Alternative

Nick Cave & The Bad Seeds: la recensione di Wild God

  • Nick Cave & The Bad Seeds – Wild God
  • 30 agosto 2024
  • ℗ Bad Seed Ltd / Play It Again Sam

Il superamento delle avversità porta a confrontarci direttamente con le nostre emozioni. Reagiamo tutti in maniera soggettiva e differente: c’è chi, ad esempio, risponde alla delusione con la determinazione e chi invece con la malinconia, oppure c’è chi scrive canzoni per combattere e contrastare i dispiaceri della vita. Uno su tutti è di certo Nick Cave che con i suoi Bad Seeds ha fatto uscire lo scorso 30 agosto l’ultimo disco Wild Gold per la P.I.A.S. Recording.

Si tratta di un album che si discosta molto da quello precedente, Ghosteen: Cave passa dall’affrontare in modo struggente la perdita del figlio Jethro e della ex compagna e parte storica della band Anita Lane, all’elaborazione del dolore attraverso lo stupore della semplicità terrena, di perdono e redenzione. È molto chiara, sia nei testi che nella produzione, la presenza di un’evocazione positiva della serenità d’animo, racconti epici che sembrano venire da lande sperdute, destreggiandosi fra sacro e profano.

wild god

Grazie a Song of The Lake, la sensazione iniziale è quella di assistere ad una liturgia guidata dalle novelle di un pastore, in cui la voce decisa si fa spazio fra i cori di un matrimonio orchestrale. Con “once upon a time” solitamente iniziano le fiabe, e proprio come le fiabe in Wild God Nick Cave continua i suoi racconti temporali e divini: un Dio antropomorfo in cerca dell’amore perduto sulla terra, immerso in un sound che ricorda “spaghetti western” ma in chiave australiana e moderna.

Lo stupore per le cose semplici si palesa in Frogs, un mantra psichedelico di suoni ipnotici che accompagnano lo stupore di Cave alla vista di rospi che saltano durante la pioggia domenicale. Il vero momento sacrale però si raggiunge in Conversion, dove la voce straziante e le tastiere che riempiono i vuoti esplodono in una processione corale, trasmettendo un senso di risoluzione, quella che si prova anche dopo i momenti più bui della nostra esistenza. La consapevolezza del dolore e dell’essenza umana viene testimoniata alla fine dell’album con O Wow O Wow (How Wonderful She Is), dedicata ad Anita Lane: una canzone di glorificazione e non di lutto, solenne esaltazione per la “meravigliosa” persona che è stata.  

La canzone d’amore deve essere triste, come se la tristezza fosse il rumore stesso dell’amore” afferma Nick Cave In una lezione pubblica tenuta al South Bank Centre di Londra nel 1999.  Potrebbe sembrare un ossimoro, ma in realtà senza quella malinconica bramosia d’animo che coinvolge tutti prima o poi nella vita, le canzoni amorose non avrebbero carattere, risulterebbero piatte e false.

In un mondo così veloce, soggetto a continui stimoli, le emozioni faticano ad essere vissute nella loro completezza. Siamo affamati di serotonina e ci saziamo di costanti impulsi quotidiani. Nel poco tempo che ci rimane siamo costretti a guardarci dentro e lo stesso mondo che prima ci sembrava svelto ad un tratto rallenta drasticamente e si incupisce. Solo nel momento in cui accettiamo e affrontiamo le negatività che ci si presentano possiamo essere in grado di accogliere al meglio la purezza dell’amore e di questo, ancora una volta, Nick Cave insegna e si erge a profeta.  

4,5 / 5
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The Smashing Pumpkins: la recensione di “Aghori Mhori Mei”

  • Aghori Mhori Mei – The Smashing Pumpkins
  • 2 Agosto 2024
  • Martha’s Music/Thirty Tigers

Uno sguardo rivolto al passato, senza troppe pretese, se non quello di scalzare gli ultimi due passi falsi in salsa synth pop che rientrano poco nelle corde della band statunitense. Le cinquantatré tracce di “Atum” e “Cyr” avevano sconfortato, e non poco, i fan nuovi e di vecchia data. Non che questo “Abbraccia la Bella Morte” (la traduzione di “Aghori Mhori Mei”, composta da un mix tra sanscrito e giapponese, dovrebbe essere questa) riporti ai fasti di “Mellon Collie And The Infinite Sadness” “Siamese Dream” o “Gish”, ma non si può nemmeno gridare allo scandalo. Ma se questa ultima opera degli storici Smashing Pumpkins ha alcuni spunti interessanti dal punto di vista musicale, non si può dire lo stesso riguardo i testi, piuttosto banali, in linea col Corgan degli ultimi quindici anni.

Emblematica la partenza, con un suadente giro chitarristico con echi kyussiani, che poi esplode, dopo circa un minuto, nel sound tipico del gruppo di Chicago. Riaffiorano però i demoni del frontman, che, nella sua fase di scarsa creatività, lancia invettive abbastanza sterili all’inesorabilità e alla ripetitività del tempo. Già sentito.

Aghori Mhori Mei

L’obiettivo di ricongiungersi con il passato è evidente, sia nei brani più ballad, come la dolcePentecost”, accompagnata da un tappeto orchestrale e da riff di pianoforte veramente ben riusciti, o nelle tracce maggiormente heavy, quali la successiva “War Dream Of Itself”, molto dura e cadenzata. Ma anche qui il canovaccio è lo stesso: musica sempre curata e d’impatto, parole ovvie, che non incidono. Anche nella più enigmatica “Pentagrams”, dove i musicisti danno sfoggio del loro meglio, il frontman propone un testo che non esalta minimamente il suo genio nineties, ma si limita ad un semplice trattato sull’amore.

Parafrasando le parole del recentemente defunto Albini, la terza traccia di “Aghori Mhori Mei” rispetta l’algoritmo di sconvolgimento: sicuramente la più riuscita dell’intero album sia dal punto di vista musicale che da quello lirico, “Sighommi” potrebbe sicuramente far parte degli Smashing Pumpkins degli albori, senza però risultare obsoleta ai giorni d’oggi.

