Beatles

Il Mellotron: Genesi del primo campionatore, dall’Avanguardia all’Età Moderna

Girando per i social, i blog del settore e seguendo alcune interviste sulle radio è sempre più evidente la spaccatura che si sta creando nell’industria musicale, fra chi è strettamente convinto che ad oggi il fare musica sta diventando un concetto mediocre (“Fanno tutti musica col computer”) e chi invece considera il progresso tecnologico nella musica, un buon mezzo per creare ottimi prodotti in un modo semplicemente diverso. Dati alla mano, non si può non sposare il secondo punto di vista. La storia del Mellotron è soltanto una delle tante conferme. 

Il Mellotron è uno strumento musicale elettro-meccanico che, dagli anni ’60, periodo in cui è stato messo in commercio, ha rivoluzionato il mondo della musica. Il suo punto forte non era solo quello di avere un suono unico, ma la sua capacità di poter riprodurre il suono di vari strumenti pre-registrati. Andando avanti in questo approfondimento, scopriremo l’evoluzione del Mellotron, dagli anni ’60 fino ai giorni nostri. 

Le Origini

Il Mellotron affonda le sue radici all’alba degli anni ’60, ed è un’evoluzione del Chamberlin, uno strumento elettro-meccanico sviluppato negli anni ’50 da Harry Chamberlin negli Stati Uniti. Una delle figure chiave nello sviluppo dello strumento è stata senza dubbio Robert Fripp (Il fondatore dei King Crimson), che acquistò da Chamberlin i diritti sulla produzione e fondò la Bradmatic Ltd. Fu così che, nel 1963, l’azienda lanciò il primo modello di Mellotron, il Mark I. 

Mellotron
Prima Versione del Mellotron

Lo strumento si basava sull’utilizzo di suoni pre-registrati di strumenti come archi, flauti e cori, che venivano incisi su nastri magnetici. Ogni tasto del Mellotron attivava un piccolo nastro su cui scorreva una testina in grado di riprodurre il suono desiderato. Fu un successo incredibile, poiché il Mark I era sinonimo di semplicità. Da quel momento in poi, ogni musicista poteva avere una gamma di suoni orchestrali in uno spazio relativamente ridotto, senza dover scomodare un’intera orchestra.

L’Età d’Oro: Gli Anni ’60 e ‘70

Complice le rivoluzioni musicali sul finire degli anni ’60, la psichedelia e il rock progressivo, il Mellotron divenne il fiore all’occhiello delle più importanti band dell’epoca. I Moody Blues, i King Crimson e più tardi i Rolling Stones adottarono lo strumento, contribuendo a definirne il suono caratteristico. C’è però forse un punto di svolta più visibile, ed è quello di “Strawberry Fields Forever” dei Beatles. Il flauto riprodotto dal Mark I nell’intro della canzone, fu uno degli esempi più celebri dell’utilizzo di questo strumento. 

John Lennon suona il Mark I (anni 60′)

Influenze del Mellotron nel Rock Progressivo

Il Mellotron divenne un elemento chiave del rock progressivo, un genere musicale che cercava di espandere i confini del rock tradizionale incorporando elementi della musica classica, jazz e avanguardia. Band come i Genesis, gli Yes e più tardi i Pink Floyd sfruttarono le capacità dello strumento per creare strutture sonore complesse e stratificate. Nel caso dei Genesis, ad esempio, Tony Banks utilizzava il Mellotron per dare profondità e atmosfere alle composizioni. Per gli Yes invece, ricopriva una carica molto più importante all’interno degli arrangiamenti. 

Declino e Riscoperta

Con la digitalizzazione, l’evoluzione del modo di fare musica e i sintetizzatori negli anni ’80, il Mellotron perse gradualmente il suo posto di rilievo. I nuovi strumenti digitali offrivano una maggiore versatilità, oltre che un’elevata facilità d’uso, portando i musicisti a preferirli al Mellotron. Nonostante tutto, la nostalgia per il suono dello strumento non si è mai veramente spenta. Gli anni ’80 fecero salire alla ribalta synths come il Fairlight CMI e il Synclavier, che offrivano una gamma più alta di suoni e una precisione maggiore nel campionamento. Questi strumenti permisero ai musicisti di esplorare nuove sonorità, di ridurre la dipendenza di strumenti elettro-meccanici complessi e di gran lunga più costosi. Nonostante tutto, il calore, l’imperfezione e il fascino del Mellotron rimasero profondamente radicati nel modo di fare musica di alcuni musicisti.

