Arab Strap: la recensione di “I’m totally fine with it – don’t give a fuck anymore”

Review

Voto
7.7/10
Overall
7.7/10
  • Arab Strap – I’m totally fine with it – don’t give a fuck anymore
  • 10 Maggio 2024
  • Rock Action Records

Alienazione e cyber addiction sono i temi dominanti di I’m totally fine with it – don’t give a fuck anymore, ottavo capitolo discografico del duo scozzese che all’anagrafe musicale compare con il nome Arab Strap. Una volta consolidata la formula electro post-rock con una personale interpretazione lirica e sonora, Aidan Moffat e Malcolm Middleton avevano messo il progetto in stand by a metà degli anni ‘00, per poi tornare sulle scene nel 2021 con una maturità diversa. Dopo 16 anni è arrivato quindi As Days Get Dark, avviando “la fase 2” che oggi prosegue con dodici nuove tracce.

I'm totally fine with this

Partendo dal titolo (che al suo interno ha due emoticon), la band ha rivelato di aver scelto, senza un motivo preciso, un tormentone condiviso scherzosamente tra gli Arab Strap e i loro strumentisti.
Che sia stato per gioco oppure no, “Sono pienamente d’accordo – non mi importerà più niente” (traduzione sobria) è un titolo in cui chiunque può riconoscersi: guardare una foto o un video per pochi secondi sui social network, distrattamente o neanche per intero, dichiarando apprezzamenti sintetici sotto forma di pollici, cuori, ecc. La “rabbia tranquilla” viene sfoderata da Moffat e socio come un’arma per combattere la battaglia a nome dei nativi analogici (e non solo), diventati oggi “costretti digitali”.

È una collera che si insinua nei brani con forza ed è percepibile già con Allatonceness, le cui chitarre martellano insieme alla batteria scavalcando il muro del post-rock. Rimane la parentesi più aggressiva considerando che, come ha precisato Middleton, ci sono «meno chitarre che in qualunque altro nostro lavoro». Quando qui Moffat canta versi come “I want to suck on a stone”, rimbalza potente il disagio sociale e la voglia di recuperare la genuinità dietro a gesti, pensieri e momenti da vivere per ritrovare sì una connessione, ma con i sensi e l’ambiente circostante.

Per il resto, la rabbia espressa dai contenuti è miscelata con una buona dose di beat in Hide You Fires, BlissStrawberry Moon, dove i Depeche Mode incontrano i Radiohead periodo Kid A/Amnesiac, ma l’identità degli Arab Strap è ormai ben definita, per cui sono riferimenti solo indicativi.
Le tinte dream/dark-wave in You’re not there sfumano un paesaggio desolante in cui si ritrovano in solitudine le vittime del cyberbullismo.

Il dark folk di Safe & Well è il momento più minimale con cui il duo affronta la tematica della morte in solitudine (amplificata da una notizia letta durante la pandemia), mentre brani come Dreg Queen sterzano verso l’attitudine dark-tronica dei Puscifer.
L’andamento decadente della prima parte di Molehills è in pieno stile Arab Strap: note malinconiche e voce calma e profonda che alleggerisce (o aumenta, dipende dall’ascoltatore) uno stato d’animo sofferente. Poi un cambio alla Dave Gahan e il finale in crescendo preso in prestito dalla techno.

La connessione dentro la connessione termina con Turn Off The Light, che nel finale trionfa con un’energica apertura post rock da manuale sbriciolandosi negli ultimi secondi insieme a classici suoni di modem, già ascoltati all’inizio di Allatonceness.

Per ogni fenomeno sociale, l’arte è sempre stata uno dei mezzi con cui analizzare ed esprimere il cambiamento, per cui negli ultimi anni sono aumentate le opere musicali, letterarie e cinematografiche che trattano il tema del mondo virtuale, iperconnesso.
Ognuno a suo modo e con la propria sensibilità. Ad esempio Kim Gordon, con The Collective, lo ha fatto con uno sguardo distopico, gli Arab Strap con “rabbia tranquilla”, dimostrando di aver raggiunto una maturità anagrafica che ha giovato anche al processo creativo, confermandosi una delle band più coraggiose e originali del post-rock. 

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