Valerio Volpini

The Smashing Pumpkins: la recensione di “Aghori Mhori Mei”

  • Aghori Mhori Mei – The Smashing Pumpkins
  • 2 Agosto 2024
  • Martha’s Music/Thirty Tigers

Uno sguardo rivolto al passato, senza troppe pretese, se non quello di scalzare gli ultimi due passi falsi in salsa synth pop che rientrano poco nelle corde della band statunitense. Le cinquantatré tracce di “Atum” e “Cyr” avevano sconfortato, e non poco, i fan nuovi e di vecchia data. Non che questo “Abbraccia la Bella Morte” (la traduzione di “Aghori Mhori Mei”, composta da un mix tra sanscrito e giapponese, dovrebbe essere questa) riporti ai fasti di “Mellon Collie And The Infinite Sadness” “Siamese Dream” o “Gish”, ma non si può nemmeno gridare allo scandalo. Ma se questa ultima opera degli storici Smashing Pumpkins ha alcuni spunti interessanti dal punto di vista musicale, non si può dire lo stesso riguardo i testi, piuttosto banali, in linea col Corgan degli ultimi quindici anni.

Emblematica la partenza, con un suadente giro chitarristico con echi kyussiani, che poi esplode, dopo circa un minuto, nel sound tipico del gruppo di Chicago. Riaffiorano però i demoni del frontman, che, nella sua fase di scarsa creatività, lancia invettive abbastanza sterili all’inesorabilità e alla ripetitività del tempo. Già sentito.

Aghori Mhori Mei

L’obiettivo di ricongiungersi con il passato è evidente, sia nei brani più ballad, come la dolcePentecost”, accompagnata da un tappeto orchestrale e da riff di pianoforte veramente ben riusciti, o nelle tracce maggiormente heavy, quali la successiva “War Dream Of Itself”, molto dura e cadenzata. Ma anche qui il canovaccio è lo stesso: musica sempre curata e d’impatto, parole ovvie, che non incidono. Anche nella più enigmatica “Pentagrams”, dove i musicisti danno sfoggio del loro meglio, il frontman propone un testo che non esalta minimamente il suo genio nineties, ma si limita ad un semplice trattato sull’amore.

Parafrasando le parole del recentemente defunto Albini, la terza traccia di “Aghori Mhori Mei” rispetta l’algoritmo di sconvolgimento: sicuramente la più riuscita dell’intero album sia dal punto di vista musicale che da quello lirico, “Sighommi” potrebbe sicuramente far parte degli Smashing Pumpkins degli albori, senza però risultare obsoleta ai giorni d’oggi.

E se il singolo appena citato rispettava le intenzioni esplicitate dal cantante fondatore del progetto, che riguardo quest’ultimo lavoro sosteneva che “Durante la composizione del nuovo album mi ha incuriosito il logoro assioma, ‘non puoi tornare a casa di nuovo’, che personalmente ho riscontrato essere vero nella forma, ma che mi ha fatto pensare ‘e se ci provassimo comunque?’. Non tanto nel guardare indietro con sentimentalismo, ma piuttosto come mezzo per andare avanti, per vedere se, nell’equilibrio tra successo e fallimento, il nostro modo di fare musica dei primi anni 90 poteva funzionare ancora”, in altri casi, come in “Who Goes There”, il sound è risultato datato, e forse lo sarebbe stato addirittura ai tempi del discusso “Adore”.

Andando avanti, è sempre più evidente il filo conduttore dell’intera opera: con “999” infatti si susseguono riff interessanti a slanci piuttosto “telecomandati”, così come il testo, seppur non del tutto sterile, presenta delle strofe degne di un ventenne alle prime armi.

La soaveGoeth The Fall” mostra uno schema già visto: ballata alt pop, senza gioie né dolori, che passa senza tocco ferire. Mentre la successiva “Sicarus” è composta da una struttura metal più complessa, sicuramente maggiormente degna di nota, con vari cambi di ritmo non fini a sé stessi ed un testo che, sebbene non esaltante, sembra più profondo dei precedenti.

La chiusura è affidata a “Murnau”, un sunto dell’intera fatica: poco più che sufficiente, migliore degli ultimi lavori, ma lontana anni luce dagli sfarzi iniziali. L’anima pop esce fuori in tutto il suo ego e come sempre il sound è giusto, ma nulla più.

Gli Smashing Pumpkins sopravvivono al tempo, molto più di altre band, ma ci auguriamo che tornino a vivere e ci regalino le perle degli anni Novanta, in chiave moderna.

/ 5
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Mezzosangue: la recensione di “Musica Cicatrene”

  • Musica Cicatrene – Mezzosangue
  • 19 Luglio 2024
  • Sony Music Entertainment

Uno sguardo al passato con gli occhi futuri. Da un’idea, un progetto, un mixtape nato dodici anni fa, ad un album, il quarto di una già brillante carriera. L’atmosfera è la stessa, la maturità è diversa. I suoni, nonostante la volontà di rimanere fedeli all’originale, si sono evoluti in un nuovo riarrangiamento degno del Mezzosangue che apprezziamo oggi. Per chi lo conosceva dai suoi esordi sicuramente queste tracce non saranno una novità, per chi invece l’ha scoperto da poco o lo ascolta per la prima volta di certo comprenderà come tali parole, seppure vecchie più di una decade, sono tremendamente contemporanee. Ciò che cambia è la profondità data dalle nuove sonorità, con l’aiuto di DJ Shocca e il featuring di Gaia.

