Album

Max Richter: la recensione di In a Landscape

  • Max Richter – In a Landscape
  • 6 settembre
  • Decca Records

Il suono sta alla vita come Max Richter sta alle colonne sonore, e non solo. Dal 6 settembre è possibile ascoltare In A Landscape, la naturale evoluzione sonora del musicista, realizzato mettendo in pratica la formula applicata da molti artisti contemporanei: rispolverare il passato per tradurre in termini attuali concezioni universali e personali della vita. Richter è solito riservare un approccio minimale e sperimentale ai lavori da solista.
Per questo nono capitolo in studio ha deciso inoltre di immergersi totalmente in uno stato meditativo registrando per la prima volta nello Studio Richter Mahr, uno spazio minimalista ed ecosostenibile progettato con la coniuge e artista visiva Yulia Mahr.


Di conseguenza è riuscito ad avvicinarsi al suo celebre The Blue Notebooks, che al suo interno contiene On the Nature of Daylight, brano che fa parte delle soundtracks del film Shutter Island (è per contributi come questi che la sua musica ha fatto il giro del mondo grazie ad oltre 1 miliardo di ascolti in rete). A tal proposito, l’artista ha affermato che: “La musica di questo disco è una connessione o una riconciliazione tra opposti. È una dinamica che ho iniziato a esplorare nel 2004 con l’album ‘The Blue Notebooks’, con cui questo nuovo progetto condivide molte tematiche”.

In a landscape


E in quello studio personale ed intimo circondato da 12 ettari di foresta ha preso forma ‘In A Landscape’. Le strumentali del compositore tracciano una linea narrativa influenzata dalla lettura di libri a lui cari, in cui è possibile riconoscere alcune sfaccettature familiari a Brian Eno e Philip Glass.
La riconciliazione tra opposti è data dall’alternarsi bilanciato tra tracce suggestive e “Life Studies”, 9 bozzetti sperimentali che racchiudono registrazioni sul campo, suoni urbani e modulati.
È molto facile immedesimarsi e farsi assorbire dagli ambienti sonori di questi Studies, tra intermezzi della vita domestica e camminate misteriose nei boschi, in riva al mare (Life Study I) o nel caos urbano. I suoni naturali dialogano con quelli ossessivi e minimali del compositore ma si può rimbalzare anche su delay industriali ipnotici (Life Study IV).


L’immaginario di Max Richter prende forma traccia dopo traccia, offrendo agli ascoltatori “scene che possono sentire” o viceversa. Ognuno può sentire e immaginare ciò che vuole, pescando naturalmente dalle infinite combinazioni emozionali offerte dalla natura umana. A questo punto, in Life Studies V qualcuno potrebbe anche aprire una porta a strapiombo sull’ignoto, e meravigliarsi nel vedere una stanza galleggiante in mezzo al mare.
La suggestività invece dell’altra metà dell’album è data dall’esperienza maturata da  Richter, che cuce una ricca gamma di sensazioni su trame sonore in cui ognuno può riconoscere la proprio storia o il proprio personaggio.


L’ipnotica e riverberata Only Silent Words è un ottimo esempio di avanguardismo dell’epoca con gli occhi del presente, che sconfina nella già citata Life Studies V preparandole oggetti di scena, luci e suoni. Le restanti tracce sono in bilico tra classico e moderno, orchestrazioni e minimalismo.
È difficile rimanere indifferenti quando già dall’inizio si ha un picco emozionale in They Will Shade Us WIth Their Wings, che nel finale si consuma lentamente come un dolce imbrunire.
Romantiche e struggenti, malinconiche e drammatiche, trascinano nello stesso stato meditativo dell’autore, a volte con semplici note al pianoforte (Andante), altre volte orchestrando a dovere la scena (And Some Will Fall).
E se un brano come A Colour Field (Holocene) ha una progressione di accordi che ti fa immaginare un featuring con Thom Yorke, è con Movement, Before All Flowers che si ha la risoluzione di un processo emozionale complesso, che finalmente raggiunge toni più sereni ed ottimisti.

Tra i lavori più riusciti dell’artista, In a Landscape potrebbe essere anche un omaggio all’omonimo album di John Cage registrato nel 1948, ma per il momento possiamo considerarlo come un nuovo punto di svolta per una visione rinnovata delle sue tematiche tradotte in musica.

/ 5
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Suki Waterhouse: la recensione di Memoir of a Sparklemuffin

  • Suki Waterhouse – Memoir of a Sparklemuffin
  • 13 settembre 2024
  • ℗ Sub Pop Records

Una specie di ragno variopinto inserito nel titolo di un disco? Può sembrare una scelta azzardata, ma è l’ultima trovata musicale di Suki Waterhouse. La cantante e modella inglese, infatti, è appena tornata sulla scena con il suo secondo album Memoir of a Sparklemuffin, un vero e proprio caleidoscopio di immagini, ricordi e racconti della sua vita.

Il disco, diviso in 18 brani, si apre con Gateway Drug, una traccia estremamente onirica in cui l’arpeggio di chitarra va a miscelarsi perfettamente con la voce dolce della cantante; interessante la bipartizione del brano che, a metà, esplode in una forte batteria: la voce si fa più dura e viene accompagnata da voci corali che amplificano le immagini oniriche. My fun è, invece, un brano diverso dagli altri, che mostra un’altra sfaccettatura dell’artista: inizialmente più funky, poi quasi jazz grazie all’inserimento di un pianoforte a metà brano, il brano racconta della relazione della cantante con Robert Pattinson; emblematica la frase ‘Who loves me like a love my phone?’.

