arctic monkeys

Arctic Monkeys: la recensione di “The Car”

  • Arctic Monkeys – The Car
  • 21 Ottobre 2022
  • ℗ Domino Recording Co. Ltd.

Tesoro, è stato bello

È tardo pomeriggio e, sul Sunset Boulevard di Los Angeles, un uomo passeggia. L’aria è tranquilla, i raggi del sole iniziano a farsi sempre meno caldi, mentre un frastuono si leva dai pressi del Roxy Theatre. Una folla urlante insegue quattro ragazzi con capelli laccati e i giubbotti in pelle. L’uomo si volta. Li fissa con un mezzo sorriso, mentre loro, non curanti di lui guardano agli schiamazzi con gli occhi scintillanti. Con lo sguardo di chi ce l’ha fatta. 

Uno dei pregi più importanti degli Arctic Monkeys è sempre stato quello di saper evolversi in maniera incredibile, disco dopo disco. Ogni progetto ha seguito passo passo la loro crescita e maturazione personale. Dopo che “AM” li ha catapultati sui palchi più importanti di tutto il mondo, la band ha dato prova di quanto tentacolare fosse la sua visione di musica quando, nel 2018 ha eseguito una potente virata verso “Tranquility Base Hotel & Casino”. Le intriganti atmosfere “Kubrickiane” di un hotel dello spazio avevano creato l’abitazione perfetta per rinchiudere tutti i dubbi e le paure di un Turner intimo come mai era stato, almeno fino a quel momento. Se in quel disco iniziavamo a sentire dei richiami piuttosto forti al crooner, con spruzzi di Jazz e Soul qua e là, nel settimo lavoro, abbiamo capito che il cambiamento dei Monkeys non era solo una nuvola passeggera. 

“The Car” trasuda teatralità da tutti i pori. Il disco si interseca nelle linee vocali labirintiche di Turner, aiutate da ampie orchestrazioni e synth vaporosi. Questo è quello che si può considerare a tutti gli effetti un progetto da solista per il frontman della band, che ne ha scritto tutti i testi e composto le melodie, tra Parigi e Los Angeles. Sebbene al primo ascolto possa risultare strano e scollegato, come per altri dischi dei Monkeys, più ci fai l’abitudine e più riesci a capire dove le canzoni si intrecciano fra di loro. Tra gli ambienti sfocati è l’astrattismo di “The Car” volteggiano nell’aria, storie d’amore, dubbi e desideri di un giovane non più così tanto giovane. 

The Car

Per quanto, in un’intervista prima dell’uscita dell’album, Turner parlava di un ritorno a sonorità energiche, simil primi lavori della band, lungo le 10 tracce di The Car, non riusciremo mai a trovare qualcosa di simile. E non per forza è un male. The Car nasce da un periodo di riflessione, dopo il tour di “TBHC”. La band aveva preso una pausa per schiarire le idee e cercare di buttare giù nuovi progetti. Alla fine Alex ha prevalso. È riuscito a catturare l’essenza del momento che stava vivendo e l’ha rinchiusa nelle tracce. Il processo creativo è stato però più collaborativo. Insieme a James Ford, produttore di lunga data, la band si è ritrovata ai “La Frette Studios” di Parigi, dove sono riusciti a bilanciare cifre stilistiche vintage e suoni comunque innovativi. 

L’album si apre con quella che è forse la traccia più importante. “There’d Better Be a Mirrorball” è nostalgica. L’arrangiamento orchestrale brilla sotto la voce di Turner a metà fra amara malinconia e profondità. Ogni suono è nel posto giusto al momento giusto. Quasi ci si scorda di quell’intervista di Alex. E forse quelle sonorità energiche cercate e ricercate, non sono più poi così importanti.

“I Aint’t Quite Where I Think I Am” affonda in un incrocio di Soul e Funk, dove le liriche introspettive e incerte, si assottigliano per dare spazio a groove vivaci, mentre “Sculptures of Anything Goes” ci scontriamo con cupe sperimentazioni elettroniche e testi ipnotici e criptici. In “Jet Skis on the Moat” torniamo a ambientazioni soffici. È tutto delicato, dai sussuri di Alex ai puliti suoni di chitarra. Desideri e rimpianti creano un dolce-amaro momento di riflessione, prima che la traccia defluisca nel secondo gioiello di questo disco. 

