, dalle percussioni world alle graffianti melodie di Charango, per finire alle tastiere. Tutto crea un’amalgama sonora capace di trascendere le epoche musicali. Folks racconta di tutto e di niente, è in tutti i posti e in nessun posto, e questo è il suo pregio più grande.

folks Haara

Può sembrarti di essere in un mercato affollato, immerso nei suoi suoni e rumori, o in una qualsiasi grande stazione all’ora di punta, circondato dallo scorrere frenetico del tempo. Da immensi banchi di persone che continuano a vivere le proprie vite, saldamente ancorate al ticchettio del loro orologio, noncuranti di chi hanno intorno. Per chi riesce a vedere il bicchiere mezzo pieno, questo brano può trasmettere anche un’energia positiva, un invito allo stare insieme, all’unione. Proprio come quella danza intorno al fuoco di cui parlavamo prima.

La voce di Lisa guida ogni secondo di Folks, come un capitano al timone della sua nave, ma non lo fa con le parole. È un continuo sovrapporsi di vocalizzi, scanditi da una sola parola: “People / People / People”. È un invito a tornare alla realtà e, man mano che il brano cresce, mentre la tensione aumenta, ci troviamo fuori da questo trip psichedelico, in silenzio, forse da soli, per accorgerci che tutto ciò che è successo nei precedenti due minuti e quarantotto secondi, si è completamente dissolto nel nulla.


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/ 5
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Naturamorta: La recensione di Luna

  • Naturamorta – Luna
  • 26 Giugno 2024
  • ℗ Naturamorta

Naturamorta è il nome di un progetto freschissimo, nato al tramonto dello scorso anno, ma non per questo meno interessante, da Manuel Di Pierro, musicista torinese già attivo da qualche anno nella scena alternative italiana. Prima di arrivare a questa forma, Di Pierro, aveva messo la sua voce nel gruppo torinese, da lui stesso fondato, insieme a Samuel Nobile. Le tinte indie-rock di quei primi lavori, rimangono nello scheletro di questo nuovo progetto e uno dei motivi è probabilmente attribuibile alla formazione di Naturamorta. Per questo nuovo progetto, Di Pierro si è portato dietro dai Millais Flower Honey, Samuel Nobile, chitarrista, e Manuel Crova al basso, appoggiati poi da Emanuele Campiglia come chitarrista secondario e Davide Soranzio alla batteria. 

Naturamorta

Se è vero che da una parte Naturamorta mantiene una punta dell’indie-rock del progetto precedente, dall’altra riesce a evolversi in maniera piuttosto interessante. “Luna”, terzo singolo, uscito a cinque mesi di distanza dal doppio “Fiori Morti/Nero”, ne è un ottimo esempio. Nei quasi cinque minuti di traccia, la formazione si avventura verso strade insolite, mescolando allo shoegaze, soluzione sonora preponderante del brano, a batterie elettroniche che strizzano l’occhio ai pattern ritmici complessi della Drum N’ Bass. Nonostante questo tipo di scelte siano qui a ricordarci che le contaminazioni sonore sono la salvezza della musica, la band tira fuori il meglio quando si trova nella sua zona di comfort. Quando sulle sonorità elettroniche e a tratti darkwave, si schiantano muri di distorsioni e chitarre graffianti, a sostegno delle sottili linee vocali di Manuel. 

A conti fatti, Luna prosegue su quegli oscuri sentieri calcati su, “Fiori morti” e “Nero”, introducendo il gruppo a nuove scelte sonore e preparando il trampolino di lancio per il loro primo EP, in uscita questo autunno.