Revival

Tra gli anni ’90 e 2000, lo strumento tornò nuovamente sotto gli occhi degli addetti ai lavori in campo musicale. Il Mellotron venne aggiornato, furono inseriti nuovi suoni e, piano piano, ci fu una digitalizzazione dello strumento stesso. In Inghilterra, durante il movimento ‘Cool Britannia’, negli anni ’90, band come Oasis e Radiohead, portarono nuovamente il Mellotron alla ribalta, in contemporanea alla rinascita di strumenti analogici e del vinile. 

Johnny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, in studio con una delle prime versioni dello strumento

Il Mellotron Oggi

Oggi, il Mellotron è considerato un pezzo di storia della musica e continua ad essere utilizzato in studio e dal vivo. La Streetly Electronics, una delle aziende originali produttrici del Mellotron, continua a fabbricare e restaurare questi strumenti. Inoltre, sono disponibili versioni digitali del Mellotron, che offrono la possibilità di riprodurre i suoni iconici dell’originale con la comodità della tecnologia moderna.

Le versioni digitali del Mellotron, come il M4000D, mantengono il carattere sonoro distintivo dell’originale, ma eliminano le problematiche legate alla manutenzione dei nastri e delle componenti meccaniche. Questi strumenti moderni sono dotati di una libreria di suoni che include tutte le registrazioni originali del Mellotron, offrendo ai musicisti una vasta gamma di possibilità creative. Inoltre, i plug-in software per computer permettono di emulare il suono del Mellotron, rendendolo accessibile a un pubblico ancora più ampio.

L’Eredità del Mellotron

L’influenza del Mellotron si estende anche oltre la musica. Il suo suono distintivo ha segnato colonne sonore di film, spot pubblicitari e videogiochi, contribuendo a creare ambientazioni suggestive e coinvolgenti. La sua capacità di evocare emozioni e di creare atmosfere uniche lo rende ancora oggi uno strumento prezioso per molti musicisti e produttori. Il Mellotron è stato utilizzato in una vasta gamma di generi musicali, dal rock progressivo alla musica elettronica, dal pop al metal, dimostrando la sua versatilità e il suo fascino duraturo.

La storia del Mellotron è un viaggio affascinante attraverso l’evoluzione della musica e della tecnologia. Forse è lo strumento musicale che più incarna la definizione di evoluzione nell’ambito del fare musica. Dal suo debutto negli anni ’60, attraverso il declino con l’avvento dei sintetizzatori digitali, fino alla riscoperta e alla celebrazione moderna, il Mellotron ha dimostrato di essere un simbolo di innovazione e creatività. La sua eredità continua a vivere, influenzando nuove generazioni di musicisti e affascinando gli appassionati di musica di tutto il mondo. La sua storia è un tributo all’innovazione, alla passione e alla creatività che caratterizzano il mondo della musica.

Il Mellotron è più di un semplice strumento; è un simbolo di un’epoca e di un modo di fare musica che continua a ispirare e a emozionare, dimostrando che il vero valore dell’arte risiede nella sua capacità di evolversi, adattarsi e sopravvivere al passare del tempo. La sua storia dovrebbe essere una lezione, per chi oggi, non concepisce le nuove modalità del fare musica.

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Tuesday Music Revival: John Lennon – John Lennon / Plastic Ono Band

  • John Lennon – John Lennon / Plastic Ono Band
  • 11 Dicembre 1970
  • ℗ Calderstone Productions Limited [UMG]

“Non credo nei Beatles”

Dopo la caduta di quella che è con tutta probabilità la più grande band della storia, il baronetto di Liverpool dovette fare i conti con un nuovo tipo di solitudine, che oramai aveva quasi dimenticato, e con una serie di demoni interiori difficili da scacciare. 

I Beatles ormai erano storia vecchia e tutti (ora anche il mondo) sapevano che non sarebbero mai potuti ritornare. Già da prima del loro scioglimento però, John e Yoko avevano provato a tastare il terreno, con tre progetti di musica sperimentale. Gli “Unfinished Music”, divisi in due volumi, non avevano ottenuto probabilmente il risultato sperato. E dopotutto non è che lo meritassero, e cosi anche il “Wedding Album”. 

