Shana Cleveland: La recensione di “Manzanita”

  • Shana Cleveland – Manzanita
  • 10 marzo 2023
  • ℗  Hardly Art

A Giacomo Leopardi non sarebbe piaciuto “Manzanita”, terzo album in studio di
Shana Cleveland. L’artista visiva, scrittrice, cantautrice e musicista statunitense,
meglio conosciuta per aver prestato chitarra e voce nel gruppo surf-rock La Luz, si
concentra sulla natura, ricamandone attorno testi intrisi d’amore ed un tappeto di
sonorità psych-folk in pieno stile californiano. Il mondo naturale continua ad ispirare
l’artista statunitense, in parte perché è il suo luogo di lavoro. “Una parte del
trasferimento in California per me era vivere in un posto dove fosse possibile
scrivere all’aperto tutto l’anno” dice Cleveland. Il disco è stato registrato nel periodo
in cui ha avuto il suo primo figlio, un’esperienza che le ha fatto capire che non è
separata dalla natura, che nessuno di noi lo è. “Penso a questo disco come a un
disco di primavera” commenta l’artista statunitense. “In California, la primavera è la
stagione in cui la natura entra in casa. La casa è improvvisamente piena di strani
insetti. Tutto è brillantemente in fiore”. La primavera si manifesta in tutta la sua
potenza e tu non hai alcun potere su di essa. Non è un caso che l’album esca il 10
marzo, una decina di giorni prima del suo inizio, anticipando con immagini e suoni la
rinascita della vita.

Pe questo album Shana si avvale di una più ampia tavolozza di colori. Johnny Goss,
che ormai è di casa (ha registrato tutto il materiale solista della Cleveland, fra cui le
prime registrazioni dei La Luz), imbraccia il basso assieme ad Abbey Blackwell (già
nell’organico Alvvays e La Luz); Olie Eshleman è alla steel guitar; il polistrumentista
Will Sprott suona tastiere, dulcimer, Glockenspiel, clavicembalo e sintetizzatore.
Forse quest’ultimo strumento potrebbe essere inquadrato come freddo e
“innaturale”, tuttavia la Cleveland sostiene che “In realtà sono il veicolo migliore per
trasmettere i suoni della natura (insetti, vento, uccelli, motoseghe, rumore bianco
rurale); abbiamo usato i sintetizzatori per ricreare l’atmosfera di essere all’aperto
nel mondo naturale mentre eravamo in studio”. In gran parte dei brani Shana, voce
e chitarra, predilige accordature aperte (open G, ad esempio): “Sembra che si adatti
al mio cervello, è così naturale e facile per me scrivere canzoni con questa
accordatura. Trovo che suonare con accordature aperte sia molto meditativo”. Il
nuovo lavoro dell’artista statunitense dal punto di vista sonora si colloca in uno
scenario simile a quello dei due precedenti dischi solisti, lontano dai suoni surf-rock
del progetto La Luz. La motivazione è sicuramente riconducibile all’aver utilizzato
molti strumenti, al fine di ricercare un suono personale e ricco di dettagli differenti.

La maggior parte della musica che amiamo è spinta da quei bagliori di infatuazione e
lussuria, ma “Manzanita” non si conforma a questo schema, anzi basa le sue
fondamenta sull’attesa, sul tipo di amore che si può sperimentale solo con il tempo,
il lavoro e la devozione. Le combinazioni di parole e la struttura delle canzoni sono
talmente forti che al primo ascolto non si apprezza l’abile fingerpicking di Shana. I
testi sono diretti, con descrizioni stravaganti che rimandano un po’ allo stile della
penna newyorkese degli anni sessanta.

Il disco comincia con “Ghost”, un canto angelico sostenuto dal mellotron. Si tratta di
scene di vita quotidiana, ma con sempre la stranezza di fondo di riconoscere di
essere una creatura, come nella chiusura “Walking Through Morning Dew” con il suo
“Little Ozzy crawling up my lap/ To claw my playing mute/ Sometimes in his face I
think/ I’m seeing you”. “Faces in the Firelight” è rivolta sia al figlio in utero che a Will
Sprott, suo compagno di vita. “La canzone parla del fatto che Will si occupava di un
enorme cumulo di legname, che continuava a bruciare anche dopo il tramonto e si
rendeva conto che là fuori, nel campo oscuro, assomigliava all’immagine
dell’ecografia che avevamo sul nostro frigorifero” racconta l’artista statunitense.
“Stavo pensando che il più grande atto d’amore potrebbe essere quello di aspettare
qualcuno. Dire: “Sarò qui quando avrai finito, quando sarai pronto””. Dal punto di
vista musicale “Faces in the Firelight” è un brano pop con un arrangiamento
orchestrale che offre piccoli spunti di riflessione ad ogni ascolto. All’inizio Shana
canta “Faces in the firelight/ A blooming room inside the night/ Do you love me like I
do?”. Pausa. “Youuu”. L’autrice rielabora genuinamente la solita canzone d’amore,
ponendo l’attenzione sull’amore per sé stessi prima di esprimere la devozione verso
l’altro. È una considerazione umile, sincera, piccola, ma per questo è enormemente
preziosa, grande e vera. In “Mayonnaise” la Cleveland ci dichiara di aver trovato il
suo piccolo angolo di mondo, la California. “Ho sentito per la prima volta la melodia
in un sogno in cui qualcuno di nome Mayo cantava e quando mi sono svegliata
riuscivo a ricordare completamente la melodia, così l’ho cantata in un registratore
vocale”. Ma è anche un tributo Richard Brautigan, poeta molto amato dall’artista
statunitense per le “dolci e delicatamente psichedeliche scene di natura
californiana”. “”Mayonnaise” è l’ultima parola del libro più famoso di Richard
Brautigan, “Trout Fishing in America”, quindi ho pensato che avrebbe avuto senso
usare la melodia in una canzone su di lui. Cerco sempre di registrare le melodie dei
sogni, a volte sono ottime e a volte non lo sono affatto, ma mi piace come è venuta
fuori questa canzone”. “Gold Tower” prende ispirazione del libro di fantascienza “La

macchina del tempo” di H.G.Wells. L’inizio con il mellotron aiuta a settare il mood
fantascientifico. “Un giorno l’ho letto e mi è entrato in testa. È stato facile sentirmi
come in un romanzo di fantascienza mentre ero incinta e sola nella natura selvaggia
ed ho scritto la canzone “Gold Tower”, come una sorta di ponte tra la fantascienza e
la mia strana realtà”. Gli intermezzi “Bloom” e “Light on the Water”, sono agli
antipodi. Il primo è un pezzo cupo di solo mellotron che sfocia nella dolce “Faces in
the Firelight”, mentre “Light on the Water” è leggiadra, una ninna nanna che
prelude l’arpeggio di “Quick Winter Sun”. “Bonanza Freeze” è un brano acustico
interamente strumentale, asciutto, bagnato un po’ nel riverbero, con una steel
guitar a dar man forte. Essenziale.

VOTO: 8.5/10

/ 5
Grazie per aver votato!
Articolo Precedente

Fever: La recensione di “Long Ago”

Prossimo Articolo

M83: La recensione di “Fantasy”

Latest from Recensioni