“Body Paint” fa del dinamismo il suo punto forte. L’intensità vocale si defila man mano che gli arrangiamenti orchestrali crescono. Amore e inganno sono descritti in maniera impeccabile. Nella title-track le “scimmie” si spostano verso ambientazioni acustiche. Gli arpeggi di chitarra guidano un arrangiamento estremamente complesso. I rullanti intonano quella che sembra una marcia funebre. Tanto più la cupezza aumenta, tanto più le orchestrazioni crescono, mentre Turner rimane lì. Incastrato in un limbo di ricordi e momenti passati.

“Big Ideas” ha un sound più raffinato. Le influenze Jazz si fondono a un paesaggio sonoro cinematico, in cui la sezione di fiati si rivela la protagonista. Ci sono ambizioni e sogni, raccontati con una prospettiva tanto speranzosa quanto realistica. Qui però affiora un pensiero. Siamo forse ai titoli di coda? Quel film che erano gli Arctic Monkeys è finito? Poco importa in realtà, perché se questa è la loro uscita di scena (e spero vivamente che non lo sia), è il modo migliore per chiudere. 

“Hello You” ci fa dimenticare questi “brutti pensieri” con sound più energici e ritmati. Qui Alex è diretto come mai lo era stato nelle precedenti 7 tracce. Dura poco, giusto il tempo di tornare ad una ballata dai tratti Beatlesiani. In “Mr Schwartz” la solitudine espressa nelle liriche sfiora un arrangiamento acustico dolce ed estremamente emotivo. Con “Perfect Sense”, traccia di chiusura, vengono riversate tutte le tematiche trattate in precedenza, su linee melodiche e orchestrazioni lamentose. E il disco si chiude.  

È di nuovo tardo pomeriggio e, sul Sunset Boulevard di Los Angeles, l’uomo sorride ancora mentre fissa quei quattro ragazzi che sanno di avercela fatta. Ricorda quei momenti in cui era lui ad avere i capelli laccati e il giubbotto di pelle. Ricorda della prima volta in cui ha pensato di avercela fatta. Vorrebbe riassaporare quella magia, ma sa che non può. E forse va bene così. Quel mondo non ha più nulla da offrirgli, né lui ha più nulla da offrire a quel mondo. Mentre il sole scompare all’orizzonte, la città delle stelle torna a brillare. Solo che ora non brilla più per lui. Si volta, come se non volesse disturbare la gioia di quei ragazzi e torna a passeggiare. Questo è “The Car”.


Se ti piacciono gli Arctic Monkeys, potrebbe interessarti anche: The National

/ 5
Grazie per aver votato!

Tuesday Music Revival: Arctic Monkeys – AM

  • Arctic Monkeys – AM
  • 9 Settembre 2013
  • ℗ Domino Recording Co. Ltd.

La svolta oscura della band di Sheffield ispirata ai pilastri del rock. 

Dall’incredibile scossa del disco di debutto “Wathever People Say I Am”, gli Arctic Monkeys hanno messo in fila una serie di colpi da maestro, dando vita ad un suono, incredibilmente fresco, pur attingendo da cifre stilistiche d’altri tempi, e in grado di mutare da un momento all’altro, pur mantenendo intatta l’immagine della band. 

Nel 2013, il gruppo capitanato da Alex Turner, corona i 10 anni di carriera, con un disco incredibile. “AM”, quinto album, e probabilmente il migliore fino a quel momento, sicuramente il più famoso. 

I cambi di stile da un disco all’altro diventeranno sempre più presenti da qui in poi, ma quello che veramente da una marcia in più a “AM” è un cambiamento radicale nelle tematiche trattate. Se il disco di debutto poteva considerarsi un disco che cambiava le metriche del punk-rock, o “Suck It and See”, loro album precedente, un disco affogato in ambienti lussureggianti, qui la band vaga nell’oscurità, a tratti è essa stessa l’oscurità.

Trasferitisi in California e chiamati al rapporto Ross Orton (The Vaccines, M.I.A., I Monster) e James Ellis Ford, che ha prodotto tutti i loro lavori precedenti, gli Arctic Monkeys iniziano le sessioni di registrazione, distribuite fra i Sage & Sound Recording di Los Angeles e il Rancho De La Luna, a Joshua Tree, dove, come accaduto con “Humbug”, incontrano Josh Homme, leader dei Queens Of The Stone Age, che darà il suo contributo alle voci aggiuntive di questo progetto. 