Nel profondo però qualcosa si stava muovendo. Durante il corso del 1970, la coppia iniziò un percorso di terapia psicologica, in California, rinominato “Primal Scream”. Quello che emerge dalla terapia è per Lennon quasi liberatorio. Escono fuori tutti i traumi del passato legati alla morte della madre quando John era solo un adolescente, l’abbandono da parte del padre in tenera età, fino alla rottura con i Beatles. Tutti spunti interessanti per chiudere un buon disco. 

plastic ono band

All’inizio del 1970 John e Yoko pubblicano “Instant Karma!”. Successo istantaneo. Un milione di copie vendute e i vertici delle classifiche americane e inglesi. Nessun altro Beatle ci è riuscito, fino a quel momento. Tra le fila degli addetti ai lavori spiccano i nomi di Phil Spector, che nel mentre stava lavorando a “Let It Be”, alla produzione e Klaus Voormann, che poi sarà anche all’interno di “Plastic Ono Band”, al basso. 

Durante l’estate del 1970, a due mesi dall’uscita di “Let It Be”, Lennon inizia a registrare una serie di demo ispirati al percorso di terapia intrapreso insieme alla moglie. Tornato in Inghilterra, nell’autunno dello stesso anno, e prenotati gli Abbey Road, il viaggio di “Plastic Ono Band” può incominciare. Insieme a Voormann e Ringo Starr, John da il via alle registrazioni. Spector curerà solo una parte della produzione, mentre del resto si faranno carico lo stesso Lennon e Yoko Ono. La schiera di musicisti darà vita a un disco che ritorna agli standard iniziali del rock, contaminato dalle influenze statunitensi di cui John aveva fatto tesoro durante la sua permanenza oltre oceano. I pochi strumenti (Batteria, Pianoforte, Basso e Chitarre), sono stati fondamentali per la creazione di un ambiente essenziale, “sporcato” dalle tematiche crude e schiette, di un John Lennon come non si era mai visto. 

Il disco, che è stato registrato parallelamente a quello di Ono (Yoko Ono/Plastic Ono Band), poggia fondamentalmente su quattro pilastri, “Mother”, “Working Class Hero”, “Love” e “God”. Tante altre canzoni, contenute al suo interno, creano un profilo perfetto di un disco assolutamente imperfetto, come gran parte dei suoi lavori post-Beatles. L’altra faccia della medaglia, mostra invece un artista che ha completamente messo da parte la paura di rischiare, tanto dal punto di vista autoriale, quanto dal punto di vista degli arrangiamenti, che, in diverse occasioni, prendono spunto dal blues o dal folk. 

I rintocchi di una campana danno il via alle danze. “Mother” fa luce su uno dei, probabilmente, più grandi problemi della vita di Lennon. L’abbandono, non voluto, da parte della madre, morta quando lui era solo un adolescente, e quello del padre, che ha deciso di lasciare la famiglia quando John era molto piccolo. La sensazione di abbandono sarà uno dei capi saldi della sua vita, più flebile durante la sua militanza nei Beatles, e poi nuovamente forte nella sua carriera da solista. Le ritmiche cadenzate di Ringo e i morbidi accordi di piano sfociano in urla disperate di un John che implora sua madre di non morire e suo padre di tornare da lui. 

Il delay sulla chitarra di Lennon porta “Hold On” su ambienti più calmi, a tratti ottimisti. La traccia però non arriva al risultato sperato, risultando si una composizione pregevole, ma non così interessante. In “I Found Out” tornano le voci graffianti, anche la strumentazione si fa più cupa. Il basso si sporca e Ringo schiaccia l’acceleratore sulla ritmica. Su questa traccia blues-oriented, chi dirige la baracca, non è Lennon, completamente pervaso da una vena narcisista, ma Voormann, che mette in piedi una linea di basso energica, gonfia e sublime. 

“Working Class Hero” esplora sonorità folk, quasi Americana sotto certi punti di vista. Qui Lennon fa una critica alla borghesia, frantumando la speranza di tanti “comuni mortali” di dare un migliore aspetto alla loro vita. L’arrangiamento è esteso solo a chitarra e voce, mentre John si autoproclama il “pastore” di una generazione. “Se vuoi essere un eroe, seguimi”. 