Il brano seguente è Modell, Actress, Whatever; Suki affronta il concetto della polivalenza dell’essere umano, qui si palesa lo ‘Sparklemuffin’, vengono a galla le mille sfaccettature che possono esistere della stessa anima. Non ci si deve limitare a scegliere, si può essere ciò che si desidera sul palcoscenico della vita.

memoir of a sparkle muffin

Proseguendo con l’ascolto, To get you è forse una delle canzoni più intime: scritta a quattro mani con Greg Golanzez dei Cigarettes After Sex, qui la cantante racconta di quanto possa essere difficile ottenere ciò che si vuole, quanto possa essere straziante fare tanti sacrifici per arrivare alla felicità e lo fa in una maniera del tutto personale, preservando la propria identità attraverso l’accompagnamento di una semplice chitarra. Significativo il confronto tra una delle prime frasi: ‘Honey you’ll never now what I did to get you’ e l’ultima frase, quasi lapidaria: ‘What I do all over again to get you’: non è importante quanto sia stato difficile in passato, ma è importante non darsi mai per scontati e scegliersi ogni giorno per preservarsi anche nel presente.

All’interno del disco sono numerosi i generi che la cantante inglese va a toccare e miscelare: dal folk (in pezzi come My Fun) all’indie-pop (in brani come, OMG e Faded), dal pop-rock fino ad arrivare ad una sfera puramente pop con importanti influenze di Billie Eilish, Lana del Rey, Cigarettes After Sex, Remi Wolf, Taylor Swift… Tornando ad un’analisi più dettagliata della tracklist, Everybody Breaks Up Anyway è un’altra traccia estremamente intima che celebra il concetto della rottura di una relazione; indipendentemente da chi tu sia, l’amore prima o poi terminerà; il testo estremamente pessimista è intonato in maniera rassegnata ed è condito esclusivamente da un pianoforte scarno e da cori nostalgici: anche qui è evidente la forte influenza di Billie EIlish.

Degna di nota è anche Big Love, forse la più energica dell’album; ‘Big Love is all I want’ la frase gridata con più sicurezza, scandita da una batteria estremamente potente a ricordarci che ognuno di noi dovrebbe puntare sempre in alto e tentare di alzare le aspettative.

A livello grafico, la copertina dell’album è estremamente ricca, quasi barocca con la cantante inglese che appare quasi come lo ‘Sparklemuffin’: come ha dichiarato lei stessa, infatti, il titolo dell’album fa riferimento al fatto che questo ragno faccia una danza per sedurre la sua amata ma, se non funziona, viene brutalmente divorato da questa. Suki Waterhouse, infatti, spera che questo disco possa piacere all’esigente mercato odierno musicale, senza essere divorata dalla sua stessa carriera. La cantante inglese, senza dubbio, ha creato un intricato collage musicale: verrà apprezzato o condannato dal pubblico?

3,0 / 5
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Mercury Rev: La recensione di Born Horses

  • Mercury Rev – Born Horses
  • 6 settembre 2024
  • ℗ Bella Union

Quando pensi alla neo psichedelia degli ultimi tre decenni non puoi di certo dimenticare i Mercury Rev, che dopo 9 anni sono tornati a far parlare di sé con Born Horses.
Carriera singolare la loro, che diversamente da molti rockers che si sono lanciati nel mondo delle colonne sonore dopo molto tempo (ricordiamo Trent Reznor e Atticus Ross oltreoceano, oppure i Verdena e Andrea Laszlo De Simone in Italia), sono partiti da sperimentazioni cinematografiche a basso costo, per poi diventare una band vera e propria alla fine degli anni ‘80.
C’è un nome importante dietro la loro nascita: Tony Conrad, uno dei maggiori esponenti del minimalismo, annusò le potenzialità della formazione, incoraggiandoli a debuttare come gruppo nel ricco panorama musicale. Dopo gli esordi più ruvidi e psichedelici, Jonathan Donahue e soci hanno toccato vette importanti con Deserter’s Song per poi consolidare la loro personale formula dream rock.
E oggi, parlando del loro nuovo disco, i Mercury Rev hanno citato proprio Tony Conrad tra le influenze. Ma non è tutto, perché hanno raccontato di simpatizzare per la dimensione eterea delle musiche di Blade Runner e di apprezzare lo stile poetico di Patti Smith. Inoltre è la prima volta che Donahue si abbandona al cantar parlato, facendo incontrare la narratività sonora tipica del grande schermo con la poesia.
E quella voce soffice ma incisiva arriva come due ali che si sfregano delicate, come il canto liberatorio di un uccello, eletto ad animale guida/voce interiore (“When I opened my voice to sing on this record, this was the bird that sang. It’s just the bird that wants to sing”).
Questi riferimenti al volo sono centrali nell’album, anche se il cantante si era concentrato sul tema già in altre occasioni (si consiglia l’ascolto di Funny Bird, una perla contenuta nel già citato Deserter’s Song).

