Veronica Comanducci

Caskets: la recensione di “Reflections”

  • Caskets – Reflections
  • 11 Agosto 2023
  • ℗ SharpTone Records

A due anni dal debutto internazionale con l’album Lost Souls, i Caskets sono tornati lo scorso 11 agosto con il nuovo album dal nome Reflections.

Il titolo – che tradotto in italiano significa “riflessi” – sembra appropriato per un disco che ci invita a guardarci indietro. Infatti se Lost Souls era una sintesi delle guerre interiori ed individuali del frontman Matt Flood, quest’ultimo progetto discografico riguarda il percorso della band nel suo insieme. Attraverso dieci tracce di genere pop, elettronico e metalcore, i Caskets fanno riemergere senza pudore eventi passati che – seppur non tutti propriamente positivi – li hanno portati ad essere ciò che sono attualmente.

Tracklist:

1. Believe

2. More Than Misery

3. In the Silence

4. Too Late

5. By the Sound

6. Six Feet Down

7. Silhouettes

8. Guiding Light

9. Hate Me

10. Better Way Out

Il brano di apertura si chiama Believe e ci introduce violentemente all’interno del genere dominante di Reflections, forse non abbastanza amato dai puristi del genere metal ma certamente energizzante per coloro che sanno apprezzare sonorità moderne come queste.

La seconda traccia è molto più pop della precedente e vede la partecipazione di Telle Smith dei The Word Alive. Il titolo è More Than Misery e nelle grida del ritornello percepiamo appieno il sentimento descritto dal testo. Esso parla infatti della sensazione del trovarsi ipnotizzati da qualcuno o qualcosa che però, col tempo, ci condurrà verso abitudini dannose per la salute fisica e mentale. Il sound rock tendente al pop-punk ricorda quello tipico di artisti moderni e noti a livello internazionale, come la band australiana 5 Seconds of Summer e/o il cantautore britannico Yungblud.

Si procede con In The Silence, caratterizzata da fantastici riff di chitarra ma manchevole di quel tocco necessario ed imprescindibile di individualità. Quest’ultima non manca nella quarta traccia dal titolo Too Late, dove sono presenti elementi elettronici capaci di far decollare il pezzo e di renderlo inedito rispetto ad altre canzoni già sentite.

Un brano di questo album che definisco coinvolgente ed emozionante è Guiding Light. Sebbene anche qua non veniamo posti di fronte ad alcuna novità musicale, il testo tratta di un relazione finita (non si capisce se fosse di natura amorosa o meno). All’interno di questo pezzo, il cantante Matt Flood riesce a trasmettere tutto il suo strazio causato dalla perdita della sua “luce che lo guida”. Si tratta della perdita di un punto di riferimento importante a cui lui urla tutto il suo dolore.

“Help me, I keep drowning, I need a savior

help me, I scream but no one ever hears my voice”

“If I sold myself a lie,

would you be my guiding light?”

In conclusione, Reflections è un album tutto sommato piacevole, che scorre bene. Tuttavia, per essere definito vincente necessiterebbe di maggiore originalità e singolarità. È un disco caratterizzato da un sound indubbiamente fresco e moderno, facilmente apprezzabile da parte dei fans più giovani, un po’ meno da chi all’interno di questo genere naviga già da qualche anno.

Chissà se in futuro i Caskets ci riserveranno delle sorprese, nel frattempo ascolta Reflections su Spotify.

Voto: 7/10

/ 5
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Teenage Wrist: la catarsi emotiva di “Still Love”

  • Teenage Wrist – Still Love
  • 4 Agosto 2023
  • ℗ Epitaph Records

Teenage Wrist è il nome della alt rock band californiana formatasi nel 2014 e attualmente composta dai membri Anthony Salazar (batteria) e Marshall Gallagher (voce, chitarra e basso).

Il 4 agosto – dopo il debutto con Chrome Neon Jesus e la pubblicazione del successivo album Earth Is a Black Hole – il duo torna con il nuovo progetto discografico prodotto da Epitaph Records dal titolo Still Love. Esso rappresenta l’apice degli ultimi nove anni della carriera della coppia, che mostra buona capacità di evolvere continuamente il proprio sound così come un’evidente abilità di esecuzione dei pezzi.

Tracklist:

  1. Sunshine
  2. Dark Sky (feat. SA Martinez)
  3. Still Love (feat. Softcult)
  4. Digital Self
  5. Something Good
  6. Wax Poetic (feat. Sister Void)
  7. Diorama
  8. Cold Case
  9. Cigarette Two-Step (feat. David Marion)
  10. Humbug (feat. Heavenward)
  11. Sprawled
  12. Paloma a.k.a. Ketamine

Dal rifiuto all’accettazione di se stessi: qual è il fulcro di Still Love?