Attorno alle cupe atmosfere “AM”, trova comunque spazio per sensazioni lussureggianti, che Alex Turner già aveva esplorato in passato. Stavolta però, amori ed erotismi duellano con i dubbi, di un mondo senza romanticismi, popolato da storie d’amore destinate a scomparire in un battito di ciglia. 

Arctic Monkeys

Ad aprire il disco “Do I Wanna Know?”, un banger incredibile, capace di essere identificato dal colpo di Kick iniziale. Con questa traccia, i Monkeys trovano la ricetta perfetta, poiché questo stile verrà riutilizzato in un altro paio di occasioni nel disco. “Ti ho sognato quasi tutte le sere”, canta Turner, tra ossessioni e paranoie, mentre il riff sporco di chitarra accompagna la sua voce.  “R U Mine?”, pubblicata inizialmente come singolo, è la traccia che incarna in maniera perfetta il concetto di questo disco. Ancora una volta le chitarre distorte e filtrate combattono con le corpose melodie del basso di O’Malley. A differenza dell’apertura, qui la band adotta una soluzione più semplice, andando a prendere spunto direttamente dalle metriche dell’Hard-Rock.

In “One for the Road” Turner si trova alle prese con la fine di una relazione. Da qui in poi il disco inizia ad annebbiarsi (e non in senso negativo). Le chitarre squillanti creano delle melodie squillanti, mentre le atmosfere iniziano a essere più calde e altrettanto deliranti. 

In “Arabella”, il quartetto scomoda pattern di arrangiamento “zeppeliniani”, in un costante duello tra essenzialità e stratificazioni sonore, le strofe, in cui prevalgono basso e batteria implodono in ritornelli colmi di distorsioni e cambi di ritmo. 

“I Want It All” è il profilo perfetto di una rockstar. Il vero frontman di questa traccia è la chitarra. Le tracce pesantemente distorte, avvolgono completamente tutto il resto, fatta eccezione per le percussioni, mentre la voce di Turner combatte, con un arrangiamento volutamente troppo corposo, per spuntare fuori, riuscendoci in alcune occasioni. 

Nella parte centrale del disco, gli stili che hanno caratterizzato le prime tracce iniziano ad assottigliarsi. Rimane la sensazione calda, ma Alex e la band ammorbidiscono i suoni, spostandosi verso delle ambientazioni più intime. Anche la scelta delle linee melodiche di voce mette in luce emotività a palate. In “No.1 Party Anthem”, la band trova un tipo di musicalità che a tratti ricorda Lennon. La batteria si ammorbidisce, e mentre la traccia si apre, trova spazio per lap steel, piano forte e un sottofondo di organi. Una scelta perfetta per una traccia ironicamente malinconica.

“Mad Sounds” resta in linea con delle sonorità più vellutate, ma questa volta a reggere l’arrangiamento sono organo e arpeggi di chitarra. A differenza delle altre tracce, questa è l’unica in cui Alex sembra guardare il mondo con un briciolo di speranza. Il ritmo torna a salire man mano che ci si avvicina alla chiusura del disco. 

Gli strumming acustici di “Fireside” chiudono l’utilizzo di elementi revival all’interno di questo disco, con un interessante connubio tra palette sonore post-punk e indie rock. 

In “Why’d You Only Callm When You’re High?” la band torna alle sonorità che avevano funzionato perfettamente all’inizio di questo disco. Mentre Turner gioca con l’R&B la sezione ritmica si muove verso standard hip-hop. Quell’R&B rimane anche nella traccia successiva. I ritmi cadenzati di “Snap Out of It” sono terreno fertile per i falsetti di Alex.

In “Knee Socks”, le voci di Homme si fanno più presenti, mentre la traccia dalle atmosfere lussureggianti trasuda riverberi ed echi. 

La chiusura arriva con quella che è, insieme a “Do I Wanna Know?” una delle tracce più famose di questo disco. 

“I Wanna Be Yours” è una lenta e cinematica sperimentazione della band, immersa in R&B e erotismi, ispirata all’omonima poesia di John Cooper Clarke. 

/ 5
Grazie per aver votato!

Psychedelic Porn Crumpets: la recensione di “Fronzoli”

  • Fronzoli – Psychedelic Porn Crumpets
  • 10 Novembre 2023
  • What Reality? Records

Avete presente gli Arctic Monkeys, soprattutto negli scanzonati esordi? Aggiungete una ricca dose di follia, un abbondante manciata di psichedelia, un pizzico di prog rock, il tutto condito con un ricco fuzz, ed otterrete l’ultima fatica del collettivo australiano. “Fronzoli” tende a maturare ancora di più il sound dei Psychedelic Porn Crumpets, riuscendo a confermare e migliorare quanto di buono fatto negli ormai dieci anni di carriera.

