Shellac: la recensione di “To All Trains”

Review

Voto
9.4/10
Overall
9.4/10
  • To All Trains – Shellac
  • 17 Maggio 2024
  • Touch and Go Records

Nemmeno il tempo di gioire dell’imminente uscita del sesto album in studio degli Shellac, a ben dieci anni dal precedente “Dude Incredible”, che arriva la notizia sconvolgente: a pochi mesi dai sessantadue anni ci lascia uno dei personaggi più iconici ed influenti dell’alternative moderno, il cantante, chitarrista, produttore musicale, ingegnere del suono, critico musicale, e chi più ne ha più ne metta, Steve Albini. Una leggenda, senza se e senza ma, che ha prodotto artisti quali Nirvana, Pixies, PJ Harvey, Slint, solo per citarne alcuni, ed ha rivoluzionato il rock alternativo americano. Questo maggio trasporta quindi i fan in un mix di eccitazione e malinconia, così come l’ascolto di questo attesissimo “To All Trains”.

Cinico, sprezzante, estremamente provocatorio, Albini era solito evitare interviste e, qualora si riuscisse ad “intercettarlo”, dava il via a commenti che oggi sarebbero impossibili da pubblicare in un mondo così politicamente corretto ed incline alla nuova cultura woke. Persona controversa, ma coerente in un comportamento poco edificante: infatti negli anni non ha risparmiato insulti nemmeno a band alle quali ha contribuito al successo (definì i Pixiesquattro vacche così ansiose di farsi guidare con l’anello al naso”).

Ma veniamo al musicista e cerchiamo di sintetizzarne gli ingredienti: la base è senza dubbio punk, il noise è il filo conduttore, un pizzico di post rock, il tutto condito con una spezia esclusiva, soprattutto nel ’94, anno di esordio degli Shellac con “At Action Park”, ovvero il math rock. I testi, brevi ma molto diretti e pungenti, hanno però un comune denominatore con la musica di Albini e soci, ovvero la sinteticità e il minimalismo. Il mix è tra rumore e algebra, scevro da ogni particolare effettistica, allo stato grezzo.

To All Trains

Per analizzare l’album è bene basarsi su quanto sosteneva la mente che ne stava dietro: “la terza traccia dovrebbe essere quella che ti sconvolge. La uno deve dire alla gente, ehi siamo qui, e puoi tirare a vuoto nella due, ma la tre deve tirare via la vernice dalle pareti”.

Albini è un uomo di parola e “WSOD” chiama l’ascoltatore che, senza ombra di dubbio, sa di trovarsi di fronte alla band di Chicago. L’incipit se lo ritaglia la “ferrosa” chitarra, con il sound, unico nel suo genere, generato da plettri in rame e manico in alluminio. Si prosegue con la percussività del riff, inconfondibile con altre band, e gli altri strumenti che entrano progressivamente, quasi a colorare l’ossessivo giro di chitarra che rimane immutato fino ad un minuto dalla fine, dove viene sostituito dallo spoken word più minimale che ci sia. “Aspiro al bronzo, ma mi accontento del piombo, spacciato per oro, per il commercio turistico, assegnato dopo i test. Urina, sangue e capelli. Quei tre sono sempre un tutt’uno. Date a quell’uomo una medaglia, date a quell’uomo una medaglia”, niente di più, eccezion fatta per l’esplosione degli ultimi venti secondi. Iniziamo bene.

La seconda traccia segue la falsariga della prima, ma qui viene evidenziata maggiormente la struttura matematica del brano. Gli strumenti e la voce si incastrano in modo tale da creare una sequenza perfetta, a tratti ipnotica, soprattutto in chiusura. Nella teoria albiniana si può “tirare a vuoto” nel secondo pezzo, ma di fronte ad un tale livello sonoro ci permettiamo di dissentire.

Ed eccoci di fronte alla “sverniciatura delle pareti”: il pogo è d’obbligo con “Chick New Wave”. Poco meno di due minuti e mezzo di schitarrate, urla, intermezzi timbrici e botte in faccia. Non è il loro manifesto, ma sicuramente quello in cui maggiormente è emersa l’anima punk.

What’s the panic with you?” apre l’algebrica “Tattoos”. Qui torniamo in pieno stile shellachiano, dove gli strumenti dialogano fra loro e la voce entra in punta di piedi, quasi a non voler disturbare troppo il discorso musicale. Altro capolavoro di una band inestimabile.

Wednesday” viene introdotta da un ritmo tribale: i tom percossi da Todd Trainer accompagnano l’ascoltatore all’interno delle profondità più cupe dell’album. Si sfiora il doom e la voce, nelle rare apparizioni, grava ancora di più il tema. Si fa strada maggiormente nel finale, dove prende il sopravvento e racconta una storia macabra, degna dell’accompagnamento musicale. Cos’altro aggiungere?

La vetta più alta di questa opera immensa arriva in sesta posizione, con “Scrappers”. Il sunto della band può essere sintetizzato in questi due minuti e venti secondi: l’esaltazione matematica del punk in chiave punk, con l’alternanza tra cantato e parlato, in un unico grido “we’ll be pirates!”.

Il premio per il miglior testo lo vince a mani basse la canzone più breve di tutte: “Days Are Dogs” sembra una poesia, un testamento spirituale recitato magistralmente da quello che è al tempo stesso autore e fruitore. “Sono l’ultimo giorno della tua vita, vissuto oltre ogni aspettativa”, un monito che dovrebbe ronzare sempre nelle teste di tutti.

Dallo spoken word precedente si passa al primo ed unico pezzo interamente cantato. Una sorta di marcetta perdura fino all’ultimo minuto, dove tutti gli strumenti cambiano rotta. Nell’immensità del decalogo di “To All Trains”, “How I Wrote How I Wrote Elastic Man (Cock & Bull)” risulta forse il più “normale”.

Prima di chiudere, Albini e soci hanno deciso di rendere omaggio al musicista e ingegnere del suono Rob Warmowski, morto nel 2019 all’età di 52 anni. Il titolo, “Scabby The Rat”, che prende il nome dal roditore gonfiabile usato dagli attivisti sindacali, era anche l’account twitter pro labor creato dallo stesso musicista. Emblematiche le parole di affetto rivolte dal cantante della band: “La scena musicale è come una famiglia, e Rob era sempre lo zio socievole che conosceva i nomi di tutti i cugini e faceva le presentazioni e iniziava le conversazioni in modo che tutti si sentissero a casa. La maggior parte delle persone che conosco nel mondo della musica ha avuto con Rob almeno un rapporto di sfuggita. E tutti loro lo hanno apprezzato.”

Non poteva esserci finale migliore. “I Don’t Fear Hell” è il saluto più puro che Albini potesse rivolgere al suo pubblico. È tutto giusto, dalla musica funerea e rarefatta, algebrica e rumorosa, al testo che sembra essere un addio, ma sempre in pieno stile Shellac. I sentimenti sono contrastanti: così, tra una lacrima e una risata, ci apprestiamo a concludere questa perla.

Le parole non sarebbero mai abbastanza per ringraziare questo maestro alternativo della moralità. Ci limitiamo ad immaginare come lui stesso ha voluto descrivere il suo approdo nell’aldilà, perché d’altronde “se c’è un paradiso, spero che si stiano divertendo, perché se c’è l’inferno, conoscerò tutti”.

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