born horses

A cosa si va incontro, quindi, se ci si imbatte nel nuovo lavoro dei Mercury Rev?
È appunto una colonna sonora in rime divisa in otto tracce e immersa nell’immaginario sognante e lucido che sembra proiettato in un futuro lontano, ma visto con lo sguardo del passato, come guardare Blade Runner, appunto, ma senza visione distopica. Inoltre Born Horses è caratterizzato da tocchi più jazzati rispetto al solito, rendendo omaggio a Chet Baker e Miles Davis, altri due grandi apprezzati dalla band di Buffalo. Si capisce subito, dalle prime note di Mood Swings, con Donahue che sussurra al microfono appoggiandosi ad un jazz fumoso e scivoloso. La tromba si perde tra i delay, come un incontro nel deserto tra gli Arab Strap e la versione rallentata e semplificata degli Ozric Tentacles, un brano che ispira tonalità viola/grigie.
Questi signori sono maestri delle sonorità dreamy. Nel dark-bossanova di You and I c’è un chiaro intervento di chitarra che puntualmente trascina giù l’ascoltatore, facendolo sprofondare nelle pieghe sognanti di un quadretto visionario.
Dove sono le ali? In Your Hammer, My Heart l’interpretazione del cantante pare suggerire all’uccello di spiccare il volo dopo le parole “my heart”, passaggio dopo il quale il brano raggiunge vette di epicità con l’aiuto di fiati, cori ed una scala discendente al pianoforte, come a dire che, se non fosse per la gravità, saremmo già lievitati per la potenza onirica liberata dagli strumenti.
Dopo le sfumature dream-pop ballad di Patterns arriva il brano “più cantato”, A Bird Of No Address, con un’altra analogia sul volo e l’evolversi finale su “fly on”.
Il passaggio più rappresentativo e identitario di questa nuova fase del gruppo lo troviamo con Born Horses, dove emerge la volontà di “fluttuare via dal presente” per recuperare la semplicità del passato (“I had a dream we were born horses/ And not human beings/ With more time to run/ And less time for things”).
Attenzione, perché l’energia sognante ormai è in circolo e viene sprigionata al massimo in Everything I Thought I Had Lost, raggiungendo l’apice dopo ogni “I keep finding again”, momento in cui si può immaginare l’uccello roteare a razzo verso l’alto, attraversando a gran velocità un fascio di luci e suoni (qui non c’è gravità che tenga). È l’unico episodio in cui sembra tornare un certo piglio post rock. 
 There’s Always Been a Bird In Me è la consacrazione finale colorata di new wave, la consapevolezza di aver avuto le ali da sempre (“There’s always been a bird in me”).

Bentornati Mercury Rev, in volo tra passato e futuro, in perenne sospensione, esplorando i confini tra sogno e realtà, vivendo nel mezzo sdraiati su morbide nuvole sonore.

4,0 / 5
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The Smashing Pumpkins: la recensione di “Aghori Mhori Mei”

  • Aghori Mhori Mei – The Smashing Pumpkins
  • 2 Agosto 2024
  • Martha’s Music/Thirty Tigers

Uno sguardo rivolto al passato, senza troppe pretese, se non quello di scalzare gli ultimi due passi falsi in salsa synth pop che rientrano poco nelle corde della band statunitense. Le cinquantatré tracce di “Atum” e “Cyr” avevano sconfortato, e non poco, i fan nuovi e di vecchia data. Non che questo “Abbraccia la Bella Morte” (la traduzione di “Aghori Mhori Mei”, composta da un mix tra sanscrito e giapponese, dovrebbe essere questa) riporti ai fasti di “Mellon Collie And The Infinite Sadness” “Siamese Dream” o “Gish”, ma non si può nemmeno gridare allo scandalo. Ma se questa ultima opera degli storici Smashing Pumpkins ha alcuni spunti interessanti dal punto di vista musicale, non si può dire lo stesso riguardo i testi, piuttosto banali, in linea col Corgan degli ultimi quindici anni.

Emblematica la partenza, con un suadente giro chitarristico con echi kyussiani, che poi esplode, dopo circa un minuto, nel sound tipico del gruppo di Chicago. Riaffiorano però i demoni del frontman, che, nella sua fase di scarsa creatività, lancia invettive abbastanza sterili all’inesorabilità e alla ripetitività del tempo. Già sentito.

Aghori Mhori Mei

L’obiettivo di ricongiungersi con il passato è evidente, sia nei brani più ballad, come la dolcePentecost”, accompagnata da un tappeto orchestrale e da riff di pianoforte veramente ben riusciti, o nelle tracce maggiormente heavy, quali la successiva “War Dream Of Itself”, molto dura e cadenzata. Ma anche qui il canovaccio è lo stesso: musica sempre curata e d’impatto, parole ovvie, che non incidono. Anche nella più enigmatica “Pentagrams”, dove i musicisti danno sfoggio del loro meglio, il frontman propone un testo che non esalta minimamente il suo genio nineties, ma si limita ad un semplice trattato sull’amore.

Parafrasando le parole del recentemente defunto Albini, la terza traccia di “Aghori Mhori Mei” rispetta l’algoritmo di sconvolgimento: sicuramente la più riuscita dell’intero album sia dal punto di vista musicale che da quello lirico, “Sighommi” potrebbe sicuramente far parte degli Smashing Pumpkins degli albori, senza però risultare obsoleta ai giorni d’oggi.

E se il singolo appena citato rispettava le intenzioni esplicitate dal cantante fondatore del progetto, che riguardo quest’ultimo lavoro sosteneva che “Durante la composizione del nuovo album mi ha incuriosito il logoro assioma, ‘non puoi tornare a casa di nuovo’, che personalmente ho riscontrato essere vero nella forma, ma che mi ha fatto pensare ‘e se ci provassimo comunque?’. Non tanto nel guardare indietro con sentimentalismo, ma piuttosto come mezzo per andare avanti, per vedere se, nell’equilibrio tra successo e fallimento, il nostro modo di fare musica dei primi anni 90 poteva funzionare ancora”, in altri casi, come in “Who Goes There”, il sound è risultato datato, e forse lo sarebbe stato addirittura ai tempi del discusso “Adore”.

Andando avanti, è sempre più evidente il filo conduttore dell’intera opera: con “999” infatti si susseguono riff interessanti a slanci piuttosto “telecomandati”, così come il testo, seppur non del tutto sterile, presenta delle strofe degne di un ventenne alle prime armi.

