- Mercury Rev – Born Horses
- 6 settembre 2024
- ℗ Bella Union
Quando pensi alla neo psichedelia degli ultimi tre decenni non puoi di certo dimenticare i Mercury Rev, che dopo 9 anni sono tornati a far parlare di sé con Born Horses.
Carriera singolare la loro, che diversamente da molti rockers che si sono lanciati nel mondo delle colonne sonore dopo molto tempo (ricordiamo Trent Reznor e Atticus Ross oltreoceano, oppure i Verdena e Andrea Laszlo De Simone in Italia), sono partiti da sperimentazioni cinematografiche a basso costo, per poi diventare una band vera e propria alla fine degli anni ‘80.
C’è un nome importante dietro la loro nascita: Tony Conrad, uno dei maggiori esponenti del minimalismo, annusò le potenzialità della formazione, incoraggiandoli a debuttare come gruppo nel ricco panorama musicale. Dopo gli esordi più ruvidi e psichedelici, Jonathan Donahue e soci hanno toccato vette importanti con Deserter’s Song per poi consolidare la loro personale formula dream rock.
E oggi, parlando del loro nuovo disco, i Mercury Rev hanno citato proprio Tony Conrad tra le influenze. Ma non è tutto, perché hanno raccontato di simpatizzare per la dimensione eterea delle musiche di Blade Runner e di apprezzare lo stile poetico di Patti Smith. Inoltre è la prima volta che Donahue si abbandona al cantar parlato, facendo incontrare la narratività sonora tipica del grande schermo con la poesia.
E quella voce soffice ma incisiva arriva come due ali che si sfregano delicate, come il canto liberatorio di un uccello, eletto ad animale guida/voce interiore (“When I opened my voice to sing on this record, this was the bird that sang. It’s just the bird that wants to sing”).
Questi riferimenti al volo sono centrali nell’album, anche se il cantante si era concentrato sul tema già in altre occasioni (si consiglia l’ascolto di Funny Bird, una perla contenuta nel già citato Deserter’s Song).
A cosa si va incontro, quindi, se ci si imbatte nel nuovo lavoro dei Mercury Rev?
È appunto una colonna sonora in rime divisa in otto tracce e immersa nell’immaginario sognante e lucido che sembra proiettato in un futuro lontano, ma visto con lo sguardo del passato, come guardare Blade Runner, appunto, ma senza visione distopica. Inoltre Born Horses è caratterizzato da tocchi più jazzati rispetto al solito, rendendo omaggio a Chet Baker e Miles Davis, altri due grandi apprezzati dalla band di Buffalo. Si capisce subito, dalle prime note di Mood Swings, con Donahue che sussurra al microfono appoggiandosi ad un jazz fumoso e scivoloso. La tromba si perde tra i delay, come un incontro nel deserto tra gli Arab Strap e la versione rallentata e semplificata degli Ozric Tentacles, un brano che ispira tonalità viola/grigie.
Questi signori sono maestri delle sonorità dreamy. Nel dark-bossanova di You and I c’è un chiaro intervento di chitarra che puntualmente trascina giù l’ascoltatore, facendolo sprofondare nelle pieghe sognanti di un quadretto visionario.
Dove sono le ali? In Your Hammer, My Heart l’interpretazione del cantante pare suggerire all’uccello di spiccare il volo dopo le parole “my heart”, passaggio dopo il quale il brano raggiunge vette di epicità con l’aiuto di fiati, cori ed una scala discendente al pianoforte, come a dire che, se non fosse per la gravità, saremmo già lievitati per la potenza onirica liberata dagli strumenti.
Dopo le sfumature dream-pop ballad di Patterns arriva il brano “più cantato”, A Bird Of No Address, con un’altra analogia sul volo e l’evolversi finale su “fly on”.
Il passaggio più rappresentativo e identitario di questa nuova fase del gruppo lo troviamo con Born Horses, dove emerge la volontà di “fluttuare via dal presente” per recuperare la semplicità del passato (“I had a dream we were born horses/ And not human beings/ With more time to run/ And less time for things”).
Attenzione, perché l’energia sognante ormai è in circolo e viene sprigionata al massimo in Everything I Thought I Had Lost, raggiungendo l’apice dopo ogni “I keep finding again”, momento in cui si può immaginare l’uccello roteare a razzo verso l’alto, attraversando a gran velocità un fascio di luci e suoni (qui non c’è gravità che tenga). È l’unico episodio in cui sembra tornare un certo piglio post rock.
There’s Always Been a Bird In Me è la consacrazione finale colorata di new wave, la consapevolezza di aver avuto le ali da sempre (“There’s always been a bird in me”).
Bentornati Mercury Rev, in volo tra passato e futuro, in perenne sospensione, esplorando i confini tra sogno e realtà, vivendo nel mezzo sdraiati su morbide nuvole sonore.