La band di Los Angeles non propone nulla che non sia già stato sentito e degustato negli ultimi trent’anni, rimestando tra sentimenti che vanno da un senso di rabbia esplosivo – enfatizzato da un suono hardcore capace di spazzare via tutto – fino ad arrivare a sfiorare la delicatezza del dolore interiore. È il sound che ha caratterizzato la musica rock prodotta dalla seconda metà degli anni Novanta in poi, ma rivisitato in chiave moderna. Sicuramente il disagio provato e trasmesso dai Teenage Wrist in questi brani non è lo stesso che caratterizzava gli artisti di quegli anni, ma è pur sempre presente, incastonato negli energici giri di chitarra, adattato ad un altro contesto e ad un diverso periodo storico.

Il cantante, chitarrista e bassista Marshall Gallagher spiega: “Dopo il Covid mi trovavo in un momento piuttosto buio (come la maggior parte delle persone) e stavo iniziando a mettere insieme cose di me stesso che era difficile affrontare; ad esempio, perché mi porto dietro così tanta vergogna e senso di colpa e come la manifestazione di queste cose stesse letteralmente danneggiando me e gli altri.  È incredibile come mettere i pensieri su carta possa aiutare a dare un senso alle proprie emozioni. Scrivere questi testi è stata una sorta di porta d’accesso al perdono di me stesso – per i grandi errori, per non essere all’altezza delle aspettative, per essere un tornado di merda di una persona che sta imparando a vivere.  Inoltre, stavo ascoltando troppi Sunny Day Real Estate e sono sicuro che questo mi è passato attraverso”.

Con questa premessa si evince che, nonostante i fans storici della band – amanti delle chitarre distorte tipiche di Earth is a Black Hole del 2021 – possano maggiormente apprezzare la curatissima produzione dell’album, Still Love racchiude 12 testi che vanno a comporre tracce di una sensibilità unica. È proprio quest’ultima che dimostra la crescita emotiva che i Teenage Wrist hanno affrontato nel corso della loro carriera. In questo disco la esplicitano affrontando il tema dell’imparare ad amare se stessi.

La title track è il manifesto di questo album e di questo concetto. Il titolo è omonimo a quello del disco e vede la partecipazione della band canadese Softcult.

Il tema centrale è quello della mascolinità tossica, causa di disprezzo verso se stessi. Sopra a chitarre sfocate e svettanti armonie si staglia un testo crudo, diretto, a tratti volgare ma necessario. Un sentimento d’odio nei confronti di se stessi dichiarato dall’inizio alla fine della canzone, la quale si chiude con una frase che manifesta un briciolo di compassione verso la propria condizione: “If we’d learned to love ourselves maybe we could have loved each other”.

Amore per se stessi ma anche amore per la nostra Madre Terra. Dark Sky affronta il tema dell’inquinamento e del cambiamento climatico, causa di frustrazione – comunicata dalle chitarre scricchiolanti – ma anche di profondo rammarico verso un mondo che da sempre rappresenta la nostra dimora e che noi esseri umani stiamo distruggendo con le nostre stesse mani.

Questo disco somiglia ad un rimprovero verso se stessi, che può divenire insegnamento se interpretato in maniera costruttiva. La negatività NON ha la meglio. Ce lo dice anche la copertina.

Teenage Wrist

La foto di copertina dell’album somiglia ad un’opera d’arte surrealista, in cui elementi poco coerenti tra loro vengono miscelati istituendo un quadro psichedelico. I fans più affezionati sapranno che è lo stile estetico tipico del duo, ripreso anche nel videoclip della settima traccia: Diorama. Ciò che colpisce l’occhio è l’arcobaleno centrale che si staglia verso il cielo con una forza tale da riuscire a bucarlo ed oltrepassarlo. Esso è un soggetto che veicola un messaggio di fiducia e ottimismo: nonostante la presenza di quel disagio interiore nominato qualche paragrafo più su, c’è sempre la possibilità di ascendere verso una condizione migliore.

Insomma, se il loro precedente album attraverso il titolo Earth is a Black Hole (la Terra è un buco nero) faceva pensare ad una mancanza di speranza verso un futuro migliore, Teenage Wrist ci comunica che forse, invece, in fondo a questo buco nero possiamo trovare una piccola fiammella.

Voto: 8/10

/ 5
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Georgia: la recensione di “Euphoric”

  • Georgia – Euphoric
  • 28 Luglio 2023
  • ℗ 2023 Domino Recording Co Ltd

A tre anni e mezzo dalla pubblicazione del suo ultimo album Seeking Thrills, la cantautrice e produttrice inglese Georgia torna con il nuovo progetto discografico dal nome Euphoric.

Dopo il debutto con l’album omonimo nel 2015, Georgia si è conquistata la sua fetta di fans nel 2020 con la pubblicazione dell’album precedentemente citato e andando in tournée con HAIM e Carly Rae Jepsen. Dal punto di vista sonoro, la tecnica di registrazione di Seeking Thrills è stata talmente studiata nei minimi dettagli da rendere il risultato finale certamente vincente, ma manchevole di quella spontaneità da performer, nonché indice di una marcata personalità.