E se il singolo appena citato rispettava le intenzioni esplicitate dal cantante fondatore del progetto, che riguardo quest’ultimo lavoro sosteneva che “Durante la composizione del nuovo album mi ha incuriosito il logoro assioma, ‘non puoi tornare a casa di nuovo’, che personalmente ho riscontrato essere vero nella forma, ma che mi ha fatto pensare ‘e se ci provassimo comunque?’. Non tanto nel guardare indietro con sentimentalismo, ma piuttosto come mezzo per andare avanti, per vedere se, nell’equilibrio tra successo e fallimento, il nostro modo di fare musica dei primi anni 90 poteva funzionare ancora”, in altri casi, come in “Who Goes There”, il sound è risultato datato, e forse lo sarebbe stato addirittura ai tempi del discusso “Adore”.

Andando avanti, è sempre più evidente il filo conduttore dell’intera opera: con “999” infatti si susseguono riff interessanti a slanci piuttosto “telecomandati”, così come il testo, seppur non del tutto sterile, presenta delle strofe degne di un ventenne alle prime armi.

La soaveGoeth The Fall” mostra uno schema già visto: ballata alt pop, senza gioie né dolori, che passa senza tocco ferire. Mentre la successiva “Sicarus” è composta da una struttura metal più complessa, sicuramente maggiormente degna di nota, con vari cambi di ritmo non fini a sé stessi ed un testo che, sebbene non esaltante, sembra più profondo dei precedenti.

La chiusura è affidata a “Murnau”, un sunto dell’intera fatica: poco più che sufficiente, migliore degli ultimi lavori, ma lontana anni luce dagli sfarzi iniziali. L’anima pop esce fuori in tutto il suo ego e come sempre il sound è giusto, ma nulla più.

Gli Smashing Pumpkins sopravvivono al tempo, molto più di altre band, ma ci auguriamo che tornino a vivere e ci regalino le perle degli anni Novanta, in chiave moderna.

/ 5
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Beabadoobee: La recensione di This Is How Tomorrow Moves

  • BeabadoobeeThis Is How Tomorrow Moves
  • 9 agosto 2024
  • ℗ Dirty Hit

Nel 2017, Beabadoobee, pseudonimo della cantautrice britannico-filippina Beatrice Kristi Laus, ha fatto il suo debutto con uno stile grunge e lo-fi, ispirato all’indie rock degli anni ’90. L’artista ha catturato l’attenzione con il singolo Coffee, un brano indie-folk intriso di malinconia e speranza che ha risuonato tra gli ascoltatori grazie al suo fascino. Cresciuta in un contesto multiculturale, nata nelle Filippine e trasferitasi a Londra durante l’infanzia, Beabadoobee ha trasformato le sue esperienze di vita – segnata da razzismo e stereotipi – in un’opera musicale che unisce shoegaze, ballate minimaliste e grunge, esemplificata nel suo album di debutto Fake It Flowers del 2020.

Con il successivo Beatopia nel 2022, Laus ha approfondito la sua estetica nostalgica, ma con tocchi contemporanei, esplorando un suono più variegato che ha unito l’indie-rock degli anni ’90 a elementi di jazz-pop e influenze più moderne. Brani come The Perfect Pair e Glue Song hanno consolidato la sua capacità di fondere stili apparentemente differenti, creando pezzi che parlano alla nuova generazione senza dimenticare le radici del rock alternativo.

L’album più recente di Beabadoobee, This Is How Tomorrow Moves, pubblicato il 9 agosto 2024, rappresenta un nuovo capitolo nella sua evoluzione musicale. Prodotto da Rick Rubin nello studio Shangri-La a Malibu, l’album è una riflessione sul dualismo tra l’ascesa alla fama e il desiderio di autenticità e intimità personale. Rubin, noto per la sua capacità di scavare nell’essenza di vari generi musicali, ha aiutato l’artista a mantenere il cuore attitudinale del rock anni ’90, ma con un tocco che risponde alle tendenze musicali odierne. Il disco offre una gamma sonora che spazia dal grunge al pop, con influenze jazz e indie, riflettendo un panorama sonoro ampio e inclusivo.

L’album è ricco di fusioni inaspettate: ritmi bossa nova, atmosfere “zoomer-gaze” e omaggi ad artisti iconici come Elliott Smith, mostrando la crescita di Beabadoobee come artista capace di creare strutture complesse in brani che esplorano temi di amore, perdita e identità.

This Is How Tomorrow Moves

Take a Bite, brano di apertura, cattura l’energia degli anni ’90, con chitarre distorte e produzioni dense che richiamano The Smashing Pumpkins. È caratterizzato da un mix di grunge e pop degli anni 2000, riflettendo le tensioni e le sfide adolescenziali dell’artista. Il tono è rilassato ma determinato, con testi che esplorano le contraddizioni del crescere. California è una traccia tributo all’alt-rock degli anni ’90, con influenze di band come i Pavement. La traccia riflette il “sogno americano” dal punto di vista di una giovane outsider che cerca di trovare il suo posto in un mondo complesso e disorientante. Le sonorità malinconiche e i testi riflessivi enfatizzano un desiderio di fuga e una ricerca di identità.

One Time è un brano che si ispira allo stile di Elliott Smith, con una melodia morbida e sognante. Il ritmo in tempo di valzer aggiunge un tocco nostalgico, mentre i testi esplorano la vulnerabilità e il desiderio di autenticità. È un pezzo che mescola delicatezza e introspezione, con influenze Beatlesiane, mentre su Real Man ci scontriamo con sincerità e genuinità, a confronto con vulnerabilità e disillusione. Beabadoobee utilizza una narrazione personale, descrivendo la sensazione di innamorarsi troppo facilmente per poi rimanere inevitabilmente delusa, comunicando la sua aspirazione a relazioni vere e sincere.

Tie My Shoes riflette sulle relazioni giovanili e la dipendenza emotiva, con una melodia dolce e arrangiamenti minimalisti. I testi evocano immagini di innocenza e intimità, creando un’atmosfera rilassata e contemplativa. La traccia rispecchia le sonorità più delicate di Beabadoobee, con una produzione semplice e diretta. Attraverso una melodia piano-voce, Girl Song affronta con una dolcezza disarmante le difficoltà riscontrate dalle ragazze al giorno d’oggi, sfiorando i temi del giudizio rispetto all’apparenza fisica, il tentativo di rientrare negli stereotipi di bellezza quasi perdendo di vista la propria identità, con una sensazione di dover sempre provare qualcosa alla società che è sempre costante parte della quotidianità.

