Blue Rev: la recensione del terzo disco degli Alvvays

Stratificazioni sonore e la bellezza del Dream Pop colorano il terzo disco della band Canadese.

Review

Voto
8.8/10
Overall
8.8/10

Il destino di Molly Rankin era già scritto alla sua nascita. La figlia di John Morris Rankin, della band canadese, The Rankin Family, è nata con la musica nel sangue. La frontwoman degli Alvvays, però si è ben presto allontanata dall’educazione folk che le terre rurali della Nova Scotia le avevano instillato, pur mantenendo un amore speciale per il genere. Dopo una breve carriera da solista, in cui ha pubblicato un solo EP, l’artista delle “terre del nord” fa la sua conoscenza con Alec O’Hanley (attualmente chitarrista del gruppo). Il chitarrista dei Two Hours Traffic sporcherà gli elementi folk e Twee Pop di Molly con indie rock, dream pop e shoegaze. Insomma, gli Alvvays sono un successo non solo prima di Blue Rev, ma addirittura prima di nascere. 

Dopo il successo dei due dischi precedenti “Alvvays” e “Antisocialities”, la band si è trovata nel vortice dei revival musicali che hanno caratterizzato la seconda metà degli anni ’10. A differenza di tanti altri, Rankin e Soci hanno surfato divinamente su quell’onda shoegaze che ha trovato il suo culmine nel corso del 2023. 

Molly e Alec, hanno iniziato a scrivere “Blue Rev” nel corso del 2017, subito dopo Antisocialities, ma una serie di problematiche non di poco conto, quella della pandemia prima fra tutte, hanno ritardato le sessioni di registrazione del disco. Una volta arrivati in studio, affidate le tracce a Shawn Everett (Brittany Howard, The War On Drugs, Beyoncé), il quintetto ha portato Alvvays ad un passo successivo, un nuovo livello di grandezza. Blue Rev entra di diritto nella lista dei più grandi dischi del genere, attraverso un’analisi dettagliata nelle radici di pop e rock. 

Sebbene il disco sia profondamente innovativo, e in questo Everett è stato un maestro, la cosa davvero brillante è la sensazione di familiarità che trasmette, dalla prima all’ultima traccia. 

Blue Rev

Le melodie filtrate esplodono in chitarre ruggenti nella nostalgica apertura. Pharmacist riporta a galla vecchie relazioni finite, tra ricordi e accettazione, non tanto della relazione in sé, quanto dei cambiamenti. Su Easy On Your Own?, gli strati scricchiolanti di Synth, fanno da tappeto perfetto per una Molly che riflette sul modo in cui le scelte influiscano sulle nostre vite come, ad esempio, l’abbandono dell’università per inseguire un sogno. “In quei giorni non ti avrei mai lasciato a pezzi” – canta nella Morisseyiana After The Earthquake, a metà fra punk e morbido indie rock. 

Le atmosfere movimentate si perdono nei riverberi di Tom Verlaine, traccia dedicata al Cantante/chitarrista dei Television. Ritornano con più forza in Pressed, colma di sonorità prese in prestito da Johnny Marr. Tutto il disco si muove ciclicamente fra post-punk, indie rock e Shoegaze, e lo fa dannatamente bene. Many Mirrors si tuffa nell’autostrada dei ricordi, con tastiere scintillanti e sonorità soffici, ricorda i primi Alvvays.

I ricordi pandemici riaffiorano su Very Online Guy. Tra ritmiche sporche e sovrapposizioni vocali, la traccia racconta la vita (in questo caso una frequentazione), filtrata dai pixel, dai followers e dai filtri stessi. Le liriche ironiche esplodono in un turbine di malinconia in Velveteen. “Chi è lei?” / “Perché non posso essere io?” – canta Molly tra assoli squillanti e crescendo di arpeggi sintetizzati nell’ennesima storia andata in frantumi. Eppure le melodie sono così soffici che sembra quasi impossibile riuscire a vedere quei nuvoloni neri, colmi di tristezza che spesso troviamo nei testi. 

Ancora amori, e ancora amori andati male. Tile By Tile si colora di suoni barocchi: dalle chitarre, spogliate di tutti gli effetti, alle orchestrazioni, agli organi che occupano il punto centrale nell’arrangiamento. La band torna con una dose massiccia di irriverenza, nell’energico inno punk Pomeranian Spinster, prima di muoversi su una delle tracce di punta di Blue Rev. Le sonorità anni ’80 sull’intro di Belinda Says sono solo l’apri pista per un arrangiamento impeccabile. Il brano è una ballad nostalgica piena di dubbi e incertezze: “Troverò la mia strada” / “Avrò un bambino” / “Cambierò Città”. Sembrano tutte più domande che affermazioni, in una composizione che cerca di dare un volto al dover crescere.

Bored in Bristol si ripulisce da ogni schizzo di nostalgia, portando il disco verso un attimo di spensieratezza, per spegnere il cervello e non pensare. Dura davvero poco, perché, mentre le dita di Kelly MacLellan toccano dolcemente i tasti del piano elettrico, Molly si affida a Kate Bush, per far fronte alla sua solitudine. La chiusura del disco (Fourth Figure), a metà fra requiem e Baroque Pop, mette il sigillo finale ad uno dei dischi migliori che il 2022 abbia regalato. Il brano dura a malapena un minuto, ma questo non ha impedito agli Alvvays di creare un arrangiamento complesso e magistrale, in cui la spettralità diventa un tutt’uno con la quiete.

/ 5
Grazie per aver votato!
Articolo Precedente

Wallows: La recensione di “Model”

Prossimo Articolo

Wu-Tang Clan: La recensione di Enter The Wu-Tang (36 Chambers)

Latest from Sunday Reviews