La situazione si evolve (ma non troppo) con Euphoric, reso disponibile in versione fisica e digitale lo scorso 28 luglio. Il destino ha voluto che il noto produttore Rostam le abbia scritto un messaggio dopo averla sentita sul brano di Mura Masa intitolato Live Like We’re Dancing. Il giorno dopo ella era già in volo per Los Angeles pronta a dar vita al suo primo LP registrato in studio, dopo i due precedenti scritti e composti nei tre metri quadri della sua camera da letto.

Georgia descrive questo album come un’avventura fuori dall’ordinario. “Essendo una musicista che si autoproduce è facile rimanere bloccati su una cosa o in un posto” afferma la cantautrice del Regno Unito. Dunque, in California trova un nuovo spazio fisico ed emotivo in cui dare voce ai suoi pensieri e alle sue sensazioni, imparando a non pretendere di avere il controllo su tutto. “Lasciar andare” sembra la parola d’ordine di questo disco, o come dice la stessa Georgia “una resa ai miei problemi, al mio passato, ai miei difetti e al processo di guarigione”.

Il viaggio l’ha aiutata ad “affrontare molti aspetti della vita” e questo risuona sulle note delle 10 tracce che costituiscono questo album. Qua è racchiusa una voglia di libertà che la cantautrice cerca di catturare nei testi, scaturita dall’abbandono del passato abitudinario – fatto di eventi anche profondamente dolorosi come la perdita di un suo caro amico – e dall’ampliamento degli orizzonti. Si tratta di un’epifania personale per la quale lei si mostra ottimista, impaziente di lanciarsi verso nuove peripezie.

Ella è profondamente rimasta colpita dall’amore raccontato in It’s Euphoric, dove ripete all’infinito “it’s euphoric when you’re standing next to me”.

Farfalle nello stomaco che la donna prova per mezzo di un innamoramento, ma si sa che non tutte le storie d’amore hanno un lieto fine. Georgia impara che l’amore è fatto anche di incertezza come spiega in Some Things You’ll Never Know. Qua cita “it’s never that easy / I’m trapped in the walls of my anxiety / oh, I wanna know what you think about us / I wanna know if our future’s star crossed”. Insomma, l’amore è fatto anche di strazio e patimento. Lo esplicita in So What, dove si chiede “so what if it hurts? I’ll still do it again”. Non importa se fa male, continuerò a farlo. Continuerò ad amare e a soffrire a causa di questo sentimento che è fonte di tanta euforia ma anche di indomabile tormento.

Seppur il cuore non manchi, nei testi di Euphoric sembra venir meno un pizzico di azzardo. Dal punto di vista della scrittura, Georgia sembra esitare nella paura di raccontare troppo di sé e dunque si allontana da una qualsiasi grande rivelazione.

Tuttavia, le canzoni dell’album traggono forza dalla produzione. Gli elementi vincenti di pezzi come Give It Up For Love e All Night sono le sonorità tipiche degli anni ’90 e i ritmi digitali. Il sequencing onirico e sognante di Keep On genera una sensazione di leggerezza; si ha l’impressione di volteggiare in un tornado di pensieri, impulsi, stati d’animo mixati. A tal proposito è doveroso far riferimento anche alla copertina del disco.

Georgia

Un primo piano della cantante che appare quasi fluttuante. Infatti la testa sembra quasi staccata dal resto del corpo poiché circondata da polveri colorate che offuscano lo sfondo e gran parte del collo. Colori che – metaforicamente parlando – rappresentano stati d’animo differenti e avvolgono la testa dell’artista, fonte di creazione di idee e pensieri. Gli occhi della donna guardano di fronte a sé con espressione confusa, pensosa ma al tempo stesso incuriosita.

Insomma c’è voglia di esplorare e di esplorarsi, senza guardarsi alle spalle. Stavolta non so se Georgia ci sia riuscita nel migliore dei modi, tuttavia è chiaro che questo sia un disco dedicato al superamento del passato. Speriamo, attraverso progetti futuri, di imparare qualcosa di più sulla nuova visione del mondo della Georgia del presente.

Voto: 6.5/10

/ 5
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Glaive: la recensione di “I care so much that I don’t care at all”

  • Glaive – I care so much that I don’t care at all
  • 14 Luglio 2023
  • ℗ Interscope Records

I care so much that I don’t care at all è il titolo dell’album di debutto del cantautore e produttore diciottenne Ash Blue Gutierrez, in arte Glaive.