Coming Home, scritto durante un soggiorno a Los Angeles, è un brano caratterizzato da un’atmosfera tranquilla e contemplativa, con arrangiamenti acustici e uno stile che richiama, ancora una volta, Elliott Smith. La canzone è una porta aperta sulla vita di convivenza, descrivendo tutte quelle piccole azioni quotidiane e le faccende domestiche che si incastrano con il tentativo di trovare tempo per la relazione. Ever Seen è una traccia con una nuova energia, dinamica e vibrante, attraverso la quale viene descritta l’importanza e la potenza emotiva di una relazione riflessa negli occhi di entrambi i componenti della coppia. In A Cruel Affair si fondono elementi indie e bossa nova, creando un’atmosfera particolare che parla di una relazione complicata e non del tutto delineata. Con una melodia leggera e ritmi caldi, il brano cattura la complessità delle relazioni moderne, mantenendo una leggerezza melodica.

Post presenta elementi pop che passano attraverso un filtro “zoomer gaze”, fondendo shoegaze e dream pop. Esplora temi di amore e perdita, utilizzando suoni eterei e riverberi per creare un effetto avvolgente e sognante, ispirato alla produzione pop di Taylor Swift. Beaches è una traccia più vivace che evoca immagini di spensieratezza e libertà tipiche della stagione estiva. La melodia è orecchiabile e incalzante, con testi che parlano del desiderio di fuga e di trovare pace ed equilibrio, richiamando un’estetica estiva senza tempo. Everything I Want può essere identificata come un “seguito spirituale” di Glue Song. Questo brano è estremamente romantico, con testi dolci e una melodia accattivante. Esprime la crescita di Laus nella comprensione delle relazioni, cercando di fare le cose “nel modo giusto questa volta”.

The Man Who Left Too Soon è una riflessione malinconica sulla perdita e il ricordo di qualcuno scomparso troppo presto. Musicalmente minimalista, la canzone mette in risalto la voce emotiva di Beabadoobee, con un arrangiamento semplice che accentua l’atmosfera intimista. Il brano è stato scritto pensando al suo ragazzo che, intorno ai vent’anni, ha subito la perdita del padre. This Is How It Went, il brano di chiusura dell’album, riflette sul processo creativo e sul ruolo della musica come forma di espressione che viene utilizzata per guarire e non per ferire. La canzone esplora il potere catartico della composizione, con testi che rivelano l’introspezione dell’artista e chiudono l’album con una nota sincera e riflessiva.

This Is How Tomorrow Moves è un album in cui traspare chiaramente la capacità dell’artista di fondere passato e presente, rimanendo fedele alla sua identità musicale pur sperimentando nuove direzioni. Con questo album, Beabadoobee dimostra di essere una voce interessante e versatile nel panorama musicale contemporaneo, capace di catturare e rispecchiare le emozioni di una generazione in costante evoluzione e sottoposta a una costante critica.

/ 5
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Fontaines D.C.: La recensione di Romance

  • Fontaines D.C. – Romance
  • 23 Agosto 2024
  • ℗ XL Recordings

Sta succedendo di nuovo, vero?

“Di nuovo nell’oscurità” – sono queste le parole che Grian Chatten, frontman della band, ha utilizzato per aprire Romance, il nuovo disco dei Fontaines D.C. a due anni di distanza da Skinty Fia.  Eppure, saranno i richiami allo “Shining” di Kubrick nel video di Romance, o le lucenti melodie di Favourite, ma questo disco sembra apparire tutt’altro che oscuro.

Da quel debutto, Liberty Belle, uscito nel 2017, ne è passata di acqua sotto i ponti. Il quintetto è stato consacrato a salvatore del post-punk con Dogrel nel 2019. Ha sfiorato il Grammy nel 2021 dopo aver pubblicato A Hero’s Death. Lo switch vero e proprio arriva però nel 2022, quando la band tira fuori dal cilindro il suo terzo disco. Skinty Fia è la cosa più completa che abbiano mai fatto, uno dei migliori dischi irlandesi dal 2000 ad oggi e un classico istantaneo. 

Ora la domanda sorge spontanea: Per quale motivo siamo tornati indietro così tanto per parlare del nuovo album? La risposta è nei fili conduttori. Gli scorsi tre dischi erano legati a doppio filo dalla stessa identica visione. Un morboso attaccamento verso la loro terra natia. Mentre su Dogrel Chatten si era scagliato sull’Irlanda – e in particolare su Dublino – sul terzo disco, uscito dopo il loro trasferimento a Londra, la band appariva come tormentata da un insaziabile senso di colpa per aver lasciato quella terra che aveva contribuito a formarli come persone e come artisti. Bene, tutto questo sembra essere solo un lontano ricordo. Ora i Fontaines D.C. sono liberi da quel tarlo, liberi di andare oltre, di esplorare e sperimentare. Su Romance tutto questo è espresso all’ennesima potenza. 

Romance

Come sonorità possiamo dire che la band sembri ripartire dai tratti Shoegaze espressi su Skinty Fia, ma la verità – anche in questo caso – è molto più articolata. Mentre facevano da spalla agli Arctic Monkeys durante il loro tour, tutti i membri del gruppo hanno avuto modo di condividere gli uni con gli altri i generi e gli artisti più disparati. Si passa da Sega Bodega agli OutKast, dai Deftones ai Korn. Spunti sonori che vanno dall’Hip-Hop al Metal, hanno influenzato pesantemente i processi creativi dei cinque membri.

Si sono presi anche del tempo per loro stessi. Grian si è trasferito a Los Angeles e ha fatto uscire il suo disco di debutto da solista. Con Chaos For The Fly si è completamente staccato dalle sonorità cupe dei Fontaines, rifugiandosi nei toni caldi del Pop Barocco e del Folk. Ha scoperto un nuovo modo di scrivere e ha portato la sua voce verso orizzonti che non aveva mai sperimentato. Deegan, il bassista, si è trasferito a Parigi, mentre O’Connell, che insieme a Chatten rappresenta una delle menti più creative del gruppo si è spostato in Spagna. Ha contribuito, insieme a Peter Perrett (The Only Ones) ad alcune sue produzioni, ha esplorato l’arte di arrangiare gli archi e, nel mentre, è pure diventato padre. Poi, come in un film, il disco ha chiamato, e i cinque ragazzi di Dublino hanno risposto. 