L’uscita di questo “ritorno al passato” è stata anticipata dalla riedizione del singolo “Capitan Presente”. Il testo è sempre lo stesso, quanto mai attuale, ma la musica è più intima, quasi in contrasto con la violenza delle parole, il tutto anticipato dall’ormai noto discorso fatto per il rap contest “Capitan Futuro”, dove tutto ha avuto inizio.

I pezzi non sono stati stravolti, ma aggiustati, rivisti e resi più moderni, a partire dall’intro, leggermente più lungo del precedente, con dei piccoli dettagli musicali che esaltano al meglio le parole. Ma è con “Esistenzialismo” che si evidenzia ancora di più questo cambio di passo: la base è completamente diversa, più moderna e strutturata, ed esalta al massimo le varie fasi del pezzo, anche durante gli intermezzi del discorso tratto dal film Matrix. Nessuna rivoluzione, ma un restyling ad hoc di un pezzo che già era storia.

Più “tradizionale” invece l’ottima “Still Proud”, ma anche qui i dettagli fanno la differenza, con l’intervento di DJ Shocca, che concede piccoli tocchi di dubstep ad una base già funzionante di suo. Una canzone che assume un carattere diverso, più forte e memorabile della precedente versione. Altro esame ampiamente superato.

Nel caso di “Soldierz” viene stravolta anche la durata, quasi dimezzata, togliendo una buona parte della coda finale ed aumentando leggermente i bpm. Ennesima prova di maturità del rapper romano. Con “Piano A” si arriva alla vera hit dell’album. In questo caso il pezzo funzionava molto bene già dodici anni fa e ha solo tratto beneficio dalle piccole rifiniture aggiunte nella traccia. Parafrasando il brano, a Mezzosangue non serve mai un piano B.

L’impatto della “vecchia” versione di “Mezzosangue” era sicuramente più forte e diretto, mentre all’interno dell’album l’irruenza, seppur mantenuta nel testo e nella voce, è stata attenuata a beneficio di una maggiore attenzione alla sonorità. Questo è forse l’unico pezzo in cui la prima versione, se non migliore, è al pari del suo re-edit.

Nevermind” ha mantenuto il suo sapore iniziale, dolce e amaro, come è giusto che sia. Un pezzo violento e poetico al contempo, collocabile in qualsiasi epoca senza sfigurare mai.

A poco meno di undici minuti dalla fine di questo “viaggio nel tempo” si arriva al vero capolavoro: “Secondo Medioevo” è un diretto in faccia, senza preavviso, dove si contrappone una voce urlata ad una musica più lieve e quasi orchestrale. Il balzo in avanti qui è clamoroso e la nuova produzione la rende perfetta, dall’inizio alla fine.

Quello che potrebbe essere definito una sorta di intermezzo per via della sua durata, risulta molto diverso nelle due versioni: più in linea col resto del mixtape prima, una piccola perla nella nuova opera. Meglio la prima “Shylock” o l’attuale? Ai posteri l’ardua sentenza, si parla semplicemente di gusti soggettivi.

L’intimità raggiunta nella penultima traccia di questo nuovo album toglie tutti i dubbi su quale sia la migliore versione: “Musica Cicatrene” viene esaltata da una produzione di mirabile fattura, che la rende quasi cinematografica.

Al posto di “Incazzato Nero (outro)”, dove veniva lasciato spazio ad un monologo favoloso tratto da Quinto Potere, Mezzosangue ha preferito un saluto più romantico e ottimista, con l’ausilio della splendida voce di Gaia. L’irruenza dei vent’anni viene sostituita dalla maggiore saggezza dei trenta e “Piove Musica” è un degno ringraziamento a quello che salva tutti i musicisti, nonché il giusto finale di un’opera più completa e importante della precedente.

È anche la sua versione live, che ho potuto apprezzare al Superaurora Festival a Roma, non ha deluso le aspettative. Immerso nel suo pubblico, Mezzosangue ha dato il meglio di sé, come sempre.

mezzosangue

Chi conosce Mezzosangue sa che il suo percorso ha avuto un’evoluzione costante, ma l’occhio al passato ci ha fatto riscoprire un incipit che veramente pochi possono vantare. In attesa dei prossimi inediti, ci godiamo questi nuovi ricordi.

/ 5
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Shellac: la recensione di “To All Trains”

  • To All Trains – Shellac
  • 17 Maggio 2024
  • Touch and Go Records

Nemmeno il tempo di gioire dell’imminente uscita del sesto album in studio degli Shellac, a ben dieci anni dal precedente “Dude Incredible”, che arriva la notizia sconvolgente: a pochi mesi dai sessantadue anni ci lascia uno dei personaggi più iconici ed influenti dell’alternative moderno, il cantante, chitarrista, produttore musicale, ingegnere del suono, critico musicale, e chi più ne ha più ne metta, Steve Albini. Una leggenda, senza se e senza ma, che ha prodotto artisti quali Nirvana, Pixies, PJ Harvey, Slint, solo per citarne alcuni, ed ha rivoluzionato il rock alternativo americano. Questo maggio trasporta quindi i fan in un mix di eccitazione e malinconia, così come l’ascolto di questo attesissimo “To All Trains”.