In questo seppur breve periodo il quintetto ha mostrato una certa prolificità, confermata dai sei album sfornati, con una media di più di uno ogni due anni. Tale abbondanza è rafforzata e avvalorata di lavori non mainstream provenienti dal continente Oceanico, a partire da Tame Impala, ma ancor più con gli eclettici King Gizzard & the Lizard Wizard, i quali hanno sublimato tale concetto raggiungendo quota ventincinque dal 2010. Queste ultime due band, insieme ai già citati indie britannici, hanno sicuramente influenzato il sound delle Focaccine Psichedeliche Porno, senza mai urlare al plagio.

La prima “Nootmare (K.I.L.L.I.N.G) Meow”, con un intro progressivo, introduce la voce di McEwan, esageratamente di Turner memoria, in alcuni passaggi quasi a volerla scimmiottare. Il brano risulta molto godibile, nei suoi intrecci barocchi, con una conclusione inaspettata negli ultimi dieci secondi (ascoltare per credere). La successiva “(I’m A Kadaver) Alakazam” segue la falsariga precedente, abituando l’ascoltatore a tali sonorità, con suoni di pregevole fattura.

Più cadenzata, con note acide e psichedeliche provenienti dai lontani anni Sessanta (un omaggio ai Beatles?), la traccia “Dilemma Us From Evil”, con i suoi tre minuti che scorrono senza intoppi. La “rilassatezza” prosegue ed aumenta con la seguente “Cpt. Gravity Mouse Welcome”, ulteriore eco dei mai dimenticati Sixties.

Si passa senza preavviso ad un hard rock eseguito magistralmente in “All Aboard The S.S. Sinker”, introdotto e concluso da spezzoni di dirette radiofoniche vintage.

A confermare ulteriormente l’ecletticità della band ci pensa “Hot! Heat! Hot! Heat!”, una più moderna punk song, piuttosto “storta” nella sua composizione. Di certo il pezzo maggiormente d’impatto nei live e probabilmente il più riuscito dell’intero album.

Con “Sierra Nevada” si sale su un ottovolante musicale, che a tratti rimanda agli Smashing Pumpkins di “Zero”, con echi dei più moderni, ma non per sonorità, Claypool Lennon Delirium. Una traccia granitica, solida e acida al contempo, che precede l’acustica breve, dolce ed intima “Illusions of Grandeur”, in cui si può apprezzare maggiormente la splendida voce di McEwan.

Dopo i primi trenta secondi senza senso, “Pillhouse (Papa Moonshine)” irrompe con un giro che rimanda molto a Bellamy e soci, completando il giro di citazioni e di generi toccati in questo mastodontico lavoro. L’ultima e più scanzonata “Mr. & Mrs Misanthrope” ci riporta invece ad un easy listening, soprattutto nella parte iniziale, con punte eccelse di prog e psichedelia ed un testo incalzante per metà brano ed enigmatico e sospeso sul finire.

Insomma, un’evoluzione quella dei cinque ragazzi provenienti dal più lontano luogo rispetto a noi europei. Un’evoluzione costante. Mai semplice, mai banale. Forse a tratti già sentita, ma mai copiata. Lunga vita all’alternative australiano.

/ 5
Grazie per aver votato!

Arctic Monkeys: la recensione di “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”

  • Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not
  • 29 Gennaio 2006
  • ℗ Domino Recording Co Ltd986 A&M Records

A maggio 2005 quattro ragazzini di Sheffield si ritrovarono sbattuti sulla copertina del mensile di musica più importante del Regno Unito, l’NME. Con alle spalle soltanto una piccola raccolta di demo, la band rock britannica Arctic Monkeys formata da Alex Turner, Jamie Cook, Matt Helders, Nick O’Malley e Andy Nicholson – il quale lasciò il gruppo l’anno successivo – capì di avere qualche speranza di emergere in mezzo ai numerosi gruppi compatrioti del periodo.

Fu così che nell’estate del 2005 la band firmò con la casa discografica indipendente Domino Records, che l’anno successivo pubblicò il loro primo vero album dal titolo Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not. Il successo ottenuto fu senza precedenti sia per il numero di copie vendute in Gran Bretagna (364.000 solo nella prima settimana), sia per lo stupore che destò quando si scoprì che una band così poco navigata nell’industria di quegli anni superò record detenuti da gruppi ben più esperti, uno fra tanti gli Oasis.