Romance è il cambio di rotta più incredibile che una band potesse intraprendere dai tempi di Tranquillity Base Hotel & Casino dei Monkeys e – in un certo senso – ci sono delle sensazioni simili. Non a caso, concluso il sodalizio con Dan Carey, il gruppo si è rivolto a James Ford (Depeche Mode, Arctic Monkeys, Gorillaz), per la produzione. Lui più di tutti sa cosa vuol dire intraprendere un percorso di cambiamenti radicali e, più di tutti, sa come farlo mantenendo intatta l’identità artistica. Tra gli scricchiolii distorti dell’alt-rock anni ’90 e estetiche di primi anni 2000, i Fontaines D.C. suonano come la miglior band a cui potessero mai ispirarsi, loro stessi.

Messo da parte il senso di identità dei lavori precedenti, la band non riesce però a mettere da parte la costante sensazione di degrado in cui si sente immersa. Solo che, invece di abbandonarsi completamente ad essa, questa volta sceglie il distacco. Il disco si sposta verso orizzonti astratti, a metà fra ciò che è reale e ciò che è finzione. Grian e gli altri si tengono in equilibrio fra i due mondi come dei funamboli. E mentre questa pressione, e questa sensazione di degrado sembrano non scrollartisi mai di dosso, la band ci trova dell’amaro Romanticismo.

“Forse il romanticismo è un luogo” – canta Chatten tra inquietanti crescendo e imponenti melodie nella title-track. Su Starburster arriva uno dei momenti più sperimentali del gruppo, dove sezioni ritmiche propulsive e stridenti melodie di Mellotron, fanno da bozzolo per tematiche autodistruttive, prima di abbandonarsi a orchestrazioni barocche. Nato da un litigio tra Chatten e O’Connell, Here’s The Thing schiaccia il piede sull’acceleratore (o sui pedali delle distorsioni). Il brano è ansiogeno eppure alla costante ricerca di un briciolo di desiderio. Desire resta su questo ridondante gioco di ritmiche, delle montagne russe che oscillano fra ritmi narcotizzati e frenetici, abbandonati a tinte shoegaze e sonorità sensuali. 

Le influenze losangeline si avvinghiano a In The Modern World. Tra suoni fortemente ispirati allo slowcore di Lana Del Rey, il brano si addentra in tematiche fortemente politicizzate, che raccontano di un mondo decadente, del fallimento del capitalismo, e della lotta politica sotto un triangolo amoroso nell’occhio del ciclone. La cosa ironica è che non esiste niente di più romantico di tutto ciò. Su Bug emergono le influenze folk che hanno caratterizzato tutto il debutto solista di Chatten, con uno strumming che ricorda vagamente I Love You. L’acusticità viene polverizzata da orchestrazioni e chitarre squillanti, mentre il frontman danza fra due mondi, uno influenzato dai R.E.M. e l’altro dall’era più pop degli Smiths.

Loop e scricchiolanti chitarre acustiche guidano il sentimentalismo di Motorcycle Boy. Ciò che colpisce a questo punto di Romance è ancora una volta il testo. Grian non ha più paura di parlare di sentimentalità, non importa in che ottica. Nonostante il lavoro squisito di tracce come A Couple Across The Way, lo stesso Chatten aveva più volte detto di trovarsi in gravi difficoltà quando doveva scrivere di sentimenti. Bene, sembra aver trovato la sua strada. Sundowner è un’ode all’amicizia scritta e cantata da Conor Curley, mentre su Horseness Is The Whatness tornano, come ai tempi di Dogrel, i riferimenti a Joyce. Essenzialità e Orchestrazioni sono le due parole chiave di questo brano. Il battito cardiaco della figlia di O’Connell (che ha scritto e arrangiato la traccia), si unisce a un crescendo malinconico e allo stesso tempo caldo e avvolgente. 

Death Kink ancora una volta assorbe scelte sonore dai dischi precedenti, salvo poi trasformarle in strutture apocalittiche a sostegno di un testo che analizza in lungo e in largo il risveglio da una relazione guidata dalla manipolazione in un mondo che farebbe rabbrividire Orwell. 

E poi? Forse è meglio non svegliarsi mai del tutto. Il disco si chiude con il jangle-pop a tinte shoegaze di Favourite. Dite la verità, vi siete spaventati quando questa canzone è stata rilasciata come singolo. Avete pensato che i Fontaines D.C. fossero l’ennesima band venduta a chissà quale sistema discografico. Solo dopo aver ascoltato questo disco nella sua interezza realizziamo il suo vero significato. Perché a volte si può trovare del bello anche negli attimi di tristezza. Perché a volte ti è concesso solo arrenderti in balia degli eventi. Come l’amaro Romanticismo di due innamorati che si concedono l’ultimo bacio, mentre il mondo esplode.

5,0 / 5
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Ramco: La recensione di Pròto

  • Ramco – Pròto
  • 20 luglio 2024
  • ℗eRRe 

Ramco è il titolo del progetto “solista” di Marco Franceschelli. Inizialmente partito come chitarrista dei Fronte della Spirale (2016), con cui ha pubblicato un disco nel 2019, e come membro di punta dei Blind Ride, progetto a cui ha dato anche la voce, il musicista di Campobasso ha virato verso sonorità completamente diverse, quando nel corso del 2023 ha dato vita al suo progetto da solista. 

L’idea dietro Ramco è sempre stata quella di sviluppare un’entità, più che un artista, che potesse abbracciare non solo l’espressione musicale di Franceschelli, ma anche quella di tutte le personalità artistiche che hanno orbitato attorno al progetto (e ce ne sono diverse) durante la sua stesura. Registrato inizialmente con un’ottica DIY, il progetto, che più avanti diventerà Pròto, inizia a svilupparsi maggiormente con la partecipazione di Domenico Simonelli, che contribuirà a creare un connubio perfetto tra acustica ed elettronica con l’aggiunta delle sezioni di Drum Machines. I brani subiscono mutazioni per svariato tempo, fino a quando, nel dicembre dello scorso anno, con l’ingresso di Fulvio Gramegna (basso), inizia il processo di produzione vero e proprio. Le registrazioni vere e proprie di Pròto cominciano in realtà durante febbraio 2024 a Bologna, presso “Lo studio Spaziale”, sotto la supervisione di Roberto Rettura. 