Cinico, sprezzante, estremamente provocatorio, Albini era solito evitare interviste e, qualora si riuscisse ad “intercettarlo”, dava il via a commenti che oggi sarebbero impossibili da pubblicare in un mondo così politicamente corretto ed incline alla nuova cultura woke. Persona controversa, ma coerente in un comportamento poco edificante: infatti negli anni non ha risparmiato insulti nemmeno a band alle quali ha contribuito al successo (definì i Pixiesquattro vacche così ansiose di farsi guidare con l’anello al naso”).

Ma veniamo al musicista e cerchiamo di sintetizzarne gli ingredienti: la base è senza dubbio punk, il noise è il filo conduttore, un pizzico di post rock, il tutto condito con una spezia esclusiva, soprattutto nel ’94, anno di esordio degli Shellac con “At Action Park”, ovvero il math rock. I testi, brevi ma molto diretti e pungenti, hanno però un comune denominatore con la musica di Albini e soci, ovvero la sinteticità e il minimalismo. Il mix è tra rumore e algebra, scevro da ogni particolare effettistica, allo stato grezzo.

To All Trains

Per analizzare l’album è bene basarsi su quanto sosteneva la mente che ne stava dietro: “la terza traccia dovrebbe essere quella che ti sconvolge. La uno deve dire alla gente, ehi siamo qui, e puoi tirare a vuoto nella due, ma la tre deve tirare via la vernice dalle pareti”.

Albini è un uomo di parola e “WSOD” chiama l’ascoltatore che, senza ombra di dubbio, sa di trovarsi di fronte alla band di Chicago. L’incipit se lo ritaglia la “ferrosa” chitarra, con il sound, unico nel suo genere, generato da plettri in rame e manico in alluminio. Si prosegue con la percussività del riff, inconfondibile con altre band, e gli altri strumenti che entrano progressivamente, quasi a colorare l’ossessivo giro di chitarra che rimane immutato fino ad un minuto dalla fine, dove viene sostituito dallo spoken word più minimale che ci sia. “Aspiro al bronzo, ma mi accontento del piombo, spacciato per oro, per il commercio turistico, assegnato dopo i test. Urina, sangue e capelli. Quei tre sono sempre un tutt’uno. Date a quell’uomo una medaglia, date a quell’uomo una medaglia”, niente di più, eccezion fatta per l’esplosione degli ultimi venti secondi. Iniziamo bene.

La seconda traccia segue la falsariga della prima, ma qui viene evidenziata maggiormente la struttura matematica del brano. Gli strumenti e la voce si incastrano in modo tale da creare una sequenza perfetta, a tratti ipnotica, soprattutto in chiusura. Nella teoria albiniana si può “tirare a vuoto” nel secondo pezzo, ma di fronte ad un tale livello sonoro ci permettiamo di dissentire.

Ed eccoci di fronte alla “sverniciatura delle pareti”: il pogo è d’obbligo con “Chick New Wave”. Poco meno di due minuti e mezzo di schitarrate, urla, intermezzi timbrici e botte in faccia. Non è il loro manifesto, ma sicuramente quello in cui maggiormente è emersa l’anima punk.

What’s the panic with you?” apre l’algebrica “Tattoos”. Qui torniamo in pieno stile shellachiano, dove gli strumenti dialogano fra loro e la voce entra in punta di piedi, quasi a non voler disturbare troppo il discorso musicale. Altro capolavoro di una band inestimabile.

Wednesday” viene introdotta da un ritmo tribale: i tom percossi da Todd Trainer accompagnano l’ascoltatore all’interno delle profondità più cupe dell’album. Si sfiora il doom e la voce, nelle rare apparizioni, grava ancora di più il tema. Si fa strada maggiormente nel finale, dove prende il sopravvento e racconta una storia macabra, degna dell’accompagnamento musicale. Cos’altro aggiungere?

La vetta più alta di questa opera immensa arriva in sesta posizione, con “Scrappers”. Il sunto della band può essere sintetizzato in questi due minuti e venti secondi: l’esaltazione matematica del punk in chiave punk, con l’alternanza tra cantato e parlato, in un unico grido “we’ll be pirates!”.

Il premio per il miglior testo lo vince a mani basse la canzone più breve di tutte: “Days Are Dogs” sembra una poesia, un testamento spirituale recitato magistralmente da quello che è al tempo stesso autore e fruitore. “Sono l’ultimo giorno della tua vita, vissuto oltre ogni aspettativa”, un monito che dovrebbe ronzare sempre nelle teste di tutti.

Dallo spoken word precedente si passa al primo ed unico pezzo interamente cantato. Una sorta di marcetta perdura fino all’ultimo minuto, dove tutti gli strumenti cambiano rotta. Nell’immensità del decalogo di “To All Trains”, “How I Wrote How I Wrote Elastic Man (Cock & Bull)” risulta forse il più “normale”.