Il filo conduttore delle 13 tracce che compongono l’album è rappresentato dall’arroganza e dalla fierezza con cui Turner canta i testi. Niente morale, solo grandi dosi di sarcasmo e titoli schietti, elementi che arrivano diretti a quel pubblico che da sempre ama le provocazioni di chi non ha paura di parlare di ciò di cui non è consueto parlare. Ovviamente per il Regno Unito non c’erano novità nel genere proposto dagli Arctic Monkeys, ma la loro carta vincente fu la capacità di cogliere e accogliere le necessità della loro generazione traslandole in musica rock grintosa, attraverso cui potersi esprimere urlando a squarciagola i testi ribelli e vincenti.

Il brano d’apertura s’intitola The View From the Afternoon. Qua troviamo Turner che dice “I want to see all of the things that we’ve already seen”, per poi introdurre – nelle canzoni successive – personaggi che conducono vite insolite ed incasinate: poliziotti insoddisfatti del proprio lavoro che si sfogano su minorenni ubriachi, risse nate prima di entrare in un club, buttafuori violenti. Il tutto va a dare vita ad un concept-album incentrato su squarci di vita notturna dei giovani clubber dell’Inghilterra del nord tra alcool, aneddoti da pista da ballo, riti sociali e voglia di uscire dagli schemi. L’obiettivo dei personaggi del frontman, però, non è scappare da quella metropoli che li devasta ma è restare vivi in mezzo al caos.

Ciò che trasmette all’ascoltatore quella sensazione di imprevedibilità e di potente emotività non sono solo i testi espliciti, ma anche gli arrangiamenti mutevoli, scostanti, bizzarri proprio come le squilibrate avventure notturne vissute da quei personaggi che prendono vita canzone dopo canzone.

La seconda parte del disco viene introdotta da Riot Van. Alla violenza dei testi e all’arroganza delle chitarre –  che fino ad ora hanno dato vita a tracce esplosive come I Bet You Look Good On The Dancefloor – si unisce un velo di drammaticità, mischiato ad un pizzico di romanticismo. Lo sentiamo in Red Light Indicates Doors Are Secured, ma anche in When the Sun Goes Down dove viene raccontata nel dettaglio la vita delle prostitute di provincia e dello sfruttamento subito.

“He told Roxanne to put on her red light / It’s all infected, but he’ll be all right” canta Alex Turner con un tocco di tenerezza per la condizione amara della donna, che come tutti i suoi personaggi cerca solamente di rimanere in equilibrio su quel terreno al momento impervio, nella speranza di sopravvivere.

Gli Arctic Monkeys riassumono tutto quello che è stato ritratto fino ad ora – come un vero e proprio dipinto – nella lunga e conclusiva A Certain Romance. In Turner convivono sentimenti contrastanti: attrazione e ribrezzo, simpatia e pena per la vita che conducono i suoi controversi protagonisti di Sheffield. Si tende a romanticizzare certi vissuti, almeno fin quando non sono nostri, ma il cantante della band britannica ci dice chiaramente “The point’s that there isn’t no romance around there”. Non c’è romanticismo al termine di questa bella ma cruda narrazione di vita, però siamo ancora vivi e questo ci basta per sapere che vale la pena tirare avanti.

Diciassette anni e sei dischi dopo, gli Arctic Monkeys non sono solo una band di successo ma sono una di quelle band che la storia l’ha scritta con pennarello indelebile ovunque fosse possibile farlo: sulle classifiche, sui palchi di tutto il mondo, nelle menti e nei cuori di quegli adolescenti divenuti ormai uomini e donne. Tutto questo è avvenuto grazie alla lealtà verso quel sound che gli ha permesso di scalare le vette ma, soprattutto, per l’assenza di paura nel rimanere freschi, al passo coi tempi, mettendo in atto cambiamenti che conferiscono loro quel tocco di innovatività ma rimanendo pur sempre fedeli a loro stessi.

Voto: 9.5/10

/ 5
Grazie per aver votato!