La soaveGoeth The Fall” mostra uno schema già visto: ballata alt pop, senza gioie né dolori, che passa senza tocco ferire. Mentre la successiva “Sicarus” è composta da una struttura metal più complessa, sicuramente maggiormente degna di nota, con vari cambi di ritmo non fini a sé stessi ed un testo che, sebbene non esaltante, sembra più profondo dei precedenti.

La chiusura è affidata a “Murnau”, un sunto dell’intera fatica: poco più che sufficiente, migliore degli ultimi lavori, ma lontana anni luce dagli sfarzi iniziali. L’anima pop esce fuori in tutto il suo ego e come sempre il sound è giusto, ma nulla più.

Gli Smashing Pumpkins sopravvivono al tempo, molto più di altre band, ma ci auguriamo che tornino a vivere e ci regalino le perle degli anni Novanta, in chiave moderna.

/ 5
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Beabadoobee: La recensione di This Is How Tomorrow Moves

  • BeabadoobeeThis Is How Tomorrow Moves
  • 9 agosto 2024
  • ℗ Dirty Hit

Nel 2017, Beabadoobee, pseudonimo della cantautrice britannico-filippina Beatrice Kristi Laus, ha fatto il suo debutto con uno stile grunge e lo-fi, ispirato all’indie rock degli anni ’90. L’artista ha catturato l’attenzione con il singolo Coffee, un brano indie-folk intriso di malinconia e speranza che ha risuonato tra gli ascoltatori grazie al suo fascino. Cresciuta in un contesto multiculturale, nata nelle Filippine e trasferitasi a Londra durante l’infanzia, Beabadoobee ha trasformato le sue esperienze di vita – segnata da razzismo e stereotipi – in un’opera musicale che unisce shoegaze, ballate minimaliste e grunge, esemplificata nel suo album di debutto Fake It Flowers del 2020.

Con il successivo Beatopia nel 2022, Laus ha approfondito la sua estetica nostalgica, ma con tocchi contemporanei, esplorando un suono più variegato che ha unito l’indie-rock degli anni ’90 a elementi di jazz-pop e influenze più moderne. Brani come The Perfect Pair e Glue Song hanno consolidato la sua capacità di fondere stili apparentemente differenti, creando pezzi che parlano alla nuova generazione senza dimenticare le radici del rock alternativo.

L’album più recente di Beabadoobee, This Is How Tomorrow Moves, pubblicato il 9 agosto 2024, rappresenta un nuovo capitolo nella sua evoluzione musicale. Prodotto da Rick Rubin nello studio Shangri-La a Malibu, l’album è una riflessione sul dualismo tra l’ascesa alla fama e il desiderio di autenticità e intimità personale. Rubin, noto per la sua capacità di scavare nell’essenza di vari generi musicali, ha aiutato l’artista a mantenere il cuore attitudinale del rock anni ’90, ma con un tocco che risponde alle tendenze musicali odierne. Il disco offre una gamma sonora che spazia dal grunge al pop, con influenze jazz e indie, riflettendo un panorama sonoro ampio e inclusivo.

L’album è ricco di fusioni inaspettate: ritmi bossa nova, atmosfere “zoomer-gaze” e omaggi ad artisti iconici come Elliott Smith, mostrando la crescita di Beabadoobee come artista capace di creare strutture complesse in brani che esplorano temi di amore, perdita e identità.

This Is How Tomorrow Moves

Take a Bite, brano di apertura, cattura l’energia degli anni ’90, con chitarre distorte e produzioni dense che richiamano The Smashing Pumpkins. È caratterizzato da un mix di grunge e pop degli anni 2000, riflettendo le tensioni e le sfide adolescenziali dell’artista. Il tono è rilassato ma determinato, con testi che esplorano le contraddizioni del crescere. California è una traccia tributo all’alt-rock degli anni ’90, con influenze di band come i Pavement. La traccia riflette il “sogno americano” dal punto di vista di una giovane outsider che cerca di trovare il suo posto in un mondo complesso e disorientante. Le sonorità malinconiche e i testi riflessivi enfatizzano un desiderio di fuga e una ricerca di identità.

One Time è un brano che si ispira allo stile di Elliott Smith, con una melodia morbida e sognante. Il ritmo in tempo di valzer aggiunge un tocco nostalgico, mentre i testi esplorano la vulnerabilità e il desiderio di autenticità. È un pezzo che mescola delicatezza e introspezione, con influenze Beatlesiane, mentre su Real Man ci scontriamo con sincerità e genuinità, a confronto con vulnerabilità e disillusione. Beabadoobee utilizza una narrazione personale, descrivendo la sensazione di innamorarsi troppo facilmente per poi rimanere inevitabilmente delusa, comunicando la sua aspirazione a relazioni vere e sincere.

Tie My Shoes riflette sulle relazioni giovanili e la dipendenza emotiva, con una melodia dolce e arrangiamenti minimalisti. I testi evocano immagini di innocenza e intimità, creando un’atmosfera rilassata e contemplativa. La traccia rispecchia le sonorità più delicate di Beabadoobee, con una produzione semplice e diretta. Attraverso una melodia piano-voce, Girl Song affronta con una dolcezza disarmante le difficoltà riscontrate dalle ragazze al giorno d’oggi, sfiorando i temi del giudizio rispetto all’apparenza fisica, il tentativo di rientrare negli stereotipi di bellezza quasi perdendo di vista la propria identità, con una sensazione di dover sempre provare qualcosa alla società che è sempre costante parte della quotidianità.