Pròto

Il disco si apre con Right the Other Side. La prima cosa che emerge durante l’apertura è che ogni ritmica repentina, ogni distorsione massiccia e in generale i più canonici tratti punk dei precedenti progetti di Franceschelli qui vengono ridotti all’osso, per far spazio a riverberi, sintetizzatori e suoni ambientali. My Names is Nothing è la prima traccia di Pròto ad aver visto la luce del sole lo scorso aprile. È un brano più dolce rispetto al suo precedente in cui le strutture di chitarra, profondamente ispirate ad un indie-rock di matrice britannica di primi anni ’90, fanno da protagoniste.

Il pesante pattern ritmico di Your Life apre ad un arrangiamento cupo e minimale, che avvolge le traballanti linee vocali di Marco. Ego’s Lie è caotica. Le voci si consumano lungo gli strumming squillanti di chitarra, per poi perdersi negli ampi riverberi del brano. L’EP si chiude con The Last Hope, brano che in qualche modo torna al punk del primo periodo, pur con una connotazione sonora completamente diversa. 


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/ 5
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Diiv: La recensione di Frog in Boiling Water

Ci sono artisti che col passare del tempo mutano e sperimentano suoni, per perdersi in nuovi stimoli e poi ritrovarsi a proprio agio in altre vesti. Nel caso dei DIIV non si tratta di un cambio di abito ma tuttalpiù di colori. Infatti, con l’ultimo lavoro “Frog in Boiling Water”, uscito lo scorso 24 maggio per la Fantasy Records, la band è passata da immaginari più astratti ed eterei ad altri più pragmatici e viscerali, sedimentando al contempo il sound che li ha fatti diventare il punto di riferimento della scena shoegaze.

Rispetto agli scorsi tre album pubblicati, quest’ultimo ha avuto un parto tutt’altro che semplice, dovuto principalmente ai tumulti pandemici e al passaggio di etichetta, dalla Capture Tracks alla Fantasy. Inoltre, la svolta sulla produzione musicale e lirica, non più solo in mano a Zachary Cole Smith ma in buona parte a tutto il resto del gruppo, ha creato un’interazione espressiva che rende il nuovo lavoro sicuramente più maturo e diversificato rispetto ai precedenti.

Frog in Boiling Water

Il nome dell’album è un richiamo esplicito al romanzo The story of B. di Daniel Quinn e implicito al principio della rana bollita del filosofo Noam Chomsky, in cui viene descritta l’incapacità dell’essere umano moderno di reagire prontamente alle avversità, se non quando è ormai troppo tardi, proprio come una rana messa a bollire a fuoco lento che non si accorge dell’epilogo della propria inesorabile sorte. Frog in Boiling Water presenta difatti continui messaggi socioeconomici attuali e più o meno diretti, rivolti ad un mondo sempre più devoto al capitalismo e al consumismo imperante.

In Amber è la prima traccia e con essa ci si immerge in atmosfere inquietati, con distorsioni che inglobano quasi totalmente la voce del cantante, il quale nel frattempo esprime la rassegnazione per un futuro già scritto, il desiderio di sparire e ritrovarsi alla fine del tutto come un fossile di ambra.

Proseguendo nell’ascolto arriva in Raining on Your Pillow, traccia energica colmata dall’acutezza dell’arpeggio di chitarra, tappeto sonoro che riempie il pezzo per tutta la sua durata, insistente come le piogge invernali, pungenti, fredde, quasi fastidiose. Il senso di inadeguatezza si spezza con l’avvento di Everyone Out ed i suoi armonici battenti sulle corde metalliche, dove il senso di dolore si tramuta in consapevolezza delle proprie azioni passate ma soprattutto su quelle future di emancipazione – “Try and stop me know, I’m ready for my rise”.

Con Somber The Drums si ha la crasi dei tre album precedenti: l’altalena sonora di “Deceiver”, la linea melodica di “Is The is Are” e il climax perpetuo di “Oshin”, un insieme di elementi dosati e missati perfettamente per un risultato quasi perfetto.

L’immaginario di cui sopra viene completamente sviscerato con Soul-Net: si ha di fronte una società fittizia neanche troppo lontana dalla realtà, resa ancora più grottesca dall’omonimo soul-net.co, un sito web zeppo di contenuti complottistici e psicotici, creato appositamente per alimentare il concept di critica e collasso sociale.

Con queste dieci tracce e con non poche difficoltà la band è riuscita a superare l’impulsività e l’hype dei primi anni, arrivando in poco più di una decade a consacrare la propria bravura e determinazione artistica. Un sound che strizza l’occhio ai giganti del genere come Slowdive e My Bloody Valentine ma che rimane nell’atteggiamento indie che li ha da sempre contraddistinti. Al quarto album i DIIV continuano a dire la propria senza mai discostarsi troppo dal nido shoegazer, approfittando della loro crescita e maturità. Seppur trattandosi di un buon lavoro, con un ottimo imprinting non solo musicale ma anche sociale, forse sarebbe giunta l’ora per i quattro di Brooklyn di allontanarsi dal solito vestiario e indossare indumenti nuovi, differire dalla rana e saltare via dall’acqua bollente, si con il rischio di fallire, ma almeno con la consapevolezza di averci provato.

Voto 7,5

5,0 / 5
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Shellac: la recensione di “To All Trains”

  • To All Trains – Shellac
  • 17 Maggio 2024
  • Touch and Go Records

Nemmeno il tempo di gioire dell’imminente uscita del sesto album in studio degli Shellac, a ben dieci anni dal precedente “Dude Incredible”, che arriva la notizia sconvolgente: a pochi mesi dai sessantadue anni ci lascia uno dei personaggi più iconici ed influenti dell’alternative moderno, il cantante, chitarrista, produttore musicale, ingegnere del suono, critico musicale, e chi più ne ha più ne metta, Steve Albini. Una leggenda, senza se e senza ma, che ha prodotto artisti quali Nirvana, Pixies, PJ Harvey, Slint, solo per citarne alcuni, ed ha rivoluzionato il rock alternativo americano. Questo maggio trasporta quindi i fan in un mix di eccitazione e malinconia, così come l’ascolto di questo attesissimo “To All Trains”.