Prima di chiudere, Albini e soci hanno deciso di rendere omaggio al musicista e ingegnere del suono Rob Warmowski, morto nel 2019 all’età di 52 anni. Il titolo, “Scabby The Rat”, che prende il nome dal roditore gonfiabile usato dagli attivisti sindacali, era anche l’account twitter pro labor creato dallo stesso musicista. Emblematiche le parole di affetto rivolte dal cantante della band: “La scena musicale è come una famiglia, e Rob era sempre lo zio socievole che conosceva i nomi di tutti i cugini e faceva le presentazioni e iniziava le conversazioni in modo che tutti si sentissero a casa. La maggior parte delle persone che conosco nel mondo della musica ha avuto con Rob almeno un rapporto di sfuggita. E tutti loro lo hanno apprezzato.”

Non poteva esserci finale migliore. “I Don’t Fear Hell” è il saluto più puro che Albini potesse rivolgere al suo pubblico. È tutto giusto, dalla musica funerea e rarefatta, algebrica e rumorosa, al testo che sembra essere un addio, ma sempre in pieno stile Shellac. I sentimenti sono contrastanti: così, tra una lacrima e una risata, ci apprestiamo a concludere questa perla.

Le parole non sarebbero mai abbastanza per ringraziare questo maestro alternativo della moralità. Ci limitiamo ad immaginare come lui stesso ha voluto descrivere il suo approdo nell’aldilà, perché d’altronde “se c’è un paradiso, spero che si stiano divertendo, perché se c’è l’inferno, conoscerò tutti”.

5,0 / 5
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Justice: la recensione di “Hyperdrama”

  • Hyperdrama – Justice
  • 26 Aprile 2024
  • Genesis/Because Music

Portatori sani del french touch, estimatori dei Daft Punk, il duo sperimentale prosegue un cammino che va avanti da oltre vent’anni. Il loro sound ampiamente riconoscibile ha subito alcuni cambiamenti negli anni, con il granitico ed entusiasmante esordio, seguito da uno scivolone del secondo “Audio, Video, Disco”, con un disastroso richiamo al progressive anni ’70, fino al ritorno ad un sound più elettronico e dance in “Woman”. Sono questi quindi i loro marchi di fabbrica, così come la croce che non li abbandona mai negli anni. Il duo parigino decide quindi di coniare il tutto in “Hyperdrama”, senza però deludere e riavvicinandosi con cautela ai fasti di “Cross”, non più lontani anni luce. In questa ultima opera, inoltre, non mancano le collaborazioni.

Si parte con Kevin Parker, leader dei Tame Impala, che fa decollare l’album, con la prima scanzonata e danzante “Neverender”. La dance settantiana emerge in tutto il suo splendore.

Justice

Con “Generator” si torna a melodie più familiari: un brano che strizza l’occhio ai due “Phantom” ed a “Genesis” del primo album. Un vero gioiello di quasi cinque minuti.

La soave voce di Rimon spezza il duro ritmo iniziale di “Afterimage”: la traccia prosegue senza bruschi tornanti, in un percorso piacevole ma senza tratti memorabili.

La successiva “One Night/All Night” segue la falsariga iniziale, con i medesimi ospiti, mentre “Dear Alan”, che con i suoi cinque minuti e mezzo è la canzone più lunga di “Hyperdrama”, è l’apice il manifesto del french touch: il jingle televisivo iniziale si apre in un continuo crescendo, fino a maturarsi entro il primo minuto. L’intero pezzo gira intorno a questi suoni, intervallati da bridge sintetici che interrompono la melodia centrale. Si sente che i Justice sono molto ispirati in questo nuovo album.

Questa originalità traspare ancora di più in “Incognito”, dove la partenza eterea lascia brevemente spazio ad un tappeto elettronico che mixa egregiamente synthwave e progressive, toccando vette non lontane dal “disco con la croce”. Perfetta la chiusura soffice, collegata in modo lineare con la successiva “Mannequin Love”, in compagnia degli inglesi The Flints.

L’eco di Brian Eno è inconfondibile in quella che a tutti gli effetti potrebbe essere un intermezzo, ovvero “Moonlight Rendez-Vous”. Sembra quasi un intro della seguente “Explorer”, composta con l’ausilio di Connan Mockasin, in pieno stile cinematografico, come fosse una colonna sonora di un thriller.

Arriva poi un trittico, che andrebbe ascoltato tutto d’un fiato: l’apertura sognante viene bruscamente stroncata da un synth rumoroso e prepotente, per poi aprirsi nuovamente fino alla successiva interruzione, in cui sembra che il tempo venga scandito dal bip di un elettrocardiogramma. Questo è il canovaccio di “Muscle Memory”, un susseguirsi di saliscendi in pieno stile ottovolante. E se “Harpy Dream” funge da ponte tra i due estremi del trio, “Saturnine” si presenta sensuale, così come la voce dell’altro ospite Miguel. Particolari sono le interruzioni costanti di quello che sembra il campanello tipico dei desk degli hotel.

“This is the end” diceva Jim Morrison, e mai più azzeccato poteva essere il titolo ed il sound finale dell’opera. Insieme all’ultimo featuring Thundercat, Gaspard Augé e Xavier de Rosnay creano una chiusura secca e asciutta, con rimandi ai migliori Royksopp.

Graditissimo ritorno che fa sempre ben sperare. Lunga vita all’elettronica d’autore, lunga vita ai Justice.