Coming Home, scritto durante un soggiorno a Los Angeles, è un brano caratterizzato da un’atmosfera tranquilla e contemplativa, con arrangiamenti acustici e uno stile che richiama, ancora una volta, Elliott Smith. La canzone è una porta aperta sulla vita di convivenza, descrivendo tutte quelle piccole azioni quotidiane e le faccende domestiche che si incastrano con il tentativo di trovare tempo per la relazione. Ever Seen è una traccia con una nuova energia, dinamica e vibrante, attraverso la quale viene descritta l’importanza e la potenza emotiva di una relazione riflessa negli occhi di entrambi i componenti della coppia. In A Cruel Affair si fondono elementi indie e bossa nova, creando un’atmosfera particolare che parla di una relazione complicata e non del tutto delineata. Con una melodia leggera e ritmi caldi, il brano cattura la complessità delle relazioni moderne, mantenendo una leggerezza melodica.

Post presenta elementi pop che passano attraverso un filtro “zoomer gaze”, fondendo shoegaze e dream pop. Esplora temi di amore e perdita, utilizzando suoni eterei e riverberi per creare un effetto avvolgente e sognante, ispirato alla produzione pop di Taylor Swift. Beaches è una traccia più vivace che evoca immagini di spensieratezza e libertà tipiche della stagione estiva. La melodia è orecchiabile e incalzante, con testi che parlano del desiderio di fuga e di trovare pace ed equilibrio, richiamando un’estetica estiva senza tempo. Everything I Want può essere identificata come un “seguito spirituale” di Glue Song. Questo brano è estremamente romantico, con testi dolci e una melodia accattivante. Esprime la crescita di Laus nella comprensione delle relazioni, cercando di fare le cose “nel modo giusto questa volta”.

The Man Who Left Too Soon è una riflessione malinconica sulla perdita e il ricordo di qualcuno scomparso troppo presto. Musicalmente minimalista, la canzone mette in risalto la voce emotiva di Beabadoobee, con un arrangiamento semplice che accentua l’atmosfera intimista. Il brano è stato scritto pensando al suo ragazzo che, intorno ai vent’anni, ha subito la perdita del padre. This Is How It Went, il brano di chiusura dell’album, riflette sul processo creativo e sul ruolo della musica come forma di espressione che viene utilizzata per guarire e non per ferire. La canzone esplora il potere catartico della composizione, con testi che rivelano l’introspezione dell’artista e chiudono l’album con una nota sincera e riflessiva.

This Is How Tomorrow Moves è un album in cui traspare chiaramente la capacità dell’artista di fondere passato e presente, rimanendo fedele alla sua identità musicale pur sperimentando nuove direzioni. Con questo album, Beabadoobee dimostra di essere una voce interessante e versatile nel panorama musicale contemporaneo, capace di catturare e rispecchiare le emozioni di una generazione in costante evoluzione e sottoposta a una costante critica.

/ 5
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AcomeandromedA: La recensione di Omissis

A distanza di dodici anni da Occhio Comanda Clori, disco di debutto non che unico progetto, gli AcomeandromedA ritornano con “Omissis”. Questo contenitore di nove nuovi brani, pubblicati per Dischi Uappissimi (Buckwise, Bouvier, Lazzaretto), è una lente di ingrandimento sulla società moderna e sulla qualità della vita. 

La band, composta da Vito Indolfo (voce, flauto traverso), Willy Elefante (tastiere), Andrea Manghisi (chitarra), Matteo Simone (basso, synth) e Michele Manghisi (batteria), ha visto la luce per la prima volta all’inizio del 2008. Occhio Comanda Colori era si un progetto profondamente radicato nel rock, ma con decine di sfaccettature diverse. Il progressive si perde in una terra di confine a metà fra tempeste strumentali e strizzate d’occhio al pop. Da lì iniziano una serie di spettacoli live, non solo sul territorio italiano, intavolano collaborazioni con artisti internazionali e ampliano la loro visione di musica. Purtroppo tutto ciò non basta, perché gli AcomeandromedA si prederanno successivamente una lunga pausa, almeno fino a oggi (in realtà al 2022).

Messo in cabina di regia Giulio Ragno Favero, bassista del Teatro Degli Orrori, il gruppo ricomincia da dove si era fermato circa dieci anni fa. Con Omissis il quintetto pugliese, trova finalmente il modo di approcciarsi alla musica elettronica, tanto cercato prima del periodo di pausa, costruendo una palette sonora a metà fra Afterhours e Bluvertigo. 

omissis

L’album si apre subito con una delle tracce più interessanti. Le voci di Indolfo, immerse in ampi riverberi, galleggiano su stratificazioni di suoni sintetizzati e beat sincopati in Cosmiconica. La morbidezza dei primi minuti si schianta su assoli squillanti fill di batteria e suoni Industrial. Con Il racconto del passero, l’elettronica viene sovrastata da ritmi cadenzati e enormi distorsioni di chitarra prima che, su Tina, si torni alla leggerezza. Alla terza traccia capiamo quanto, ogni volta che droni, melodie sintetizzate o batterie elettroniche entrano a contatto con questo progetto, la band trovi uno spazio infinito per sperimentare, trovando in questo caso spazio per sax e archi.

Inizialmente pensato nel 2013, dopo un incontro con Max Casacci dei SubsonicaSalveremo il Mondo ha visto la luce oggi, dopo più di dieci anni, come singolo di punta di Omissis. Tornano graffianti stratificazioni di chitarra, che fanno da vere protagoniste del brano. Con La perfezione di una lacrima, la band si concede atmosfere acustiche, anche se per solo una manciata di secondi. La Title-track strizza l’occhio al pop e all’indie italiano. Omissis è un brano caldo, dove questa sono gli arpeggi di chitarra acustica ad uscirne protagonisti, prima di tornare alle sonorità che rendono questo album davvero interessante. Sto parlando Andrearitmia, dove noise e shoegaze danzano sotto le rauche voci di Indolfo.