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4,8 / 5
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Gazzaladra: La recensione nuovo disco dei Skelets on Me

  • Skelets on Me – Gazzaladra
  • 28 Giugno 2024
  • ℗ WWNBB

Il progetto, inizialmente ideato dall’artista di Brunico Valentina Giani, non è per niente nuovo, anzi. Il primo EP, Sometimes I Wish Your Eyes Could Speak, risale ormai a dieci anni fa, quando l’unico elemento del progetto, era proprio l’artista nata tra i monti dell’Alto Adige. Da quel momento sono cambiate un sacco di cose – Francesco Puccinelli entra in pianta stabile nel ruolo di batterista, escono nuovi EP, e gli Skelets on Me iniziano un percorso di crescita culminato lo scorso 28 Giugno, con la pubblicazione di Gazzaladra

Il nuovo EP, uscito per WWNBB è a tutti gli effetti un secondo debutto. Se il gruppo si era distinto per sonorità scuola K Records (Sleater-Kinney, Breeders, Huggy Bear), negli anni precedenti, qui la situazione è completamente diversa. Gazzaladra abbraccia sonorità del tutto nuove. La parola d’ordine in questa loro nuova era è elettronica. Con l’aiuto di Angelo “Kalpa” Mallardo, che mette la firma in tutte le sette tracce del disco, il duo mette al centro del quadro le sonorità cercate nell’EP precedente, My Heart is a Jungle, per costruirci intorno un paesaggio incredibile, tra sonorità chillwave, strizzatine d’occhio al Big Beat e, a tratti vaghi richiami al Trip Hop. 

Gazzaladra

La sezione ritmica si amalgama perfettamente ai suoni striduli e cupi nell’apertura Funny. Sono soluzioni particolari quelle cercate sulle voci di Valentina, che di solito siamo abituati a sentire nell’Hyper Pop, ma qua calzano a pennello. Su Stranger (Somehow) il microfono passa a Puccinelli, che danza su un beat gigantesco, mentre alle sue spalle glitch e chitarre esplodono in strati sonori sfocati. La metà dei questo progetto è il suo fiore all’occhiello. Try rallenta il ritmo e si sposta su altri territori. Le linee di basso sono le vere protagonista, si rifanno a spunti Jazz e costruiscono il canale perfetto per riverberi e ritmiche chillout, prima che il disco voli sulle atmosfere Dream Pop in Baby. Di gran lunga la traccia migliore del disco, ha un groove energico a sostegno di voci leggere e sintetizzatori caldi e avvolgenti. 

Con Sunday Bubu il duo torna a sonorità a cui eravamo stati abituati nei progetti precedenti. “She is so good / She is so blue” – canta Giani in un ritornello che difficilmente riuscirà ad uscirti dalla testa. Let Me Play è forse l’unico passo falso di Gazzaladra, non tanto a livello di struttura (stiamo comunque parlando di una buona traccia), quanto a livello di suono. Sembra completamente fuori dalla linea che gli Skelets on Me hanno adottato per questo progetto. Poco male comunque, perché con la title-track, nonché traccia di chiusura, aggiustano immediatamente il tiro. In Gazzaladra, con la collaborazione del duo triestino Le Isole, alla produzione ci spostiamo verso sonorità esotiche. Un corposo basso funky guida le ritmiche cadenzate e sussurri da brivido, creando un’atmosfera in netto contrasto con il testo introspettivo e malinconico. 


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1,0 / 5
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Wu-Tang Clan: La recensione di Enter The Wu-Tang (36 Chambers)

  • Wu-Tang Clan – Enter the Wu-Tang (36 Chambers)
  • 9 Novembre 1993
  • ℗ Sony Music Entertainment

Il debutto discografico del Wu-Tang Clan, Enter the Wu-Tang (36 Chambers), segna uno degli apici dell’Hip-Hop. Pubblicato nel novembre del 1993, il disco ha segnato un punto di svolta nel panorama musicale, con suoni grezzi e liriche crude, andando oltre i suoni di gran lunga più morbidi dell’epoca. Come visto su Illmatic di Nas, anche in questo caso, esiste un prima e dopo 36 Chambers. 

Il collettivo originario di Staten Island (Anche qui siamo sulla East Coast), era composto da nove membri: RZA, GZA, Raekwon, Ghostface Killa, Method Man, Masta Killa, Ol’ Dirty Bastard, Inspectah Deck e U-God. Una scelta insolita e piuttosto complicata da gestire. Spesso più un gruppo è grande, più è difficile far confluire tutte le influenze in un genere comune. Ovviamente non è il loro caso. Ogni membro del Wu-Tang è riuscito a portare elementi di valore, combinando le diverse personalità e gli stili lirici in uno dei progetti più importanti di sempre. 