/ 5
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I Hate My Village: la recensione di “Nevermind The Tempo”

  • Nevermind The TempoI Hate My Village
  • 17 Maggio 2024
  • Locomotiv Records

Ma cosa stiamo ascoltando? Una domanda più che lecita quando si schiaccia play e si inizia ad approcciare al nuovo esperimento del supergruppo composto da componenti di spicco di altre band, come Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle). Ma a questo gli I Hate My Village ci avevano già ampiamente preparato con il loro omonimo d’esordio e con la pura sperimentalità dell’EP “Gibbone”. Insomma, non si può di certo dire che non ci avevano avvertiti, così come è impossibile non ammettere che i fan del math rock non stessero aspettando con trepidazione che il quartetto lombardo/romano sfornasse un nuovo prodotto. Dunque, l’attesa è finita, non resta che godersi il risultato.

L’incipit di “Nevermind The Tempo” è quanto più math acido si potesse chiedere: poliritmie dove la voce deve farsi strada ed incastrarsi in una moltitudine sonora. Iniziamo bene, molto bene.

 “Water Tanks” risulta più scanzonata già dal giro iniziale, quasi afrobeat, con rimandi innegabili all’album precedente. Di sicuro il pezzo più “orecchiabile” e semplice dei dieci presentati, ma non per questo banale. È ballabile, nella maniera di Ferrari e soci.

La struttura sonora rimane invariata anche in “Italiapaura”, con un ritmo serrato che anticipa il classico jingle della chitarra. Seppur nella sua brevità (circa due minuti e mezzo) il brano si apre e si chiude di continuo, quasi come un giro su un ottovolante. L’ascoltatore viene quindi sballottolato tra chiusure sonore, ingresso di nuovi strumenti, cambi di ritmo inattesi, che lo trastullano in un trip musicale a tratti assurdo. Tutto questo potrebbe essere racchiuso in una sola parola: perla.

Non c’è un attimo di tregua, nessuna pausa rilassante: “Eno Degrado” porta la sperimentazione a vette molto alte, ma nelle quali i quattro musicisti si muovono con disinvoltura invidiabile. Non c’è nulla di fuori posto o di esagerato, nonostante il caos generato dalla moltitudine di suoni e rumori. Perfetti, inoltre, l’inizio e la chiusura, con un click che anticipa il tempo e un re “battuto” dalla chitarra distorta, un richiamo non troppo lontano dall’inizio “Eulogy” e la chiusura di “Third Eye” dei Tool.

Il mezzo passo falso arriva a metà album, con l’esoticaMauritania Twist”, dove la voce di Adriano Viterbini (eh si, ha iniziato anche lui a cantare in questo progetto) emula uno strumento e segue la melodia arabeggiante. Il pezzo prosegue con un susseguirsi di traccia/ritornello sicuramente interessanti, ma non al pari del resto dell’opera.

L’hype si rialza subito dopo: la successiva “Erbaccia” parte in modo soffuso con quello che sembra un carillon rotto, per poi aprirsi in suoni industrial in continuo crescendo. Non ci sono particolarità, cambi di tempo o stranezze varie, il pezzo scorre liscio, senza intoppi, ma tremendamente bene.

Se “Jim” ha uno stile di canzone più classico, la strumentale Dun Dun” potrebbe tranquillamente fungere da colonna sonora di un film: il ritmo tribale fa da tappeto a suoni sospesi, inquietanti e ipnotici, fino a un minuto dal termine della canzone, dove un’improvvisa interruzione e rallentamento del tempo precede il reprise finale, che ripropone la melodia precedente.

La struttura che sembra normale, si trasforma per trenta secondi a metà di “Come una poliziotta”, lasciando spazio a rumori e ad una sorta di beatbox, prima di riprendere il giro iniziale e concludere gli ultimi venti secondi con un richiamo improvvisato del beatbox precedente. Mai come in questo album la band si è divertita.

La ballata finale è la degna chiusura di un’opera immensa come “Nevermind The Tempo”, con una psichedelia di fondo che permea l’intera traccia. Una sorta di brano trip hop sospeso, pronto anch’esso per divenire una soundtrack di un film.

“La differenza principale è che questo disco è nato con la volontà di essere un disco di canzoni e questo ha fatto sì che tutto il processo fosse diverso. Il primo disco era stato concepito per essere strumentale e la voce si è aggiunta solo in un secondo momento. Adesso abbiamo una consapevolezza diversa e abbiamo voluto innanzitutto esplorare la forma canzone” sostiene in un’intervista al Rolling Stone Marco Fasolo. E come dargli torto, il cambio di passo risulta evidente fin da subito.

“La cosa interessante di questo gruppo è che ognuno è fan degli altri e per questo disco qui ci siamo fortemente ispirati a noi stessi”. Forse proprio con queste parole di Viterbini si può spiegare l’evoluzione del sound: da progetto di superband, con artisti provenienti da realtà diverse e parallele, a gruppo musicale vero e proprio, dove ognuno ascolta e completa l’altro. Un passaggio epocale, che sembra solo l’inizio di un percorso duraturo.