Cinico, sprezzante, estremamente provocatorio, Albini era solito evitare interviste e, qualora si riuscisse ad “intercettarlo”, dava il via a commenti che oggi sarebbero impossibili da pubblicare in un mondo così politicamente corretto ed incline alla nuova cultura woke. Persona controversa, ma coerente in un comportamento poco edificante: infatti negli anni non ha risparmiato insulti nemmeno a band alle quali ha contribuito al successo (definì i Pixiesquattro vacche così ansiose di farsi guidare con l’anello al naso”).

Ma veniamo al musicista e cerchiamo di sintetizzarne gli ingredienti: la base è senza dubbio punk, il noise è il filo conduttore, un pizzico di post rock, il tutto condito con una spezia esclusiva, soprattutto nel ’94, anno di esordio degli Shellac con “At Action Park”, ovvero il math rock. I testi, brevi ma molto diretti e pungenti, hanno però un comune denominatore con la musica di Albini e soci, ovvero la sinteticità e il minimalismo. Il mix è tra rumore e algebra, scevro da ogni particolare effettistica, allo stato grezzo.

To All Trains

Per analizzare l’album è bene basarsi su quanto sosteneva la mente che ne stava dietro: “la terza traccia dovrebbe essere quella che ti sconvolge. La uno deve dire alla gente, ehi siamo qui, e puoi tirare a vuoto nella due, ma la tre deve tirare via la vernice dalle pareti”.

Albini è un uomo di parola e “WSOD” chiama l’ascoltatore che, senza ombra di dubbio, sa di trovarsi di fronte alla band di Chicago. L’incipit se lo ritaglia la “ferrosa” chitarra, con il sound, unico nel suo genere, generato da plettri in rame e manico in alluminio. Si prosegue con la percussività del riff, inconfondibile con altre band, e gli altri strumenti che entrano progressivamente, quasi a colorare l’ossessivo giro di chitarra che rimane immutato fino ad un minuto dalla fine, dove viene sostituito dallo spoken word più minimale che ci sia. “Aspiro al bronzo, ma mi accontento del piombo, spacciato per oro, per il commercio turistico, assegnato dopo i test. Urina, sangue e capelli. Quei tre sono sempre un tutt’uno. Date a quell’uomo una medaglia, date a quell’uomo una medaglia”, niente di più, eccezion fatta per l’esplosione degli ultimi venti secondi. Iniziamo bene.

La seconda traccia segue la falsariga della prima, ma qui viene evidenziata maggiormente la struttura matematica del brano. Gli strumenti e la voce si incastrano in modo tale da creare una sequenza perfetta, a tratti ipnotica, soprattutto in chiusura. Nella teoria albiniana si può “tirare a vuoto” nel secondo pezzo, ma di fronte ad un tale livello sonoro ci permettiamo di dissentire.

Ed eccoci di fronte alla “sverniciatura delle pareti”: il pogo è d’obbligo con “Chick New Wave”. Poco meno di due minuti e mezzo di schitarrate, urla, intermezzi timbrici e botte in faccia. Non è il loro manifesto, ma sicuramente quello in cui maggiormente è emersa l’anima punk.

What’s the panic with you?” apre l’algebrica “Tattoos”. Qui torniamo in pieno stile shellachiano, dove gli strumenti dialogano fra loro e la voce entra in punta di piedi, quasi a non voler disturbare troppo il discorso musicale. Altro capolavoro di una band inestimabile.

Wednesday” viene introdotta da un ritmo tribale: i tom percossi da Todd Trainer accompagnano l’ascoltatore all’interno delle profondità più cupe dell’album. Si sfiora il doom e la voce, nelle rare apparizioni, grava ancora di più il tema. Si fa strada maggiormente nel finale, dove prende il sopravvento e racconta una storia macabra, degna dell’accompagnamento musicale. Cos’altro aggiungere?

La vetta più alta di questa opera immensa arriva in sesta posizione, con “Scrappers”. Il sunto della band può essere sintetizzato in questi due minuti e venti secondi: l’esaltazione matematica del punk in chiave punk, con l’alternanza tra cantato e parlato, in un unico grido “we’ll be pirates!”.

Il premio per il miglior testo lo vince a mani basse la canzone più breve di tutte: “Days Are Dogs” sembra una poesia, un testamento spirituale recitato magistralmente da quello che è al tempo stesso autore e fruitore. “Sono l’ultimo giorno della tua vita, vissuto oltre ogni aspettativa”, un monito che dovrebbe ronzare sempre nelle teste di tutti.

Dallo spoken word precedente si passa al primo ed unico pezzo interamente cantato. Una sorta di marcetta perdura fino all’ultimo minuto, dove tutti gli strumenti cambiano rotta. Nell’immensità del decalogo di “To All Trains”, “How I Wrote How I Wrote Elastic Man (Cock & Bull)” risulta forse il più “normale”.

Prima di chiudere, Albini e soci hanno deciso di rendere omaggio al musicista e ingegnere del suono Rob Warmowski, morto nel 2019 all’età di 52 anni. Il titolo, “Scabby The Rat”, che prende il nome dal roditore gonfiabile usato dagli attivisti sindacali, era anche l’account twitter pro labor creato dallo stesso musicista. Emblematiche le parole di affetto rivolte dal cantante della band: “La scena musicale è come una famiglia, e Rob era sempre lo zio socievole che conosceva i nomi di tutti i cugini e faceva le presentazioni e iniziava le conversazioni in modo che tutti si sentissero a casa. La maggior parte delle persone che conosco nel mondo della musica ha avuto con Rob almeno un rapporto di sfuggita. E tutti loro lo hanno apprezzato.”

Non poteva esserci finale migliore. “I Don’t Fear Hell” è il saluto più puro che Albini potesse rivolgere al suo pubblico. È tutto giusto, dalla musica funerea e rarefatta, algebrica e rumorosa, al testo che sembra essere un addio, ma sempre in pieno stile Shellac. I sentimenti sono contrastanti: così, tra una lacrima e una risata, ci apprestiamo a concludere questa perla.

Le parole non sarebbero mai abbastanza per ringraziare questo maestro alternativo della moralità. Ci limitiamo ad immaginare come lui stesso ha voluto descrivere il suo approdo nell’aldilà, perché d’altronde “se c’è un paradiso, spero che si stiano divertendo, perché se c’è l’inferno, conoscerò tutti”.