Flauti e corde di nylon portano il disco alla chiusura, in una traccia messa insolitamente alla fine del disco. Intro viene sporcata da sonorità folk, a tratti quasi orientali, insinuandosi direttamente sull’outro di Omissis. Mello Mello è un’altra delle canzoni più longeve di questo progetto. Rilasciata inizialmente nel 2014, con il nome di Sleeping Lotus, dall’artista taiwanese Waa Wei Ruxuan, il brano trova una nuova energia sul finale dell’album.

/ 5
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Un viaggio nella penombra di Cellophane Memories

  • Chrystabell & David Lynch – Cellophane Memories
  • 2 agosto 2024
  • ℗ Sacred Bones

“Chiunque, persino un deficiente, può prendere una canzone e ficcarla in un film. Per me la cosa si fa interessante quando il pezzo non se ne sta solamente lì appiccicato. Deve possedere degli ingredienti che siano davvero adatti a far parte della trama”.

Questa dichiarazione di David Lynch mette subito in chiaro cosa ha sempre fatto il maestro del noir durante la sua carriera. La musica non è quindi un elemento a sostegno o a supporto, ma è un personaggio fondamentale che partecipa alla storia. Non a caso il terzo capitolo di Twin Peaks (2017) ribadisce questa filosofia,  oltre a riproporre nelle scene molti musicisti, tra cui Eddie Vedder e i Nine Inch Nails (in passato anche David Bowie).
Forte di questa convinzione ancora oggi, l’artista ha rilasciato Cellophane Memories in collaborazione con la sua musa Chrystabell (anche lei nell’ultimo Twin Peaks).

Arrivati al terzo lavoro insieme, il duo ha consolidato gli esperimenti sonori di This Train e Somewhere in the Nowhere, firmando dieci tracce ispirate da una “passeggiata notturna attraverso una foresta di alberi alti”.

Cellophane Memories

Il regista è solito andare oltre il superficiale per immergersi nei meandri oscuri del visibile e dell’invisibile, cercando con tutte le forme artistiche che padroneggia (ricordiamo che, oltre ad essere regista, è sceneggiatore, attore, musicista e pittore) un barlume che dia senso alla battaglia tra luce e oscurità.
L’opera è uniforme, concettuale, suddivisa in formato canzone ma amalgamata da una trama sonora da soundtrack in cui la voce di Crystabell si scioglie calda e sensuale, riflettendosi nel panorama onirico raccontato dai sintetizzatori.
Sullo sfondo di questo panorama ci sono sempre una figura maschile ed una femminile, come si intuisce nel primo episodio. Ed è proprio in She Knew che il cantato sembra subito scivolare morbido sulle note.

Da questo momento in poi converrebbe ascoltare l’album senza nessuna distrazione, per entrare nell’immaginario proposto dai musicisti.
Le voci della cantante si rincorrono ma senza fretta, i suoni sono dilatati, così come lo spazio e il tempo. Il risultato è un’ambientazione in cui perdersi e, a tal proposito, Crystabell ha dichiarato di immaginarsi “molte porte lasciate aperte per meravigliarsi, vagare e sentirsi sconvolti”.
In So Much Love, ad esempio, ci si rispecchia alla perfezione con la visione di Lynch. I sussurri e le note incantate di Crystabell si annodano alle tastiere. È tutto così intenso che sembra di essere ovunque e da nessuna parte.
A livello compositivo si distingue leggermente The Answers To The Questions, che in realtà ricorda i passaggi blues-western del Lynch solista.

E se con With Small Animals si ha la sensazione di trovarsi all’interno dell’universo musicale di Blade Runner, in Reflections In A Blade c’è la descrizione in musica e parole di un incubo, un cortometraggio dell’inconscio riproposto in formato soundtrack.
Una carezza noir carica di paura e di sollievo al momento del risveglio.

Nel video di presentazione della ending track Sublime Eternal Love, il regista cerca di catturare la teatralità della cantante triplicando la sua immagine ed esaltando il suo magnetismo.
Che sia un sogno, un incubo, una visione crepuscolare o notturna, a 78 anni David Lynch dà prova in Cellophane Memories, ancora una volta, di riuscire a creare storie in cui ci si può immergere totalmente. Storie in cui perdersi e ritrovarsi, ascoltando il buio e cercando la luce, consolandosi nella penombra.


/ 5
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Mezzosangue: la recensione di “Musica Cicatrene”

  • Musica Cicatrene – Mezzosangue
  • 19 Luglio 2024
  • Sony Music Entertainment

Uno sguardo al passato con gli occhi futuri. Da un’idea, un progetto, un mixtape nato dodici anni fa, ad un album, il quarto di una già brillante carriera. L’atmosfera è la stessa, la maturità è diversa. I suoni, nonostante la volontà di rimanere fedeli all’originale, si sono evoluti in un nuovo riarrangiamento degno del Mezzosangue che apprezziamo oggi. Per chi lo conosceva dai suoi esordi sicuramente queste tracce non saranno una novità, per chi invece l’ha scoperto da poco o lo ascolta per la prima volta di certo comprenderà come tali parole, seppure vecchie più di una decade, sono tremendamente contemporanee. Ciò che cambia è la profondità data dalle nuove sonorità, con l’aiuto di DJ Shocca e il featuring di Gaia.

L’uscita di questo “ritorno al passato” è stata anticipata dalla riedizione del singolo “Capitan Presente”. Il testo è sempre lo stesso, quanto mai attuale, ma la musica è più intima, quasi in contrasto con la violenza delle parole, il tutto anticipato dall’ormai noto discorso fatto per il rap contest “Capitan Futuro”, dove tutto ha avuto inizio.