Nel 2020, nel bel mezzo della pandemia, il giovane all’ora quindicenne si è trovato costretto in casa a fare i conti con se stesso. È nella sua camera da letto che ha cominciato a scrivere e comporre musica con l’aiuto di amici conosciuti su Internet, dando vita a ballad come la fragile Astrad ma anche ad EP densi di significato come All Dogs Go To Heaven e Then I’ll Be Happy, entrambi pubblicati nel 2021.

Tuttavia, il suo album d’esordio I care so much that I don’t care at all – uscito lo scorso 14 luglio – rappresenta il suo più grande progetto fino ad ora, che non è affatto poco contando la sua giovane età e il suo debutto avvenuto durante un periodo globalmente ben poco felice. Si tratta di un progetto composto da 13 tracce che oscillano costantemente su un asse in bilico tra pessimismo e ottimismo, toccando tematiche varie ma unite da un unico filo conduttore: tutte, infatti, competono l’età adolescenziale.

Glaive ci accompagna in un viaggio alla scoperta di sé. Un adolescente profondamente sensibile che si trova a fare i conti con la vita, compagna di mille avventure ma anche causa di numerosi pensieri intrusivi, demoralizzanti, che rendono il pellegrinaggio a dir poco massacrante.

Lo sentiamo già nella traccia di apertura dal titolo Oh are you bipolar one or two? dove il giovane cantautore statunitense scrive una lettera d’addio alla famiglia e agli amici, facendo comprendere senza mezzi termini di avere cattive intenzioni. Il tema del suicidio è uno degli argomenti dominanti dell’album in questione, umanamente difficile da trattare ma del quale Glaive non si fa problemi a parlare.

Nelle tracce successive capiamo da cosa scaturisce questo sentimento estremamente pessimista nei confronti dell’esistenza: rapporto burrascoso col padre, dal quale prendono vita anche tutti i successivi legami tossici che il ragazzo intraprende nella sua vita e che ci racconta all’interno del disco.

Lo capiamo grazie a Pardee urgent care, quarta traccia dell’album dove Glaive dice “you’re perfect / you never make me feel like I’m a burden / you told me I should k*ll myself / with pills that stay atop my shelf”. Messaggio controverso e contrastante se si pensa che il giovane descriva il padre come “perfetto”, dicendo che non lo ha mai fatto sentire un peso per la famiglia, per poi raccontare subito dopo di avergli intimato di fare la cosa più negativa che un genitore possa augurare al proprio figlio. “I deserve it” continua a dire il ragazzo, autoconvincendosi di essere degno di quel destino che una figura tanto importante quanto autoritaria per lui gli ha fatto credere di meritare.

I care so much that I don’t care at all ci porta su e giù proprio come una montagna russa. Dopo aver espresso la sua negatività nei confronti dell’umanità e del mondo che lo circonda, Glaive ritrova un briciolo di speranza nel pezzo che dà il titolo all’album, nonché sesta traccia incaricata di tagliare a metà il racconto. Qui, dopo aver vissuto i primi amori e le prime delusioni, il cantautore ringrazia Dio per non aver compiuto il gesto estremo di cui parla nella canzone di apertura al disco.

Consapevole che la vita è composta da gioie e dolori, da vittorie e sconfitte, in Ive made worse mistake cita “of course you’ll do some things you wish you never did” continuando con “but if you’ve never died, then you’ve never lived”. Il tema della morte torna sotto una luce più favorevole rispetto a prima, infatti Glaive sembra dirci proprio di cogliere l’attimo e di vivere senza la paura di sbagliare. Se non esistesse il buio non esisterebbe nemmeno la luce, se non esistesse la morte non esisterebbe nemmeno la vita.

Due facce della stessa medaglia che, come anticipato, si alternano costantemente. Ecco che infatti la montagna russa che stava arrancando in salita sfreccia vertiginosamente giù verso una ripida discesa che conduce il ragazzo verso quell’abitudinario vortice di improduttività. In The prom racconta di non essersi presentato al ballo di fine anno. Dalla sua penna escono parole che raccontano le vicende immaginarie (poiché avvenute solo nella sua testa) di quella festa, dove tutti sono felici e non si chiedono nemmeno dove egli sia. “I wasn’t there and y’all didn’t care” dice Glaive e poi continua “I told you that I don’t mind it / The look on my face said I’m lying”.

I care so much that I don’t care at all è la storia di vita di un adolescente che forse – un po’ più impavido di tutti i suoi coetanei – ha avuto il coraggio di manifestare quei pensieri che caratterizzano anche “gli anni più belli”. O almeno questo è ciò che dicono gli adulti.

Glaive dà voce alla sua generazione attraverso un disco che suona come un viaggio in mare aperto, talvolta calmo e accogliente, talvolta in tempesta. Un mare imprevedibile come la vita del cantautore che al momento trova difficoltà a domare, ma della quale un giorno riuscirà a trovare un senso.

Egli promette: “one day, I’ll be the king of something”.

