- Nevermind The Tempo – I Hate My Village
- 17 Maggio 2024
- Locomotiv Records
Ma cosa stiamo ascoltando? Una domanda più che lecita quando si schiaccia play e si inizia ad approcciare al nuovo esperimento del supergruppo composto da componenti di spicco di altre band, come Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle). Ma a questo gli I Hate My Village ci avevano già ampiamente preparato con il loro omonimo d’esordio e con la pura sperimentalità dell’EP “Gibbone”. Insomma, non si può di certo dire che non ci avevano avvertiti, così come è impossibile non ammettere che i fan del math rock non stessero aspettando con trepidazione che il quartetto lombardo/romano sfornasse un nuovo prodotto. Dunque, l’attesa è finita, non resta che godersi il risultato.
L’incipit di “Nevermind The Tempo” è quanto più math acido si potesse chiedere: poliritmie dove la voce deve farsi strada ed incastrarsi in una moltitudine sonora. Iniziamo bene, molto bene.
“Water Tanks” risulta più scanzonata già dal giro iniziale, quasi afrobeat, con rimandi innegabili all’album precedente. Di sicuro il pezzo più “orecchiabile” e semplice dei dieci presentati, ma non per questo banale. È ballabile, nella maniera di Ferrari e soci.
La struttura sonora rimane invariata anche in “Italiapaura”, con un ritmo serrato che anticipa il classico jingle della chitarra. Seppur nella sua brevità (circa due minuti e mezzo) il brano si apre e si chiude di continuo, quasi come un giro su un ottovolante. L’ascoltatore viene quindi sballottolato tra chiusure sonore, ingresso di nuovi strumenti, cambi di ritmo inattesi, che lo trastullano in un trip musicale a tratti assurdo. Tutto questo potrebbe essere racchiuso in una sola parola: perla.
Non c’è un attimo di tregua, nessuna pausa rilassante: “Eno Degrado” porta la sperimentazione a vette molto alte, ma nelle quali i quattro musicisti si muovono con disinvoltura invidiabile. Non c’è nulla di fuori posto o di esagerato, nonostante il caos generato dalla moltitudine di suoni e rumori. Perfetti, inoltre, l’inizio e la chiusura, con un click che anticipa il tempo e un re “battuto” dalla chitarra distorta, un richiamo non troppo lontano dall’inizio “Eulogy” e la chiusura di “Third Eye” dei Tool.
Il mezzo passo falso arriva a metà album, con l’esotica “Mauritania Twist”, dove la voce di Adriano Viterbini (eh si, ha iniziato anche lui a cantare in questo progetto) emula uno strumento e segue la melodia arabeggiante. Il pezzo prosegue con un susseguirsi di traccia/ritornello sicuramente interessanti, ma non al pari del resto dell’opera.
L’hype si rialza subito dopo: la successiva “Erbaccia” parte in modo soffuso con quello che sembra un carillon rotto, per poi aprirsi in suoni industrial in continuo crescendo. Non ci sono particolarità, cambi di tempo o stranezze varie, il pezzo scorre liscio, senza intoppi, ma tremendamente bene.
Se “Jim” ha uno stile di canzone più classico, la strumentale “Dun Dun” potrebbe tranquillamente fungere da colonna sonora di un film: il ritmo tribale fa da tappeto a suoni sospesi, inquietanti e ipnotici, fino a un minuto dal termine della canzone, dove un’improvvisa interruzione e rallentamento del tempo precede il reprise finale, che ripropone la melodia precedente.
La struttura che sembra normale, si trasforma per trenta secondi a metà di “Come una poliziotta”, lasciando spazio a rumori e ad una sorta di beatbox, prima di riprendere il giro iniziale e concludere gli ultimi venti secondi con un richiamo improvvisato del beatbox precedente. Mai come in questo album la band si è divertita.
La ballata finale è la degna chiusura di un’opera immensa come “Nevermind The Tempo”, con una psichedelia di fondo che permea l’intera traccia. Una sorta di brano trip hop sospeso, pronto anch’esso per divenire una soundtrack di un film.
“La differenza principale è che questo disco è nato con la volontà di essere un disco di canzoni e questo ha fatto sì che tutto il processo fosse diverso. Il primo disco era stato concepito per essere strumentale e la voce si è aggiunta solo in un secondo momento. Adesso abbiamo una consapevolezza diversa e abbiamo voluto innanzitutto esplorare la forma canzone” sostiene in un’intervista al Rolling Stone Marco Fasolo. E come dargli torto, il cambio di passo risulta evidente fin da subito.
“La cosa interessante di questo gruppo è che ognuno è fan degli altri e per questo disco qui ci siamo fortemente ispirati a noi stessi”. Forse proprio con queste parole di Viterbini si può spiegare l’evoluzione del sound: da progetto di superband, con artisti provenienti da realtà diverse e parallele, a gruppo musicale vero e proprio, dove ognuno ascolta e completa l’altro. Un passaggio epocale, che sembra solo l’inizio di un percorso duraturo.