/ 5
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Erotic Secrets Of Pompeii: la recensione di “Mondo Maleficum”

  • Mondo MaleficumErotic Secrets Of Pompeii
  • 25 Gennaio 2024
  • Deaf Endling Collective

Quando si dice che il buongiorno si vede dal mattino: risulta splendente l’esordio dei britannici Erotic Secrets Of Pompeii. Estro, pazzia, tecnica si fondono per creare un sound che intinge il proprio essere nel post-punk dei Fontaines D.C., la schizofrenia dei Black Midi, la follia creativa dei Mr. Bungle, l’acidità dei Primus. Un mix quantomai azzeccato che si esalta nelle dieci tracce che compongono “Mondo Maleficum”, un album che saprà accontentare palati diversi. Ma l’approccio deve essere consapevole, con le dovute istruzioni per l’uso, altrimenti rischia di diventare troppo complesso ai più e strizzare troppo l’occhio alla dance per i più esigenti.

“Osiris at the Large Hadron Collider” parte con un classico riff di chitarra che si potrebbe ascoltare in un disco dei Franz Ferdinand. Ma la voce di Thomas Hawtin accompagna l’ascoltatore in un vortice di stranezze, degno del miglior Mike Patton.
Già il giro di basso che introduce “The Wheel, the Spade, the Stars in Motion” mostra un altro percorso rispetto al precedente, dove la chitarra ricorda a tratti LaLonde, mentre la batteria prosegue il viaggio post-punk che li contraddistingue. E già ci troviamo di fronte ad una prima gemma.
L’inizio della terza “Faustina Filmed in Psychorama” ricorda i francesi We Insist!, con questo fare cadenzato accentuato dai vocalizzi. Un’altra freccia ben scagliata, dritta al centro del bersaglio.
La successiva “Venus Ascending” sembra tratta da un nuovo album degli Arctic Monkeys con la partecipazione di Mike Patton alla voce e con l’assolo di chitarra di David Gilmour. Questo strano trio suona a meraviglia, mostrando tutta la qualità della band.
Più sinuosa, ma al contempo acida e psichedelica, “Bad Weather at Beachy Head” si differenzia ulteriormente dal resto dei brani: questa mistione di suoni si fonde ancora di più qui, confondendo e sorprendendo l’ascoltatore, ormai in balia degli eventi.
Il picco di stravaganza viene raggiunto con “Utterly Rudderless”, un raro esempio di follia lucida contemporanea. Il vero capolavoro in mezzo a tante perle.
Segue egregiamente “Crocodilian”, quasi a voler ribadire che, anche se probabilmente si è raggiunta la massima vetta, le altre sono quasi tutte allo stesso livello. Più lineare della precedente, ma complessa nella sua interezza.
“Tenderness Has Failed Me” è sicuramente una delle più ascoltabili, senza troppi scossoni. Attenzione, ciò non significa banale, un termine che difficilmente potrebbe essere associato agli Erotic Secrets Of Pompeii.
Nemmeno il tempo di abituarsi ad un terreno stabile che si viene catapultati in atmosfere noir, con una sorta di acid blues a luci soffuse. “Auguries and Auguries” è geniale, soprattutto perché spezza il ritmo dance al quale ci si era abituati.
La chiusura in poco più di tre minuti di “The Unstitching of Everything” è degna dell’intera opera: sembra quasi uscita da un musical rock: una sinfonia che completa un puzzle quasi perfetto, con una conclusione quasi sospesa, come se volesse tracciare la strada per lavori futuri.
Buona la prima è un’espressione riduttiva per questo album, impeccabile sotto ogni punto di vista. Poco più di mezz’ora che vola come se fossero passati solo pochi minuti.
Ora le ipotesi sono due: rischiare una clamorosa perdita di quota a discapito delle aspettative, oppure consacrare ancor di più questo debutto con un’opera che porterà il quintetto inglese nell’olimpo dei grandi.

/ 5
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The Pineapple Thief: la recensione di “It Leads To This”

  • It Leads To This – The Pineapple Thief
  • 9 Febbraio 2024
  • Kscope

Avete presente quando aspettate ardentemente qualcosa e poi, una volta tra le mani, rimanete con quel mezzo sorriso stampato sul volto? Questo è quanto accade mettendosi all’ascolto dell’ultima creatura partorita da Bruce Soord e soci. Sembra quasi di ascoltare una compilation di vecchi brani, per carità ben suonati, come sempre, ma niente che trasformi l’espressione in gioia pura. Un approccio conservativo, una terra già esplorata, un percorso sicuro, sono le frasi che meglio racchiudono la strada intrapresa dai Pineapple Thief nel comporre l’ultimo “It Leads To This”. Da musicisti di questo calibro è lecito aspettarsi ben altro che la semplice sufficienza, ma andiamo per ordine ed analizziamo l’album che segna i venticinque anni di carriera della band.

the pineapple thief

L’apertura affidata a “Put It Right” è tutt’altro che memorabile: cinque minuti e mezzo senza infamia e senza lode, che accompagnano l’ascoltatore verso lidi già percorsi e, forse, nemmeno troppo cari.

Con “Rubicon” ci si trova di fronte ad un approccio più deciso, una leggera svolta neo prog rock che ha da sempre accompagnato la band. Niente di trascendentale, ma comunque molti gradini sopra la precedente traccia.

“What you see is no surprise” recita una frase della canzone che ha dato il titolo all’album. Mai sentenza fu più azzeccata. Basterebbero queste poche parole per descrivere l’intera opera, così come questo pezzo. Già sentito, ben fatto ma niente di nuovo.

Si passa poi alla seguente “The Frost”, ma il canovaccio rimane invariato: addirittura qui torniamo più vicini alla banalità della traccia di apertura piuttosto che alle tre successive.

