Justice: la recensione di “Hyperdrama”

Review

Voto
7.3/10
Overall
7.3/10
  • Hyperdrama – Justice
  • 26 Aprile 2024
  • Genesis/Because Music

Portatori sani del french touch, estimatori dei Daft Punk, il duo sperimentale prosegue un cammino che va avanti da oltre vent’anni. Il loro sound ampiamente riconoscibile ha subito alcuni cambiamenti negli anni, con il granitico ed entusiasmante esordio, seguito da uno scivolone del secondo “Audio, Video, Disco”, con un disastroso richiamo al progressive anni ’70, fino al ritorno ad un sound più elettronico e dance in “Woman”. Sono questi quindi i loro marchi di fabbrica, così come la croce che non li abbandona mai negli anni. Il duo parigino decide quindi di coniare il tutto in “Hyperdrama”, senza però deludere e riavvicinandosi con cautela ai fasti di “Cross”, non più lontani anni luce. In questa ultima opera, inoltre, non mancano le collaborazioni.

Si parte con Kevin Parker, leader dei Tame Impala, che fa decollare l’album, con la prima scanzonata e danzante “Neverender”. La dance settantiana emerge in tutto il suo splendore.

Justice

Con “Generator” si torna a melodie più familiari: un brano che strizza l’occhio ai due “Phantom” ed a “Genesis” del primo album. Un vero gioiello di quasi cinque minuti.

La soave voce di Rimon spezza il duro ritmo iniziale di “Afterimage”: la traccia prosegue senza bruschi tornanti, in un percorso piacevole ma senza tratti memorabili.

La successiva “One Night/All Night” segue la falsariga iniziale, con i medesimi ospiti, mentre “Dear Alan”, che con i suoi cinque minuti e mezzo è la canzone più lunga di “Hyperdrama”, è l’apice il manifesto del french touch: il jingle televisivo iniziale si apre in un continuo crescendo, fino a maturarsi entro il primo minuto. L’intero pezzo gira intorno a questi suoni, intervallati da bridge sintetici che interrompono la melodia centrale. Si sente che i Justice sono molto ispirati in questo nuovo album.

Questa originalità traspare ancora di più in “Incognito”, dove la partenza eterea lascia brevemente spazio ad un tappeto elettronico che mixa egregiamente synthwave e progressive, toccando vette non lontane dal “disco con la croce”. Perfetta la chiusura soffice, collegata in modo lineare con la successiva “Mannequin Love”, in compagnia degli inglesi The Flints.

L’eco di Brian Eno è inconfondibile in quella che a tutti gli effetti potrebbe essere un intermezzo, ovvero “Moonlight Rendez-Vous”. Sembra quasi un intro della seguente “Explorer”, composta con l’ausilio di Connan Mockasin, in pieno stile cinematografico, come fosse una colonna sonora di un thriller.

Arriva poi un trittico, che andrebbe ascoltato tutto d’un fiato: l’apertura sognante viene bruscamente stroncata da un synth rumoroso e prepotente, per poi aprirsi nuovamente fino alla successiva interruzione, in cui sembra che il tempo venga scandito dal bip di un elettrocardiogramma. Questo è il canovaccio di “Muscle Memory”, un susseguirsi di saliscendi in pieno stile ottovolante. E se “Harpy Dream” funge da ponte tra i due estremi del trio, “Saturnine” si presenta sensuale, così come la voce dell’altro ospite Miguel. Particolari sono le interruzioni costanti di quello che sembra il campanello tipico dei desk degli hotel.

“This is the end” diceva Jim Morrison, e mai più azzeccato poteva essere il titolo ed il sound finale dell’opera. Insieme all’ultimo featuring Thundercat, Gaspard Augé e Xavier de Rosnay creano una chiusura secca e asciutta, con rimandi ai migliori Royksopp.

Graditissimo ritorno che fa sempre ben sperare. Lunga vita all’elettronica d’autore, lunga vita ai Justice.

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