Prima della loro formazione, alcuni dei membri erano già figure di spicco nella scena musicale newyorkese. Robert “RZA” Diggs e Gary “GZA” Grice avevano già portato avanti progetti da solisti, ricevendo scarso successo. Quando Diggs ebbe l’idea di fondare un collettivo che unisse i migliori rapper della zona, la musica cambiò (in tutti i sensi). Dal Wu-Tang Clan ognuno di loro sviluppò la propria carriera da solista, pur rimanendo uniti gli uni agli altri. 

L’idea del disco nacque nei primi anni ’90. RZA, che poi ricoprirà il ruolo di principale produttore di 36 Chambers, voleva un suono mai sentito. Il risultato fu un mix di campioni estrapolati da vecchi film di Kung-Fu (Da cui il disco prende il nome), beat esplosivi e testi crudi. Come già detto più su, più un gruppo e grande, più è complicato “accontentarne” tutti i membri, eppure in questo disco ognuno riesce a collaborare con l’altro in maniera incredibile. Tutto il disco è stato registrato in uno studio improvvisato nel seminterrato (complice del suono così sporco) di Diggs, che il collettivo aveva rinominato “The Wu Mansion”. 

I testi ricalcano quella vita di strada che, fino a quel momento, gli artisti evitavano di raccontare, o filtravano attraverso sonorità patinate. Loro no. Nei testi del Wu-Tang c’è sopravvivenza, violenza e lealtà, cuciti millimetricamente ai riferimenti culturali ad arti marziali e filosofia orientale. 

Enter The Wu-Tang (36 Chambers

Campionamenti e beatmaking passano dal cervello di RZA, trasformandosi in un beat aggressivo che stabilisce da subito il tono del disco. Bring Da Ruckus è scura e ripetitiva, mentre i rapper ci introducono l’ambiente dove ci siamo immersi. Su Shame on a Nigga i combattimenti di Kung-Fu si dissolvono con Ol’Dirty Bastard che entra da protagonista. Il Funky si sporca di campioni scricchiolanti facendo della traccia un mix di energia e eccentricità. La vivacità resta invariata anche su Clan in da Front dove, questa volta, a dominare il ring è GZA. Gli slide di basso sono la ciliegina sulla torta di una traccia minimalista che sperimenta per la prima volta il Beat-Switch. Wu-Tang: 7th Chamber si catapulta dentro la vita di strada. Il parlato dell’intro si trasforma in un beat cupo, in cui ogni membro da prova della coesione del gruppo, pur mantenendo integro ogni tratto distintivo. 

Con Can It Be All So Simple il disco si ammorbidisce, almeno per quanto riguarda le produzioni. Malinconia e riflessioni sono i due punti chiave della traccia, con Ghostface Killah e Raekwon che riflettono sulla loro gioventù e sulle difficoltà che hanno dovuto attraversare, per poi passare nuovamente ai campionamenti dei film di Kung-fu in Da Mystert of Chessboxin’. La grande dote a livello di arrangiamento si capisce proprio qui. Poco oltre la metà del disco. I momenti in cui vengono schierati tutti i membri del collettivo, vengono selezionati minuziosamente, per non appesantire il disco e per mantenere un filo conduttore ben definito.

Aggressività e potenza combattono al fianco del supergruppo in Wu-Tang Clan Ain’t Nuthing ta F’ Wit. Il beat martellante fa da trampolino di lancio per il singolo che ha definito un genere: Cash Rules Everything Around Me. C.R.E.A.M. è una riflessione della dura realtà della vita di strada e di quanto il denaro sia importante. Raekwon e Inspectah Deck offrono una delle loro migliori performance – versi introspettivi su una produzione di RZA a metà fra soul e rap.