Giunti a metà troviamo i primi squilli, dove il supergruppo mette a segna una doppietta degna di nota. “All That’s Left” e “Now It’s Yours” portano sonorità nettamente più ricercate, mostrando l’estro della band.

L’apice però viene raggiunto con “Every Trace Of Us”, con i loro elementi tipici mescolati con grande sapienza. Questa canzone vince senza dubbio la palma di migliore dell’album, anche se la concorrenza era veramente bassa.

L’ultima “To Forget” sembra quasi un invito all’ascoltatore: piatta, con pochi sussulti degni di nota, quasi a riprendere l’incipit iniziale. Non un totale disastro, ma nemmeno lontanamente vicina al capolavoro.

Insomma, un disco senza né arte né parte, di cui si poteva fare sicuramente a meno ma che non grida nemmeno allo scandalo. Un passo indietro di una band di grandissimo valore, che non ne scalfisce l’immagine, ma sembra voglia fungere da transizione (si spera) verso nuove sonorità, non per forza migliori o peggiori, ma di certo diverse.

/ 5
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From Flowers To Flies: la recensione di “We Built This Machine”

  • We Built This Machine – From Flowers To Flies
  • 19 Gennaio 2024
  • Broken Windmill Music

Oscurità nei testi, ecletticità ed eleganza nell’esecuzione strumentale, è ciò che emerge nella storia in dieci tracce, con l’aggiunta di un prologo e di un epilogo, raccontata dai From Flowers To Flies nel loro disco di debutto. L’intera opera è intrisa da una mistione di chamber pop e prog rock, sempre molto ben bilanciata ed eseguita alla perfezione.

L’album si apre con la vigorosa “Signs”, dove gli accenti degli ottoni si intrecciano con le vibranti melodie chitarristiche e il ritmo incalzante di basso e chitarra, evidenziando le abilità dinamiche della band. Il breve prologo lascia spazio subito ad un brano dalle due facce, più ritmata, quasi tribale, la prima parte, maggiormente riflessiva e cupa la seconda.

Il singolo di debutto, “Fog”, intriga con la sua sobria eleganza iniziale, sfociando poi in un crescendo climatico avvincente. Gli strumenti si fondono in un intreccio melodico coinvolgente, mentre le voci narrano un senso di immobilità, presto sovrastato da una distorsione graffiante che aggiunge nuova profondità alla traccia.

“Powerlines” irradia un’energia cupa e fragorosa, con un basso post-punk pulsante che si fonde con una pesante distorsione chitarristica e sprazzi di ottone, evocando suggestioni estetiche che richiamano alla mente un incrocio tra Madness e Black Midi. Dopo la poetica strumentale “We Are What We Pretend To Be”, si torna ad atmosfere più angosciose con “The Game”, con echi non troppo lontani dai Porcupine Tree. Qui i synth e il basso guidano in modo avvincente la sequenza vocale, con l’intervento preciso e perfetto della chitarra da metà traccia.

L’intermezzo di poco più di due minuti della quasi totalmente strumentale “38.9°N, 77.0°W” apre la strada in modo

“Glide” presenta un approccio rock più groove e funky, evitando la foga distorsiva a favore di un coinvolgimento, esaltato dalla splendida voce femminile della band. Le liriche approfondiscono i temi dell’ansia e del tumulto moderno, mentre “Contagion” si fa eco di un futuro incerto, dove ci si interroga su quanti danni si possano infliggere, in un prog rock di stampo seventies, con arpeggi di chitarra e organi che si rispondono in un dialogo continuo.

La successiva “Not The Way You Want” è sicuramente la più scanzonata dell’intera opera, con melodie aperte e cori armoniosi.

Dopo la lunga strumentale e atmosferica “Vamp Until Cue… Then Fade”, con giochi di chitarra e ottoni, l’album si chiude con il consumante epilogo, che abbraccia un nostalgico synth-pop e un senso di inquieto idealismo new-wave.

Il finale è un trionfo dirompente, che conclude in modo impeccabile un album d’esordio che fa ben sperare e aumenta la curiosità nei confronti di una band ancora a tratti acerba, ma pronta a sbocciare con un percorso inverso rispetto al loro nome.

/ 5
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The Smile: la recensione di “Wall of Eyes”

  • Wall of Eyes – The Smile
  • 26 Gennaio 2024
  • XL Recordings Ltd

Dove Thom Yorke mette mano, difficilmente fuoriesce qualcosa di anonimo. Il suo estro non lascia indifferente neppure l’ascoltatore più distratto. Risulta pertanto inevitabile il confronto e l’eco dei Radiohead, anche per la presenza all’interno del gruppo di Jonny Greenwood, ma l’eleganza nel tocco di Tom Skinner conferisce ai The Smile una sonorità più personale. Ed ecco che da questo connubio nasce un progetto a più ampio respiro, che trova un ulteriore step di crescita in “Wall of Eyes”, dopo un esordio interessante ma al contempo incompiuto. Possiamo anticipare che dall’infanzia iniziale di “A Light for Attracting Attention” siamo giunti ad una piena adolescenza, con un carattere in via di definizione, ma ancora non completo.