Voto: 9/10

/ 5
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Arctic Monkeys: la recensione di “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”

  • Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not
  • 29 Gennaio 2006
  • ℗ Domino Recording Co Ltd986 A&M Records

A maggio 2005 quattro ragazzini di Sheffield si ritrovarono sbattuti sulla copertina del mensile di musica più importante del Regno Unito, l’NME. Con alle spalle soltanto una piccola raccolta di demo, la band rock britannica Arctic Monkeys formata da Alex Turner, Jamie Cook, Matt Helders, Nick O’Malley e Andy Nicholson – il quale lasciò il gruppo l’anno successivo – capì di avere qualche speranza di emergere in mezzo ai numerosi gruppi compatrioti del periodo.

Fu così che nell’estate del 2005 la band firmò con la casa discografica indipendente Domino Records, che l’anno successivo pubblicò il loro primo vero album dal titolo Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not. Il successo ottenuto fu senza precedenti sia per il numero di copie vendute in Gran Bretagna (364.000 solo nella prima settimana), sia per lo stupore che destò quando si scoprì che una band così poco navigata nell’industria di quegli anni superò record detenuti da gruppi ben più esperti, uno fra tanti gli Oasis.

Il filo conduttore delle 13 tracce che compongono l’album è rappresentato dall’arroganza e dalla fierezza con cui Turner canta i testi. Niente morale, solo grandi dosi di sarcasmo e titoli schietti, elementi che arrivano diretti a quel pubblico che da sempre ama le provocazioni di chi non ha paura di parlare di ciò di cui non è consueto parlare. Ovviamente per il Regno Unito non c’erano novità nel genere proposto dagli Arctic Monkeys, ma la loro carta vincente fu la capacità di cogliere e accogliere le necessità della loro generazione traslandole in musica rock grintosa, attraverso cui potersi esprimere urlando a squarciagola i testi ribelli e vincenti.

Il brano d’apertura s’intitola The View From the Afternoon. Qua troviamo Turner che dice “I want to see all of the things that we’ve already seen”, per poi introdurre – nelle canzoni successive – personaggi che conducono vite insolite ed incasinate: poliziotti insoddisfatti del proprio lavoro che si sfogano su minorenni ubriachi, risse nate prima di entrare in un club, buttafuori violenti. Il tutto va a dare vita ad un concept-album incentrato su squarci di vita notturna dei giovani clubber dell’Inghilterra del nord tra alcool, aneddoti da pista da ballo, riti sociali e voglia di uscire dagli schemi. L’obiettivo dei personaggi del frontman, però, non è scappare da quella metropoli che li devasta ma è restare vivi in mezzo al caos.

Ciò che trasmette all’ascoltatore quella sensazione di imprevedibilità e di potente emotività non sono solo i testi espliciti, ma anche gli arrangiamenti mutevoli, scostanti, bizzarri proprio come le squilibrate avventure notturne vissute da quei personaggi che prendono vita canzone dopo canzone.

La seconda parte del disco viene introdotta da Riot Van. Alla violenza dei testi e all’arroganza delle chitarre –  che fino ad ora hanno dato vita a tracce esplosive come I Bet You Look Good On The Dancefloor – si unisce un velo di drammaticità, mischiato ad un pizzico di romanticismo. Lo sentiamo in Red Light Indicates Doors Are Secured, ma anche in When the Sun Goes Down dove viene raccontata nel dettaglio la vita delle prostitute di provincia e dello sfruttamento subito.

“He told Roxanne to put on her red light / It’s all infected, but he’ll be all right” canta Alex Turner con un tocco di tenerezza per la condizione amara della donna, che come tutti i suoi personaggi cerca solamente di rimanere in equilibrio su quel terreno al momento impervio, nella speranza di sopravvivere.

Gli Arctic Monkeys riassumono tutto quello che è stato ritratto fino ad ora – come un vero e proprio dipinto – nella lunga e conclusiva A Certain Romance. In Turner convivono sentimenti contrastanti: attrazione e ribrezzo, simpatia e pena per la vita che conducono i suoi controversi protagonisti di Sheffield. Si tende a romanticizzare certi vissuti, almeno fin quando non sono nostri, ma il cantante della band britannica ci dice chiaramente “The point’s that there isn’t no romance around there”. Non c’è romanticismo al termine di questa bella ma cruda narrazione di vita, però siamo ancora vivi e questo ci basta per sapere che vale la pena tirare avanti.

Diciassette anni e sei dischi dopo, gli Arctic Monkeys non sono solo una band di successo ma sono una di quelle band che la storia l’ha scritta con pennarello indelebile ovunque fosse possibile farlo: sulle classifiche, sui palchi di tutto il mondo, nelle menti e nei cuori di quegli adolescenti divenuti ormai uomini e donne. Tutto questo è avvenuto grazie alla lealtà verso quel sound che gli ha permesso di scalare le vette ma, soprattutto, per l’assenza di paura nel rimanere freschi, al passo coi tempi, mettendo in atto cambiamenti che conferiscono loro quel tocco di innovatività ma rimanendo pur sempre fedeli a loro stessi.