Method Man risplende nella traccia omonima, su una produzione tanto semplice quanto efficace, mentre su Protect Ya Neck, tornano ancora una volta tutti insieme su beat scricchiolanti a parlare di lealtà e sopravvivenza. Tearz si ammorbidisce, e fa spazio a perdita e dolore, prima di entrare all’ultimo giro di questo disco. Wu-Tang: 7th Chamber – Part II riprende 7th Chamber mentre il collettivo ci disegna nuove strofe, chiudendo il disco con la stessa energia con cui era stato introdotto.

/ 5
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Stefano Attuario: La recensione di “NEMESI”

  • Stefano Attuario – NEMESI
  • 15 febbraio 2024
  • ℗ Terzo Millennio Records

Con Nemesi, il cantautore comasco Stefano Attuario, segna il suo debutto discografico. Le atmosfere profonde e scure, si uniscono a suoni graffianti, in un progetto musicale che, attraverso le esperienze di Attuario, analizza nel profondo la natura umana, e l’eterna ricerca di equilibrio, in bilico fra ingiustizie e le gioie della vita, attraverso dipendenze, e conflitti interiori. 

C’è un costante richiamo all’arte in questo progetto. Il titolo stesso, Nemesi, è un richiamo all’antica Grecia. Era il nome dato alla divinità dell’ordine e dell’equilibrio dell’universo. Distribuiva gioia o dolore a seconda di quanto era giusto, dando la caccia ai malvagi. È una scelta abbastanza singolare, nei concetti su cui sviluppare un album, ma è una scelta che riflette tutto il percorso che ha portato il cantautore a questo album. 

La musica e l’arte hanno fatto sempre parte del percorso musicale di Stefano e, di pari passo, anche la passione per la letteratura, soprattutto autobiografica. Ha pubblicato due romanzi, “Bautiful Day” e “Leggero il peso dell’amore”, oltre ad aver partecipato e vinto alcuni concorsi dedicati alla poesia. Il filo conduttore di questo percorso è sempre stato la musica e, in un certo senso, con Nemesi potrebbe chiudersi un cerchio.

Insieme a Max Zanotti (Deasonika, Mataleòn, Casablanca), produttore abbastanza conosciuto nella scena underground italiana, riescono a creare una fitta ambientazione oscura che avvolge tutto il disco e i testi di Attuario. Lungo i dieci brani di Nemesi ti ritrovi a far parte del viaggio introspettivo di Stefano, guardando il mondo da prospettive diverse. La complessità degli arrangiamenti si combina perfettamente con testi contorti, parecchio distanti dalla classica forma-canzone. Più che cantato, il disco sembra quasi raccontato. 

Nemesi Stefano Attuario

Il disco si apre con le oscure chitarre di Un demone la mia morale. Questo è a tutti gli effetti il singolo che inaugura la carriera solista dell’artista comasco. In un limbo tra giusto e sbagliato, ci ritroviamo davanti ed una profonda analisi sulla natura umana e sui valori che guidano le nostre azioni. Perle ai porci si avvicina a vecchie cifre stilistiche punk, basate su minimalità e testi ripetitivi. Il disco lascia spazio anche per tracce molto più calme, almeno da un punto di vista sonoro.

È il caso di Vello d’Oro o Liberi Respiri (And the Silence in Between), secondo singolo estratto dal disco, in collaborazione con Ray Heffernan, ricordato per aver scritto Angels, la celebre canzone di Robbie Williams. Il maggior lavoro di produzione risiede però in Arcobaleni In Bianco e Nero, L’anima non mente e Ciechi Cavalli. Le tre tracce incarnano a livello sonoro l’essenza di questo disco: un viaggio oscuro in territori Dark Wave, pesantissime distorsioni e sintetizzatori acidi, conducono alla chiusura del disco. 

Il primo lavoro di Attuario si chiude con Nemesi. Le atmosfere sono completamente fuori posto, tutto ciò a cui eravamo abituati sparisce. Tra le sonorità eteree troviamo il cantautore, che recita poesia. Le atmosfere sognanti ben presto si placano e il sogno torna un incubo, sotto cupi suoni ambientali.


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