Dalla Sicilia, terra fertile di cultura e artisti, sboccia il secondo fiore di Marco Castello con l’album Pezzi Della Sera, confermando la sua bravura nel muoversi nella musica italiana senza scendere a troppi compromessi e anteponendo la propria passione alle forze esogene di mercato.
Impensabile oggi potersi proporre al pubblico senza passare prima dalle catene dello streaming. Stavolta però c’è da ricredersi. L’album, infatti, è stato distribuito a fine settembre solo su vinile, con l’intenzione di portare avanti l’analogico prima del digitale, contrastando la concezione odierna del tutto e subito. L’audacia, sorretta dal fascino dell’idea, ha prodotto il suo più inaspettato effetto: la prima stampa si è volatilizzata in una sola settimana dall’uscita, comprovando la volontà preventiva di saziare la curiosità del fruitore musicale.
È un disco più maturo ma cugino del primo, sia nella scrittura che nel suono, espresso in racconti ironici di una quotidianità meridionale e avvolto in un’aria pop accuratamente auto prodotta che abbraccia Jazz, Funk e R&B.
Legandosi probabilmente a Porsi, prima traccia di Contenta Tu, si parte con Porci dove la chitarra esplora fin da subito terreni intimi, mettendo a proprio agio l’ascoltatore ed invitandolo ad accomodarsi su una su una soffice poltrona di velluto.
Il sarcasmo e l’autoironia predominano in tutti i pezzi, come in Polifemo dai palesi ritmi Bossa Nova e continui richiami a situazioni vissute, che danno più credibilità al tutto: i tipici pensieri annoiati da pennica post pranzo della domenica, manifestati attraverso uno story telling arguto, dal lessico diretto e moderno.
Pipì è il manifesto della natura artistica e della forza espressiva di Marco. Riconoscibile ma sorprendente come al primo ascolto, il pezzo si tinge di colori caldi e del groove che ha fatto innamorare i seguaci fin dal primo disco. È un Enzo Carella che fa l’amore con Lucio Battisti mentre Alan Sorrenti spia segretamente dal buco della serratura.
Con Copricolori esce fuori l’animo più funk del progetto ed è una gustosa condanna al movimento. La melodia pestata delle tastiere, la sezione ritmica inarrestabile e il synth che armonizza l’atmosfera sono in grado di animare anche i più disattenti. Dancing without moving.
È la scrittura però la parte più importante dell’opera, imprescindibile per la comprensione dell’intero album. I testi genuinamente beffardi e cinici non sono altro che una sottile critica sociale del mondo visto dagli occhi dell’interprete, come il sunto del vissuto personale ma applicabile a tutto il belpaese. I frangiflutti del “non prendersi sul serio” che difendono la libertà del linguaggio dalle mareggiate del perbenismo ossessivo.
Marco è figlio del suo tempo ma soprattutto nipote del passato italiano, quel passato che ancora oggi ammiriamo e bramiamo silenziosamente. È ora di sventolare con fierezza questo stendardo nostalgico, senza sentire il bisogno di celarsi dietro la paura di apparire ascoltatori bigotti e ammuffiti.
Rendiamo grazie a Marco Castello.