Voto: 9.5/10

/ 5
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Janet Jackson: la recensione di “Control”

  • Janet Jackson – Control
  • 4 Febbraio 1986
  • ℗ 1986 A&M Records

Control è il nome dell’album che nel 1986 permise a Janet Jackson, sorella minore di Michael Jackson e ultimogenita della famiglia, di farsi largo nel mondo della musica.

Cantautrice, ballerina, compositrice e persino attrice, Janet è una donna da mille talenti e proprio per mezzo delle sue qualità – grazie agli album Rhythm Nation 1814, Janet, The Velvet Rope e All for You – ha ottenuto grande successo a livello mondiale negli anni ’80 e ’90, divenendo figura di spicco per il suo stile provocatorio, gli show innovativi così come i videoclip, ma soprattutto grazie agli alti numeri di vendita: più di 100 milioni di dischi venduti nei suoi trent’anni di carriera, dagli anni ’80 fino a quelli più recenti del 2000.

Il fulcro di Control è il potente desiderio di indipendenza della cantante statunitense, espresso attraverso sonorità dance-pop distribuite in 9 tracce prodotte da Jimmy Jam e Terry Lewis.

Janet Jackson

La prima porta il nome dell’intero disco ed è il riassunto di tutto ciò che è racchiuso nell’album, sia per il sound che per il tema centrale. Il “controllo” è una dichiarazione di voglia di indipendenza che la cantante urla al mondo esterno, dove lo stile canoro e i bassi rimandano in parte a quello che era anche lo stile del fratello Michael. “Questa è una storia di controllo” dice Janet Jackson nell’intro, per poi sottolineare “del MIO controllo”.

Il disco procede con Nasty, seconda traccia che si apre con la frase “gimme a beat” ed introduce uno stile aggressivo, provocante, attraente. “Il mio nome non è piccola / è Janet / Miss Jackson se sei cattivo” frase che ritrae la cantautrice come una donna richiedente rispetto, ma che al tempo stesso si diverte a giocare a fare la cattiva, purché sottostando alle sue condizioni.

What Have You Done For Me Lately è il primo singolo estratto dall’album. Il ritmo coinvolge e trascina dentro l’ascoltatore, il modo di cantare di Janet appare sicuro e mai titubante. Insomma, nonostante il pezzo sia stato un’aggiunta tardiva, basta ascoltarlo una prima volta per capire il motivo di tanto successo. È certamente stata una decisione vincente.

La quarta è una delle due tracce che non fu pubblicata come singolo e porta il nome di You Can Be Mine. Il sound funky ricorda quello tipico di Prince, sopra il quale la Jackson canta con maggiore dolcezza rispetto alle tre canzoni precedenti ma pur sempre rivendicando la sua posizione di potere. “Puoi essere mio” dice la cantante, ma impone una condizione: “se fai il bravo”.

In The Pleasure Principle, Janet Jackson abbandona il suo amato spiegandogli che deve andarsene poiché ha realizzato che ciò che lei considerava essere vera felicità in realtà era solo un modo per dare sfogo al suo piacere. Seppur in maniera velata, anche qua c’è un gran richiamo al concetto di controllo. Janet scappa nel momento in cui si rende conto di star perdendo le staffe, di non riuscire più a controllare quella relazione e quindi mette in atto una fuga in taxi che la illude di avere potere decisionale, di star controllando le sue azioni ma soprattutto i suoi sentimenti.

Il sentimento di amore travolgente che si era fatto spazio nella traccia precedente prende piede in When I Think Of You, dove la Jackson dimostra che anche le donne indipendenti a volte si perdono per amore, un sentimento troppo forte da contrastare. È un brano pop esuberante, con una chitarra funky e una voce sognante che enfatizza la sensazione da “farfalle nello stomaco” tipica dell’innamoramento.

He Doesn’t Even Know I’m Alive è la canzone più sbagliata del disco. Su una dolce melodia dance è stato scritto un testo che parla di una ragazza timida alle prese con la sua cotta adolescenziale. Al contrario di tutte le altre tracce in cui si parla di forza femminile e voglia di controllo, qua fuoriesce la figura di una ragazzina che non sa affrontare il suo amore poiché i suoi sentimenti sono talmente potenti che diventano difficili da gestire. Niente aggressività, solo un senso di tenerezza.

Janet Jackson, canzone dopo canzone, raggiunge un grado di consapevolezza sempre più alto che quasi culmina in Let’s Wait A While. Qui dice “c’è qualcosa che vorrei dirti” e continua “non è che non voglio amarti, è che voglio andarci piano”. In questa emozionante ballad fuoriesce il pieno controllo di se stessa, della donna che è, ma costruito attorno ad una dolcezza e ad una vulnerabilità disarmanti. La cantautrice capisce che può controllare ciò che la circonda e ciò che prova mostrando anche il suo lato più sensibile.