I pezzi non sono stati stravolti, ma aggiustati, rivisti e resi più moderni, a partire dall’intro, leggermente più lungo del precedente, con dei piccoli dettagli musicali che esaltano al meglio le parole. Ma è con “Esistenzialismo” che si evidenzia ancora di più questo cambio di passo: la base è completamente diversa, più moderna e strutturata, ed esalta al massimo le varie fasi del pezzo, anche durante gli intermezzi del discorso tratto dal film Matrix. Nessuna rivoluzione, ma un restyling ad hoc di un pezzo che già era storia.

Più “tradizionale” invece l’ottima “Still Proud”, ma anche qui i dettagli fanno la differenza, con l’intervento di DJ Shocca, che concede piccoli tocchi di dubstep ad una base già funzionante di suo. Una canzone che assume un carattere diverso, più forte e memorabile della precedente versione. Altro esame ampiamente superato.

Nel caso di “Soldierz” viene stravolta anche la durata, quasi dimezzata, togliendo una buona parte della coda finale ed aumentando leggermente i bpm. Ennesima prova di maturità del rapper romano. Con “Piano A” si arriva alla vera hit dell’album. In questo caso il pezzo funzionava molto bene già dodici anni fa e ha solo tratto beneficio dalle piccole rifiniture aggiunte nella traccia. Parafrasando il brano, a Mezzosangue non serve mai un piano B.

L’impatto della “vecchia” versione di “Mezzosangue” era sicuramente più forte e diretto, mentre all’interno dell’album l’irruenza, seppur mantenuta nel testo e nella voce, è stata attenuata a beneficio di una maggiore attenzione alla sonorità. Questo è forse l’unico pezzo in cui la prima versione, se non migliore, è al pari del suo re-edit.

Nevermind” ha mantenuto il suo sapore iniziale, dolce e amaro, come è giusto che sia. Un pezzo violento e poetico al contempo, collocabile in qualsiasi epoca senza sfigurare mai.

A poco meno di undici minuti dalla fine di questo “viaggio nel tempo” si arriva al vero capolavoro: “Secondo Medioevo” è un diretto in faccia, senza preavviso, dove si contrappone una voce urlata ad una musica più lieve e quasi orchestrale. Il balzo in avanti qui è clamoroso e la nuova produzione la rende perfetta, dall’inizio alla fine.

Quello che potrebbe essere definito una sorta di intermezzo per via della sua durata, risulta molto diverso nelle due versioni: più in linea col resto del mixtape prima, una piccola perla nella nuova opera. Meglio la prima “Shylock” o l’attuale? Ai posteri l’ardua sentenza, si parla semplicemente di gusti soggettivi.

L’intimità raggiunta nella penultima traccia di questo nuovo album toglie tutti i dubbi su quale sia la migliore versione: “Musica Cicatrene” viene esaltata da una produzione di mirabile fattura, che la rende quasi cinematografica.

Al posto di “Incazzato Nero (outro)”, dove veniva lasciato spazio ad un monologo favoloso tratto da Quinto Potere, Mezzosangue ha preferito un saluto più romantico e ottimista, con l’ausilio della splendida voce di Gaia. L’irruenza dei vent’anni viene sostituita dalla maggiore saggezza dei trenta e “Piove Musica” è un degno ringraziamento a quello che salva tutti i musicisti, nonché il giusto finale di un’opera più completa e importante della precedente.

È anche la sua versione live, che ho potuto apprezzare al Superaurora Festival a Roma, non ha deluso le aspettative. Immerso nel suo pubblico, Mezzosangue ha dato il meglio di sé, come sempre.

mezzosangue

Chi conosce Mezzosangue sa che il suo percorso ha avuto un’evoluzione costante, ma l’occhio al passato ci ha fatto riscoprire un incipit che veramente pochi possono vantare. In attesa dei prossimi inediti, ci godiamo questi nuovi ricordi.

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Ramco: La recensione di Pròto

  • Ramco – Pròto
  • 20 luglio 2024
  • ℗eRRe 

Ramco è il titolo del progetto “solista” di Marco Franceschelli. Inizialmente partito come chitarrista dei Fronte della Spirale (2016), con cui ha pubblicato un disco nel 2019, e come membro di punta dei Blind Ride, progetto a cui ha dato anche la voce, il musicista di Campobasso ha virato verso sonorità completamente diverse, quando nel corso del 2023 ha dato vita al suo progetto da solista. 

L’idea dietro Ramco è sempre stata quella di sviluppare un’entità, più che un artista, che potesse abbracciare non solo l’espressione musicale di Franceschelli, ma anche quella di tutte le personalità artistiche che hanno orbitato attorno al progetto (e ce ne sono diverse) durante la sua stesura. Registrato inizialmente con un’ottica DIY, il progetto, che più avanti diventerà Pròto, inizia a svilupparsi maggiormente con la partecipazione di Domenico Simonelli, che contribuirà a creare un connubio perfetto tra acustica ed elettronica con l’aggiunta delle sezioni di Drum Machines. I brani subiscono mutazioni per svariato tempo, fino a quando, nel dicembre dello scorso anno, con l’ingresso di Fulvio Gramegna (basso), inizia il processo di produzione vero e proprio. Le registrazioni vere e proprie di Pròto cominciano in realtà durante febbraio 2024 a Bologna, presso “Lo studio Spaziale”, sotto la supervisione di Roberto Rettura. 