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Cigarettes After Sex: La recensione di “X’s”

  • Cigarettes After Sex – X’s
  • 12 Luglio
  • Partisan Records

Come suona la sensualità? 
Potremmo chiedere ai Cigarettes After Sex, autori di un dream pop minimale che negli ultimi dieci anni ha fatto sognare milioni di persone.
Anche se la musica cambia velocemente, la band texana non si scompone e rilascia X’s, riproponendo in dieci brani la formula sonora con cui hanno conquistato la fama mondiale prima sul web, poi sui palchi, trasudando sensualità e impulsi passionali contagiosi.
Il mix di influenze musicali, come dichiarato dagli stessi CAS, va dai Cocteau Twins a Morricone, fino ad arrivare ai Mazzy Star, riuscendo a trovare una voce personale.

X's

Viaggiando sempre su tonalità di bianco/grigio/nero, la voce androgina di Greg Gonzales sfuma il dolore e la malinconia raccontando in X’s un amore ormai finito. 
Il leader, tra l’altro, ha voluto registrare nello stesso appartamento in cui viveva con la sua ex, forse per terapia d’urto o magari per orchestrare le emozioni, assorbendo l’atmosfera delle stanze in cui quell’amore si è manifestato nel quotidiano, per poi affievolirsi.
C’è molto contrasto, perché il dramma è alleggerito dalle strutture melodiche. Per cui si riesce, ancora una volta, ad essere “megafono emozionale” che vibra nel cuore sognante/dolorante degli ascoltatori.
Per fare tutto questo, però, rimangono fin troppo fedeli a sé stessi. Gonzales ne è consapevole perché le sue canzoni, come ha dichiarato, non devono essere chissà quanto ricamate, basta il minimo e indispensabile per creare l’atmosfera giusta.
Certo, la tentazione di affermare che i brani sono tutti uguali sin dal primo disco è molto forte, ma cerchiamo di trovare qualche traccia di novità.

Innanzi tutto si ha l’impressione che, nel complesso, l’andamento slow-tempo abbia ceduto il passo al mid-tempo. 
Poi c’è l’interpretazione del cantante, che sicuramente non si discosta dal suo stile, ma nasconde una leggera tendenza a sussurrare con meno intensità.
Fondendo queste due considerazioni l’album suona più pop che dreamy, ma in realtà per il cantante “il disco sembra brutale”, sempre perché al centro di tutto c’è una separazione dolorosa da cui non riesce a prendere le distanze con indifferenza.
Ma per chi fatica a metabolizzare il contrasto tematiche/sonorità, si consiglia di ascoltare Hideway, diversa dal resto per giro di accordi, scenario simbolico e carica emotiva. Minimale, slow-tempo e vagamente dark, è l’intimo “nascondiglio” di due innamorati (“Now the sun’s out/ we’re feeling its sweet light/Waves are crashing/ they’re flying those long kites”), una coccola dolceamara da mettere in sottofondo stringendosi tra il cuscino e le lenzuola.
Anche Baby Blue Movie, nostalgica e dark-dreamy, rompe leggermente lo schema di composizione classico dei texani. Qui Gonzales riflette sull’importanza di riconoscere il valore dell’amore vissuto nel momento presente, distaccandosi dall’idealizzazione e dall’approccio da favola.

Tutto il resto, a livello musicale, rimane appunto molto fedele a quanto già ascoltato in Cigarettes After Sexed in Cry. Ed effettivamente è difficile allontanarsi da una formula sonora che funziona così bene. Si possono fare diverse ipotesi su “come avrebbe suonato quest’album se…” ma alla fine, ad oggi, Gonzales ha un disco in più con cui può superare le sue vicende amorose. Noi altri ci accontentiamo di un’altra manciata di canzoni ben fatte e che in un modo o nell’altro vanno in coda alla “playlist d’atmosfera” da tenere pronta in tutte le situazioni in tonalità bianco/grigio/nero.


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Scream From New York, NY: recensione del disco di debutto dei Been Stellar

  • Been Stellar – Scream From New York, NY
  • 14 giugno 2024
  • ℗ Dirty Hit

I Been Stellar sono una band emergente che ha rapidamente catturato l’attenzione della scena musicale grazie al loro rock viscerale e incisivo. Originari di diverse parti degli Stati Uniti, i membri si sono riuniti a New York, ispirati da leggende come i Velvet Underground e i The Strokes.

Il loro nuovo album, Scream from New York, NY, uscito il 21 giugno 2024, è una rappresentazione efficace del caos e dell’energia della città. Prodotto da Dan Carey, noto per il suo lavoro con band come Squid e Fontaines D.C., l’album è un’esplorazione sonora delle esperienze urbane. Il loro sound mescola influenze grunge, post-punk e rock, richiamando i Radiohead. È caratterizzato da chitarre graffianti, ritmi martellanti e testi che riflettono la cruda realtà della vita nella metropoli. La band riesce a trasmettere una sensazione di immediata vicinanza, con brani che oscillano tra l’angoscia e la speranza, offrendo una prospettiva unica e autentica di New York City.

Scream From New York

L’album si apre con Start Again, un brano veloce che imposta il tono con la sua energia frenetica e il testo ricco di suggestioni. La voce distintiva di Sam Slocum, piena di urgenza, funge da narratore. La produzione, caratterizzata da chitarre aggressive e percussioni martellanti, trasmette, insieme al testo, il desiderio di un nuovo inizio. Frasi come “New York wasted, start again” ripetute evocano perfettamente il bisogno di rinnovamento.

Seguendo l’apertura, Passing Judgement ha ritornelli orecchiabili e un suono dinamico. Le chitarre di Skylar Knapp e Nando Dale brillano in questo brano, dimostrando la capacità della band di creare canzoni che risuonano profondamente con il pubblico. Il testo esplora temi di critica sociale e auto-riflessione, specialmente il tema del giudizio.

“Pumpkin” offre un’atmosfera più lenta e psichedelica, con linee di chitarra distorte e arrangiamenti sognanti che mostrano la versatilità del gruppo. La canzone parla di un amore descritto come “killing time”; dai testi emergono le attività quotidiane e il tumulto emotivo di una relazione che sembra destinata a fallire oppure a continuare in eterno per inerzia.