Questo primo album di successo della Jackson si chiude con Funny How Time Flies (When You’re Having Fun), il pezzo più sensuale del disco. Se fino a qualche canzone fa non vedeva l’ora di scappare da quel vortice di sentimenti che non era in grado di controllare, adesso la cantante si ritrova costretta ad andarsene dopo una lunga notte passata col suo amato. “Come vola il tempo quando ci si diverte” dice mentre controvoglia deve lasciare il suo letto. Un letto in cui vive quell’amore che un tempo la spaventava ma del quale, adesso, sente di avere pieno controllo.

Che poi diciamoci la verità: non si può avere pieno controllo di un sentimento tanto bello quanto travolgente, ma forse è stato proprio attraverso la crescita emotiva vissuta in Control che Janet Jackson ha capito che è giusto anche che sia così.

Voto: 9.5/10

/ 5
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Grouplove: la recensione di “I want it all right now”

  • Grouplove – I Want It All Right Now
  • 7 Luglio 2023
  • ℗ Glassnote Records

La indie-rock band Grouplove torna sotto le luci della ribalta con il nuovo album I Want It All Right Now, uscito lo scorso 7 luglio 2023 a poco più di un anno dalla pubblicazione di This Is This.

La band californiana –  formata dai lead-vocalists marito e moglie Christian Zucconi e Hannah Hooper e dai musicisti Sean Gadd (basso), Andrew Wessen (chitarra), Ryan Rabin (batteria) – in collaborazione con il produttore John Congleton ha messo al mondo un progetto che decanta quella guerra interiore scatenata dal desiderio innato in ogni essere umano di esprimere la propria individualità nel contesto moderno.

Nel 2011 avevano dichiarato che non dovremmo mai fidarci di una canzone felice, come suggeriva il titolo del loro album Never Trust a Happy Song, ma ciò che dimostra la loro musica è ben altro. Infatti, il loro punto di forza sono proprio i ritornelli di forte impatto, che si innalzano con un coro di voci registrate in una maniera che è in grado di conferire alle canzoni una sensazione vitale. Come quando guidi in autostrada con i finestrini abbassati e senti il vento in faccia e i capelli scompigliati, penso che questa sia la metafora più coerente e vicina all’emozione che trasmettono i loro brani. Sarà stata proprio questa caratteristica a rendere i Grouplove i candidati perfetti per aprire i concerti di P!nk negli stadi.

Torniamo a noi. Questa forte energia vitale di cui abbiamo appena parlato si sprigiona anche in I Want It All Right Now ma il risultato è che al termine dell’ascolto assaporeremo un retrogusto dolceamaro, provocato dalla contrapposizione fra le melodie esplosive e i testi introspettivi, che richiamano un certo sentimento di malinconia.

Grouplove

Il sesto album del gruppo statunitense si apre con i versi lenti di All, i cui temi centrali sono l’isolamento e il conseguente desiderio di fuoriuscire da questa condizione. Zucconi e Hooper cantano “I wanna have a good time, wanna be fine wine/I want it all right now” citando immediatamente il titolo del disco e decantando la voglia di provare quella spensieratezza che tutti al mondo – se lo desideriamo davvero – possiamo raggiungere. Ogni singolo essere umano sulla faccia della Terra può “have it all”. Il pezzo si conclude con il verso cantato da Zucconi che cita “I wanna take a long ride with you by my side/I wanna be alright now”, riferendosi alla sua famiglia, tutto ciò a cui si aggrappa e che rappresenta il suo senso di gioia di continuare a vivere.

L’album è stato anticipato dai singoli Hello e Cheese, entrambi pezzi che affrontano i temi dell’isolamento sociale e della mancanza di appagamento. La differenza è che il primo lo fa attraverso un pop audace che ci guarda in faccia senza timore. Infatti senza troppi giri di parole ci comunica “hey, hello, I need to see a smile”, che tradotto in italiano significa “hey, ciao, ho bisogno di vedere un sorriso”. Il secondo invece sembra aver preso in prestito la melodia da band come i Pixies e The Flaming  Lips, un sound anni ‘90 dove lento/veloce e dolce/rumoroso si spalleggiano a vicenda dando vita ad un canzone che veicola un avvertimento ben preciso: se diamo retta ai pensieri intrusivi che fluttuano nella nostra mente rischiamo di diventare i peggiori nemici di noi stessi.