Master Peace: La recensione di “Peace of Mind”

  • Master Peace – Peace of Mind
  • 24 Febbraio 2023
  • ℗ Jasmine Music Ltd. / PMR Records

From indie-pop to “punk”. Questa è la formula vincente di “Peace of Mind”,
nuovo EP dell’artista inglese Master Peace. In questo caso con “punk” non è da
intendersi il fenomeno musicale Ramones o Sex Pistols, ma in senso lato.
Quella spinta viscerale che trasforma stati d’animo che, come un cancro, ci
consumano dall’interno. La volontà di dire “non ci sto!”. Ma cosa può aver
stimolato una transizione così netta? La risposta è “frustrazione”. Ma facciamo
un passo indietro.

Peace Okezie, in arte Master Peace, nasce nella contea del Surrey, in
Inghilterra. Terra che ha generato alcune fra le più grandi figure della storia del
Rock: Eric Clapton, Jimmy Page, Jeff Beck, Roger Waters e mi fermo qui, ma la
lista è ancora lunga…ma questa è un’altra storia. Torniamo a Peace. Classe

Fra le sue maggiori influenze vi è il rap britannico, con artisti come The
Streets e Gorillaz. “Se arrivassi a fare musica con Mike Skinner e Damon
Albarn, prometto che lascerei la musica quel giorno stesso, sarei arrivato”
dichiara Peace. Ad onor del vero, lo scorso anno ha raggiunto il giro di boa,
registrando un featuring proprio con Mike Skinner (The Streets). Il brano è
“Wrong Answers Only”. Tuttavia, con “Peace of Mind” prende le distanze da
queste sonorità, abbracciando un sound più aggressivo, chitarre garage e riff
che faranno felici i fan dei “primi Arctic Monkeys”.

“Fin dal mio singolo di debutto “Night Time” ho fatto musica indie, ed invece mi è
stata attaccata addosso l’etichetta di rapper, con tutti gli stereotipi che si porta
appresso. Sono di colore, porto il durag e in alcune canzoni faccio uso dello
“spoken word”, quindi sono un rapper. Questo pensa la gente. Come se venissi
da Londra. Sono del Surray, vengo dalla campagna. Ho iniziato a sentirmi poco
apprezzato”. Beh, l’abito non fa il monaco: questa è la genesi del nuovo EP.

“Peace of Mind”. Cinque tracce per un totale di circa 12 minuti di musica. Niente
di troppo stravagante, con nitidezza la musica veicola alla perfezione la
narrazione di Peace. “Country Life” è tagliente, descrivendo in dettaglio il rifiuto
da parte dell’artista inglese di rientrare nel cliché del mondo rock. “Are you
comin’ backstage after the show to take some blow or not? / I don’t take that shit
‘cause I’m not a thot”. “Achilles Heel” si pianta nella testa e difficilmente se ne
va. Questo pezzo ha carattere, ha un ritmo trascinante. Nulla è fuori posto. Altro

bel colpo! In “Veronica” Peace ha messo in background gli Arctic Monkeys di
“Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” ricamandoci sopra il tema
dell’innamoramento giovanile. “There’s something ‘bout Veronica, I can tell that
she likes me / Something in her aura, I can tell that she feels me”. “Groundhog
Day” è una continua autocritica “I Always mess It up, darling / Always mess it up
good”. Forse per questa ragione è il brano più corto, non arriva a toccare
neanche i due minuti. Il mix del mantra “mea culpa” e chitarra distorta funziona.
“Kaleidoscope” chiude i 12 minuti, un brano con una posizione più catartica ed
introspettiva rispetto al pugno in faccia di “Country Life”. Alla domanda “Perché
hai deciso di concludere con una canzone in netto contrasto con l’inizio?” Master
Peace ha risposto: “Sento che “Kaleidoscope” è stata un po’ una sessione di
terapia, la fine del film. Prima facevo riferimento al fatto che sono felice di essere
“Peace dal Surray”, non voglio essere te, quindi non dovresti voler essere me,
perché non sono un modello. Abbraccia tutto, il tuo lato buono, il tuo lato cattivo.
Soprattutto sul web, siamo così presi dal tentativo di essere perfetti, so che è un
cliché folle. Alla fine della giornata moriremo tutti allo stesso modo, quindi
potremmo anche andare avanti”.

Navigando fra atmosfere indie, narrazioni rap e chitarre garage, Peace si spinge
fino ai confini delle “colonne del pop”, alla ricerca di una nuova dimensione.
Iniziativa azzeccata, che avrà sicuramente risvolti futuri interessanti. (Master
Peace non è un rapper!)

/ 5
Grazie per aver votato!