Pròto

Il disco si apre con Right the Other Side. La prima cosa che emerge durante l’apertura è che ogni ritmica repentina, ogni distorsione massiccia e in generale i più canonici tratti punk dei precedenti progetti di Franceschelli qui vengono ridotti all’osso, per far spazio a riverberi, sintetizzatori e suoni ambientali. My Names is Nothing è la prima traccia di Pròto ad aver visto la luce del sole lo scorso aprile. È un brano più dolce rispetto al suo precedente in cui le strutture di chitarra, profondamente ispirate ad un indie-rock di matrice britannica di primi anni ’90, fanno da protagoniste.

Il pesante pattern ritmico di Your Life apre ad un arrangiamento cupo e minimale, che avvolge le traballanti linee vocali di Marco. Ego’s Lie è caotica. Le voci si consumano lungo gli strumming squillanti di chitarra, per poi perdersi negli ampi riverberi del brano. L’EP si chiude con The Last Hope, brano che in qualche modo torna al punk del primo periodo, pur con una connotazione sonora completamente diversa. 


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Meshell Ndegeocello: la recensione di No More Water: The Gospel Of James Baldwin

  • Meshell Ndegeocello – No More Water: The Gospel Of James Baldwin
  • 2 agosto 2024
  • ℗ Blue Note

Una nota introduttiva per i musicisti in cerca d’ispirazione e per chi va sempre a caccia di nuova musica: Meshell Ndegeocello rappresenta uno di quei casi in cui evoluzione graduale, sperimentazione costante e personalità sono in perfetta armonia, per cui vale davvero la pena approfondire la sua discografia.

Mossi i primi passi negli anni ‘90, ha esplorato diversi generi legati alla black music con una voce calda e vellutata, sfruttando il suo polistrumentismo e rimanendo affezionata al groove ritmico del basso. 

Trent’anni dopo l’alternative hip hop di Plantation Lullabies (1993), l’anno scorso ha pubblicato l’immenso The Omnichord Real Book (2023), vincendo il Grammy Award 2024 nella categoria Best Alternative Jazz Album. 
Dopo un traguardo così importante l’artista ha deciso di superarsi, ancora, componendo un manifesto universale più che un album.

No More Water: The Gospel Of James Baldwin è stato pubblicato in occasione del centenario dalla nascita di James Baldwin, scrittore, poeta e attivista politico, un simbolo della protesta afroamericana del suo tempo.
Ndegeocello aveva iniziato a lavorare a questo concept da un po’ di anni, ritrovandosi perfettamente in linea con l’ideologia e le parole dello scrittore che ha deciso di omaggiare.
Per farlo ha messo su una squadra ben collaudata, co-producendo insieme a Chris Bruce (chitarrista) e allineando la sua voce a quelle della coppia Justin Hicks-Kenita Miller Hicks. Altre preziose collaborazioni riguardano la poetessa Staceyann Chin e lo scrittore Hilton Als, che hanno recitato con passione molti testi estratti dalle pagine di Baldwin (metà delle lyrics presenti).

Meshell Ndegeocello

Ecco perché è un manifesto più che un album. Si può considerare infatti un concept poetry album, la cui musica è al servizio di un esperimento discografico che mette insieme letteratura, poesia, preghiera e protesta.
Chiaramente anche a livello sonoro la polistrumentista si è spinta oltre, dipingendo per i 17 episodi che compongono No More Water (ognuno dei quali meriterebbe un’analisi approfondita a sé) il quadro armonico perfetto, attingendo da una tavolozza di colori che va dall’ afro-beat all’alternative-jazz contemporaneo.
Potremmo definire il disco anche come un rituale gospel, questo ci aiuta ad individuare le coordinate di un percorso spirituale alla ricerca di valori universali. 

Nel particolare, invece, emerge risonante la lotta contro il razzismo, le differenze di genere, la violenza e il bigottismo, soprattutto nei versi recitati.
A caratterizzare i brani ci sono scelte compositive che pescano dall’avanguardia black and white degli ultimi sessant’anni. Solo per fare qualche esempio: ritmi afrobeat, tastiere alla Robert Wyatt/Brian Eno, sottofondi alla Miles Davis/Nina Simone, rimandi ai King Crimson di “Discipline”, echi radiohediani, alt-jazz, psichedelia e parentesi soul/pop sofisticate. Il tutto sotto la firma inconfondibile e personale della cantante, che oggi ha raggiunto una maturità tale da poter essere annoverata tra le voci più innovative e libere della black music.

Non a caso “Meshell Ndegeocello” (nome d’arte) significa “libero come un uccello”. 

È difficile scegliere o isolare i momenti migliori quando ci si trova davanti ad un’opera del genere. Ad ogni modo si può segnalare l’interpretazione da brividi in What Did I Do, così come l’ evocativa Eyes.
Guardando la recente esibizione al Tiny Desk, ad esempio, si possono ascoltare intrecci vocali travolgenti in Love e in Thus Sayeth The Lorde.
Come non apprezzare poi la capacità in Down At The Cross (traccia conclusiva) di creare una tensione drammatica coinvolgente per trattare uno dei tanti temi delicati del disco, il suicidio, che James Baldwin considerava come un’alternativa oggettiva alle persecuzioni dovute alla discriminazione razziale.

Per non parlare degli interventi poetici, a volte strutturati come monologhi, altre volte immaginati come protagonisti principali con sottofondo di tastiere ipnotiche o frammenti psichedelici. Si possono ascoltare anche come incipit all’evoluzione di un brano. 

In sostanza, ogni parola vibra e risuona potente grazie alla performance poetica, mentre ogni nota sonorizza puntuale tutti i sentimenti che si volevano trasmettere. 

No More Water è complesso ma immediato, eclettico ed universale, un testamento musicale e concettuale, probabilmente tra i più riusciti di tutto decennio. 


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