L’album si apre con una accoppiata rilassata e sospesa, formata dal brano eponimo e da “Teleharmonic”, per poi passare a due delle gemme di questo scrigno psichedelico: “Read The Room” e “Under Our Pillows” introducono il prog in una band capace di districarsi nei generi musicali con pregevole disinvoltura.

La successiva “Friend of a Friend” è una ballata che rimanda molto allo storico gruppo di Yorke e soci, come sonorità e struttura, così come la seguente “I Quit”, troppo piatta e prevedibile, quasi un passo indietro rispetto al resto delle tracce.

Le due facce di “Bending Hectic” catturano maggiormente l’attenzione: dolce, poetica ed eterea per poco più di cinque minuti; stridula, dura e oscura fino alla fine. “Stiamo arrivando a una curva, sbandando al tornante, una discesa a picco sul fianco di una montagna italiana […] Nonostante questi fendenti, nonostante queste frecce, mi costringo a girare, girare!” con queste parole viene spiegato al meglio il “cambio di direzione” del brano, probabilmente il più rappresentativo e meglio riuscito dell’attuale carriera della band.

La conclusione è riservata ad un altro pezzo lento, dilatato, ma senza particolari picchi. Non un ulteriore passo falso, ma nemmeno memorabile.

Ciò che emerge da questo lavoro è la ricerca di un proprio sound definito e definitivo, per superare la sopra citata adolescenza e giungere ad una piena maturazione.

Comunque, nonostante una fatica generale nel decollo, il volo risulta gradevole, senza scossoni, con un atterraggio lieve. Ma con un pilota di questo calibro ci aspettiamo un volo stellare, capace di regalarci emozioni nuove ad ogni passaggio.

/ 5
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Ty Segall: la recensione di “Three Bells”

  • Three Bells – Ty Segall
  • 26 Gennaio 2024
  • Drag City Inc.

Sembrano ormai lontani anni luce gli esordi garage, con lunghe e ripetute schitarrate rumorose. L’evoluzione verso un rock alternativo sofisticato, notevolmente influenzato dalla psichedelia di beatlesiana memoria, trova pieno compimento in “Three Bells”, un album maturo, completo che consacra una carriera già lunga di un artista non propriamente veterano, ma ormai tra i più influenti della scena alternative. Ty Segall è l’emblema di come un artista possa progredire nel tempo continuando a divertirsi: il suo essere scanzonato dei primi album non si è perso, ha subito una trasformazione, elevandosi ad un livello più alto, non per forza migliore, ma di certo a più ampio spettro.

Se già con i precedenti “Hello, Hi” e “Harmonizer” era facile notare una svolta sonora, quest’ultima opera segna un confine netto con ciò che è venuto prima, alzando notevolmente l’asticella per le produzioni future. Già con i tre singoli “Void”, con un’apertura degna di Steven Wilson, delle dissonanze alla Primus ed una totale rottura intorno alla metà, con echi alla Jethro Tull, l’acida “Eggman” e la beatlesiana “My Room”, si capisce la complessità dell’album e lo stravolgimento del sound precedente.

Sono ben quindici i brani per più di un’ora di musica, aperti dalla dolcezza iniziale di “The Bell” e conclusi dalla più enigmatica “What We Can Do”, dove l’eco psych sixties è veramente preponderante.

Veramente molte le perle di quest’album, a partire dalla più acida “I Hear”, con schitarrate dissonanti che si amalgamano al ritmo cadenzato si fondo, quasi un omaggio a Bowie, così come “My Best Friend”, dove il falsetto del poliedrico artista statunitense si frappone alla durezza delle chitarre. Degna di nota anche “Reflections”, la più ancorata al precedente post-punk, con un cantato influenzato nuovamente da McCartney e soci.

Circa a metà si arriva però al capolavoro, che si distacca da tutti gli altri pezzi, con una struttura blues, sempre di stampo psichedelico, che però sfocia nel new prog, dove emerge la splendida voce di Denée, consorte del musicista. Poco più di tre minuti sperimentali, ma in nessun tratto noiosi. L’album varrebbe l’ascolto anche solo per questo brano.

Più intricata e cupa, ma altrettanto armoniosa, “Watcher”, nella quale Ty Segall si erge a “osservatore, assassino della memoria”. Ma le vette più alte vengono toccate nuovamente con “Repetition”, ossessiva nella musica e nel testo quanto mai “ripetitivo”, e dalla successiva “To You”, dove la psichedelia raggiunge l’apice e tocca nuovamente il progressive rock, accompagnata da un testo teoricamente semplice, ma contorto nella pratica. Altro passaggio perfetto di un album che sfiora l’eccellenza.

Più semplice “Wait”, calma e distesa fino al primo minuto per poi lasciar spazio nuovamente ad un post-punk, che strizza l’occhio nuovamente al Duca Bianco.

La semplicità del testo della canzone dedicata alla moglie (con la semplice ripetizione del titolo, nonché nome della donna, per tutta la durata della traccia) non trova conferma nella musica e nella struttura, composta per gran parte del tempo da una jam di pregevole fattura. Una lettera d’amore quanto meno atipica, ma di sicuro apprezzata.

Si apre quindi definitivamente un nuovo capitolo della carriera del quasi quarantenne americano, in un percorso costellato da molti alti e pochi scivoloni. Ad un passo dalla perfezione, nella speranza che il prossimo step ci stupirà ancora di più.

/ 5
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