Un’altra traccia di spicco, Can’t Look Away, costruisce una tensione intensa grazie alla batteria di Laila Wayans e riflette l’angoscia della vita a New York. I suoni utilizzati, che spaziano da riff di chitarra taglienti a basi ritmiche incalzanti, creano un paesaggio sonoro che evoca la frenesia della città. Il testo affronta l’incapacità di distogliere lo sguardo dalle dure realtà della vita nella Grande Mela, con frasi come “if there was a reason we lost it for good, buried on Broadway it’s under now, misunderstood”, che portano alla luce l’evidente contrasto tra il mondo degli artisti di successo e le difficoltà delle persone comuni con l’appello finale “we can’t look away.”

Verso la fine dell’album, Takedown offre un momento di riflessione con il suo ritmo delicato e le linee di basso emotive di Nico Brunstein, che si combinano alla perfezione con la voce di Slocum. La produzione di questo brano mette in risalto l’uso di effetti riverberanti e texture sonore ricche, creando un’atmosfera intima e contemplativa. Il testo parla di vulnerabilità e lotta personale, incitando a non lasciare che il conformismo ci porti ad essere persone vuote e prive di emozioni: “You decide, know your worth and cut into the lime again.”

L’album si chiude con I Have the Answer, un brano che culmina in un climax potente, riassumendo il sound distintivo della band fatto di caos bello e strutturato. Gli arrangiamenti finali, con chitarre distorte e cori potenti, lasciano un’impressione duratura. Il testo esplora la ricerca di verità e significato in un mondo caotico, con frasi come “I have the answer, just for a little while.”

Ogni traccia del disco è un grido di ribellione e sopravvivenza, un viaggio attraverso i vicoli e i grattacieli di una città che non dorme mai. Con questo album, i Been Stellar consolidano la loro posizione nella scena musicale contemporanea, dimostrando di essere una forza creativa capace di catturare l’essenza di una delle città più iconiche del mondo. In sintesi, “Scream from New York, NY” è un ascolto imperdibile per chiunque voglia immergersi nel cuore pulsante di New York attraverso la lente sonora di una band giovane e promettente.

4,5 / 5
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Love Changes Everything: La recensione dell’ottavo album dei Dirty Three

  • Love Changes Everything – Dirty Three
  • 28 giugno 2024
  • Drag City


Dopo 12 anni i Dirty Three hanno rilasciato Love changes everything, sei tracce che non tradiscono lo stile e la filosofia musicale del trio.
Chi segue Nick Cave, sa bene che negli ultimi trent’anni ha collaborato con il violinista e compositore Warren Ellis, colonna portante anche della band australiana, con cui padroneggia a proprio piacimento gli schemi del post rock, cambiando e rompendo le strutture con semplicità. 
La vocazione strumentale ha portato Ellis a firmare molte colonne sonore, alcune delle quali proprio con Nick Cave (come ad esempio per The Road, thriller fantascientifico con Viggo Mortensen), ricordando inoltre un altro duo collaudato che alterna il lavoro di band alle soundtrack per il cinema: Trent Reznor e Atticus Ross.

Per cui le coordinate strumentali hanno condotto Love changes everything (opera che dà il titolo a tutte le tracce) verso strade che in un modo o nell’altro sono state già percorse. 
Non si può di certo urlare al miracolo o fare un paragone con l’apice raggiunto con Ocean Songs.

Ciononostante ci sono spunti interessanti ed un filo conduttore che lascia un senso di sospensione in bilico tra creazione e annullamento, senza mai portare alla distruzione, ma trovando sempre un espediente risolutivo. Partendo da questa altalena emotiva, si è tentato di abbozzare a livello simbolico quanto metabolizzato dagli ascolti.

Love Changes Everything

Love changes everything I

Incipit con rumori industriali. È una jam in cui i tre strumentisti prendono le misure, tracciando un’ipotetica direzione. 
C’è una ricerca insistente del caos, dissimulata dai loop classicheggianti del violino. Poi la corsa di Jim White dietro le pelli, sporcata dalle distorsioni di Mick Turner. Chiusura improvvisa.

Love changes everything II

Pianoforte malinconico in primo piano, accenni di batteria, un tappeto di riverberi e violino distorto. Chiudendo gli occhi si ha davanti un caleidoscopio che stringe sui ricordi più cari e allarga sui pensieri disturbanti. Anche se l’immagine cambia, la band continua la seduta di ipnosi adattandosi ad ogni sfumatura dell’inconscio.

Love changes everything III

Prosegue sugli strascichi del secondo episodio, lasciando inizialmente il timone alla batteria.

Lo scenario potrebbe essere in un luogo qualsiasi, magari in un porto alle prime luci dell’alba, con i movimenti dei marinai che si annodano ai suoni delle altre navi prima della partenza. Il pianoforte partecipa a questo rito preparando la scena al violino e alla chitarra.  Prima di mollare gli ormeggi il pizzicato del violino anticipa il saluto in solitaria della chitarra. Così, la nave lascia il porto. 

Love changes everything IV

La chitarra rimane sulla scena, aprendo il quarto episodio e dialogando sin da subito con il violino.

Se è vero che “l’amore cambia ogni cosa”, probabilmente i Dirty Three avranno scavato in profondità lasciando la rumoristica alle spalle e ricercando emozioni difficili da sonorizzare.
Il brano riesce a toccare delle corde particolari e a fornire all’ascoltatore un’ancora a cui aggrapparsi durante le riflessioni amorose.

Love changes everything V

Una volta raccolti gli strumenti e lasciata la nave, si può immaginare un’altra scena, con Ellis e soci fermi al binario di una stazione vuota.

La jam session questa volta prepara l’arrivo di un treno fantasma, con chitarre psichedeliche e violini che si alternano per simulare il movimento e la velocità crescente. Dopo il passaggio ravvicinato, i tre continuano a guardare il treno e a diminuire l’intensità.

Love changes everything Vol. I

Lasciata la stazione, gli strumenti riprendono a suonare librandosi verso l’alto, affidando ancora una volta al pianoforte (e successivamente alla chitarra) il compito di armonizzare l’ambiente sonoro, trovando un compromesso con i fraseggi ipnotici del violino. La batteria, che in tutto l’album rincorre e si fa rincorrere, contribuisce a mantenere quel continuo senso di sospensione, che ora si trasforma in equilibrio, un momento dopo fa rimanere aggrappati ad un filo a strapiombo nel vuoto.


Love changes everything si candida a soundtrack sperimentale, una di quelle su cui poter costruire una fiaba moderna, una sceneggiatura o una storia d’amore… che può cambiare tutto.


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