Si arriva al termine di questo percorso introspettivo dove capiamo cosa è che ci può salvare da ciò che ci opprime: l’amore. I Grouplove lo esprimono in particolar modo in Eyes, dove è l’amore che aiuta a scacciare i brutti pensieri, che ci permette di scrollarci di dosso tutto ciò che percepiamo come “cloudy and grey”, nuvoloso e grigio. Il tema amoroso lo troviamo misto ad un sentimento rabbioso anche nell’undicesima ed ultima traccia intitolata Wall, in cui Zucconi si dichiara stanco di tutto quello che di marcio ruota attorno all’industria discografica e quindi canta “rock and roll, no, you won’t save me”.

Ma ha la meglio la consapevolezza della potenza del mezzo musicale, in grado di donarci quel senso di comunità e di connessione umana che pochi altri mezzi sono capaci di regalarci. Per questo motivo finisce cantando “promise me that we will never let life beat us down”, ovvero “promettimi che non lasceremo che la vita ci mandi a tappeto”.

I Want It All Right Now è un disco brutalmente onesto, trasparente, che scava a fondo e traccia un percorso di resistenza e resilienza contro le pressioni della vita quotidiana.

Voto: 8.5/10

/ 5
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PVRIS: la recensione di “Evergreen”

  • PVRIS – Evergreen
  • 14 Luglio 2023
  • ℗ Hopeless Records

È stato pubblicato lo scorso 14 luglio il disco dal nome Evergreen, quarto album in studio di PVRIS che torna a soddisfare il suo pubblico dopo il debutto con White Noise e la prosecuzione con All We Know of Heaven, All We Need of Hell e Use Me.

PVRIS (da leggere Paris) nasce come il nome di un gruppo musicale statunitense formatosi nel 2012 ma scioltosi nel corso degli anni per svariati e controversi motivi, divenendo successivamente il nome d’arte di un’artista solista: Lyndsey Gunnulfsen, detta più brevemente Lynn Gunn. Lei, artista a tutto tondo, è una cantautrice, produttrice e polistrumentista capace di inglobare nel suo sound elementi di musica elettronica dall’atmosfera sognante, pop e rock dark. Insomma un mix di generi che danno vita ad un progetto di uno spessore e di una maturità tangibili.

Come dice il titolo stesso del progetto, Evergreen è stato definito dalla stessa cantautrice come un album destinato a durare nel tempo, incapace di rispettare limiti di qualsiasi tipologia. L’intenzione di Lynn Gunn è stata quella di creare un album costruito sul concetto di costante rinnovamento, ma soprattutto durevolezza, un tema un po’ atipico se si pensa alla società attuale dove tutto risulta estremamente rapido e istantaneo, destinato a sopravvivere non più dei secondi che segnano la durata di una storia di Instagram. La cantante combatte questa concezione della realtà dimostrando un finissimo talento nella produzione delle basi e dando vita ad un disco formato da 11 tracce in grado di parlare ad un pubblico composto da nonni nostalgici e da giovani affamati di modernità.

L’album è stato anticipato dal singolo Goddess, pezzo che racchiude una serie di stati d’animo diversi, ma pur sempre in comunicazione tra loro: rabbia che si trasforma in sete di potere, emancipazione femminile ma soprattutto desiderio di autonomia. Questi sentimenti di rivendicazione femminile li troviamo anche in altri due singoli intitolati rispettivamente Animal e Anywhere But Here ma – mentre il primo li racconta attraverso un sound rock rivisitato in chiave moderna – il secondo si addolcisce e si chiude con le preghiere della Gunn per la prosperità di un nuovo inizio.

Il tema della femminilità, ma soprattutto della fiducia in se stesse (per le giovani donne) si percepisce in maniera potente in ogni pezzo che compone l’album, anche in quelli dove non è esplicitato chiaramente poiché fa comunque da sfondo. Lynn Gunn non ha paura di far sentire la sua voce, non ha paura di mostrarsi forte e al contempo vulnerabile, non ha paura di toccare temi che da certi critici possono essere definiti anche un poco “provocatori”.

Accade in Love is a…, decima traccia di Evergreen ispirata dalla frase francese “la petite mort”, il cui significato sta ad indicare in senso metaforico il cambiamento dello stato di coscienza femminile causato dal post orgasmo, sensazione che PVRIS esplora e spiega senza pudore all’interno del pezzo in questione. Lo fa mettendo in comunicazione col tema principale vari aspetti della religione e della cultura pop citando “like a virgin, a Madonna”, riferimento sia alla Vergine Maria che alla hit del 1984 di Veronica Ciccone, in arte Madonna.

Si tratta di riferimenti che seppur velatamente arrivano all’orecchio in maniera immediata ed è difficile non far parlare di sé in casi come questo, che sia sotto una buona o cattiva luce. Si può dire che per il momento PVRIS sta ricevendo un buon riconoscimento e – nonostante Evergreen sia stato reso disponibile in forma fisica e sulle piattaforme digitali solamente da pochi giorni – può essere definito già uno dei migliori album del 2023.

Voto: 9/10

/ 5
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