Speedy Ortiz: La recensione di “Rabbit Rabbit”

  • Speedy Ortiz – Rabbit Rabbit
  • 1 Settembre 2023
  • ℗ Wax Nine Records

Il quinto album in studio del quartetto della Pennsylvania è un assortimento di riff selvaggi, melodie spigolose e banger rock di fine anni ’90.  “Rabbit Rabbit” è stato concepito in tour, con un approccio creativo non molto diverso da quello adottato nei precedenti dischi. Ciò che, ancora una volta, risalta all’ascolto del disco è l’incredibile cura nella scelta delle parole da parte di Sadie Dupuis. Il songwriting non è mai banale, e estremamente strutturato. Dupuis appare come in costante ricerca di una palette di parole che si adatti meglio ad ogni situazione che cerca di descrivere, ma nonostante la complessità della scrittura non manca di momenti di ironia e malizia. 

Il disco si apre con suoni ambient inquietanti, prima di lasciar spazio alle chitarre lamentose di “Kim Cattral”. Se c’è un’altra cosa che colpisce di questo disco è che ogni strumento segue un percorso ben delineato e diverso dall’altro. Eppure, alla fine, riescono a mescolarsi perfettamente. “Ypu S02” è un luminoso banger alt-rock di primi anni 2000, in cui la frontwoman del gruppo dichiara il suo finto amore verso Los Angeles, una città costruita sull’apparenza e sul nascondere la polvere sotto il tappeto. 

Speedy Ortiz Rabbit Rabbit

“Kitty” è più leggera le chitarre passano in secondo piano, e ogni altra traccia sembra scollegata, salvo per i piatti di Doubek, che sono il vero filo conduttore di questa traccia. 

“Ranch Vs. Ranch” mescola muri di chitarra pesantemente distorti a linee melodiche graffianti e voci asciutte dai tratti country. Nel caso di “Plus One”, il ritmo rallenta nuovamente, offrendo sezioni percussive di cowbells e atmosfere più minimali. “Scabs” è un altro banger che non ti aspetteresti. Questa volta, i toni country non sono sulla voce, ma sulla melodia, nonostante siano schiacciati dalle distorsioni potenti. 

A chiudere il disco vengono selezionate due tracce completamente agli antipodi. “Brace Thee” è cupa, le lucenti e animate melodie si convertono in un suono quasi mononota, prima di aprirsi in un ritornello dalle tinte Shoegazze. “Ghostwriter”, d’altra parte torna a gamba tesa sulle orecchie dell’ascoltatore con potentissime distorsioni, questa volta accentuate anche sul basso, poi vira verso melodie orecchiabili e poi torna di nuovo ai riff spigolosi che il disco ci aveva già abituato a sentire. “Sono stanca di essere arrabbiata”, canta Dupuis prima che il disco volga al termine. 

Per tutte le tracce di “Rabbit Rabbit”, la band ha tentato di mescolare un milione di caratteristiche diverse, e c’è da ammettere che sono riusciti a farlo in maniera ottima. 

Voto: 7.5/10

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