La chiusura del primo lato del disco, è affidata a “Isolation”. Qui il blues e il soul si intrecciano in una maniera perfetta, per una traccia che forse non ha avuto l’apprezzamento che si meritava. 

In “Remember” si ritorna a premere sull’acceleratore, ma con più cautela rispetto a “I Found Out”. La traccia rimane comunque morbida, mentre i tre musicisti giocano con cambi di tempo, pianoforti martellanti e esplosioni attraverso cui Lennon rievoca la “Guy Fawkes Night”, una festa inglese. “Love” è il terzo pilastro su cui “Plastic Ono Band” regge. È una ballata dolce e struggente in cui Lennon lascia il piano a Spector, per concentrarsi su chitarra e voce, gli unici strumenti di cui la canzone è composta. Assumerà un’importanza maggiore diversi anni più tardi quando, dopo il suo assassinio, verrà pubblicata come singolo. 

A questo punto il disco attraversa un’ulteriore fase di debolezza. “Well Well Well”, traccia di sei minuti, completamente scollegata dal filo conduttore del disco, ha tutte le sembianze di un riempitivo. Lennon torna sul rock and roll, ma con una traccia che, seppur abbia degli spunti anche interessanti, stona con il resto del disco. Discorso più o meno analogo per “Look At Me”, scritta durante le sessioni del White Album, nel 1968.

Sul finire del disco, la situazione però cambia. Perché Lennon tira fuori dal cilindro un capolavoro. Non solo una delle sue migliori canzoni, ma una delle più belle mai scritte. “God” è la canzone per “Andare avanti e farsene una ragione”; È il momento in cui Lennon chiude pubblicamente con i Beatles.

Ma è anche il momento in cui, nonostante Yoko e uno spiccato egocentrismo, sembra apparire più solo che mai. Il piano di Billy Preston crea la struttura melodica drammatica perfetta, che lascia spazio solo per la voce di Lennon. Seguono una sfilza di idoli in cui Lennon non crede, persino Dio, definito come un costrutto dell’uomo, altre cose in cui un tempo credeva ed ora non crede più. E poi. “Non credo più nei Beatles”. Un silenzio tombale mette la scritta fine su una delle band più importanti nella storia della musica. Il sogno è finito, e bisogna farsene una ragione. Non c’è più nulla in cui possa credere, se non in sé stesso. E in Yoko.

A seguire la traccia di chiusura del disco c’è una piccola composizione acustica dal titolo “My Mummy’s Dead”. 

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The Music Revival Week: The Beatles – Sgt. Peppers’s Lonely Hearts Club Band 

The Beatles – Sgt. Peppers’s Lonely Hearts Club Band

26 Maggio 1967

℗ Calderstone Productions Limited / Universal Music Group 

Il 1967 è stato per i Beatles, l’anno più produttivo di sempre. Durante il suo corso, il quartetto di Liverpool ha messo in fila una serie di pezzi da novanta. Durante il 1967, la band non lavorò soltanto a “Sgt. Pepper”, tra le produzioni erano contenuti spunti e demo contenuti poi nei loro progetti futuri, documentari, video promozionali e addirittura un vero e proprio film. 

Prima di immergersi nel racconto di uno dei dischi più importanti degli anni ’60, occorre aprire una piccola parentesi sul gruppo. Già con il disco precedente, i Beatles avevano raggiunto l’apice della loro fama, diventando la band più conosciuta al mondo, ma come gran parte dei gruppi musicali, quella fama era diventata la causa principale dei loro problemi, dando inizio ad una fase di squilibri all’interno della formazione. Dopo una lunga pausa, si trovarono tutti e quattro agli Abbey Road Studios, verso la fine del 1966.

Sgt. Pepper" 50 years later: Paul McCartney reveals the album's origins -  CBS News

La prima canzone che nacque, tra mille peripezie, fu ‘Strawberry Fields Forever’, in cui venne introdotto per la prima volta l’utilizzo del Mellotron. Nonostante lo sviluppo tecnologico, la band decise di non utilizzare quella versione e di affidarsi al produttore George Martin, che se da una parte contribuì a creare un disco mastodontico, composto da archi e ottoni, dall’altra fu una delle cause principali degli attriti fra i membri del quartetto. ‘Strawberry Fields Forever’ non fu inserita in “Sgt. Pepper”, ma nonostante ciò, fu la scintilla che diede inizio al disco. 

Se ‘Strawberry Fields’, viene descritta come il punto di inizio del disco, è perché durante quelle sessions, la band registro la prima vera traccia di “Sgt. Pepper”. ‘When I’m Sixty-Four’ era stata scritta da Paul, circa otto anni prima, come omaggio ai suoi genitori. 

Il disco è un vasto assortimento di sonorità ricercate, a tratti psichedeliche, che sotto molti punti di vista rappresenta il lavoro più importante dei Beatles. Si apre con la title track, una miscela di orchestra e hard rock, caratterizzata da chitarre squillanti, sezioni di ottoni e suoni ambientali. 

Il leggero accenno di art rock si diluisce in ‘With a Little Help for my Friends, una canzone scritta a quattro mani da Lennon e McCartney. A differenza della traccia precedente, questa è più classica, la band non si avventura in soluzioni orchestrali o suoni psichedelici. Questo succede invece in ‘Lucy In The Sky With Diamonds’, il cui strumento guida è un organo processato. Nell’intro vengono inseriti suoni piuttosto interessanti per l’epoca, a partire dal Sitar, proveniente probabilmente dal viaggio spirituale in India che George Harrison aveva condotto nel periodo di pausa dell’anno precedente. ‘Getting Better’, scritta in gran parte da Paul, calza perfettamente con la voce di Lennon. Nonostante la timbrica allegra, la traccia esplora temi particolarmente problematici, come quello della violenza domestica, che risiedono all’interno del passato di John Lennon.

“Fixing a Hole” è piuttosto semplice. Si sviluppa sulla sezione di clavicembalo suonato da George Martin e sui riff crunch di Harrison. Mentre Ringo passa da ritmi swing a progressioni più semplici. Un’arpa sognante accompagnata da una sezione d’archi ci introduce a ‘She’s Leaving Home’. È un duetto tra John e Paul, ispirato ad una notizia su una ragazza scomparsa, dopo essere uscita di casa, e trovata dopo molto tempo. Questa è, insieme a ‘A Day in The Life’, uno degli ultimi duetti tra Lennon e McCartney. Il primo lato del disco si chiude con ‘Being for the Benedit of Mr. Kite!’, un miscuglio contorto di atmosfere deliranti. In questo pezzo la psichedelia dilaga, sotto forma di sezioni di fiati drop down di violini, organi e clavicembali.

È nonostante la baraonda, almeno da un punto di vista compositivo, una delle tracce più studiate, a partire dai campioni a nastro scelti, fino ad arrivare a suoni in stile Beach Boys. Il testo è praticamente copiato/incollato da un poster. 

76+] Sgt Peppers Wallpaper - WallpaperSafari

Nonostante il tempo abbia dato (parzialmente) ragione alla band, per un lungo periodo “Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band”, dopo la sua uscita, aveva generato non pochi segnali contrastanti, non solo dalla critica, ma anche dagli artisti stessi. Frank Zappa, ne ha addirittura tirato fuori un album parodia, mentre Bob Dylan lo ha considerato «Indulgent». Altri artisti, hanno invece provato a cavalcare il suo impatto mediatico. Sto parlando proprio dei Rolling Stones e di “Their Satanic Majesties Request”, uscito proprio nello stesso anno. Per gli Stones, il disco, era stato un suicidio artistico. Sia la critica che il pubblico lo avevano completamente demolito, costringendoli ad un restyling completo del loro sound.

Tornando a “Sgt. Pepper”, anche il pubblico non era rimasto proprio soddisfatto, e tutt’ora non ne è soddisfatto. In un sondaggio della BBC del 2005, su un campione di ascoltatori, il disco ha ricevuto abbastanza voti per essere ritenuto uno dei 10 dischi più sopravvalutati della storia e, probabilmente, complici anche i tre dischi precedenti, non è non è poi così insolito pensare che la fama del gruppo l’abbia preceduto.

Ad ogni modo, abbiamo ancora il lato B da analizzare.

In ‘Within You Without You’, unica composizione di Harrison, emergono nuovamente le atmosfere orientali, figlie della sua esperienza in india. La traccia è un incontro tra strumenti folkloristici orientali e le orchestrazioni di Martin. Durante le sessions presero parte diversi musicisti indiani. La composizione principale raggiungeva circa i 30 minuti, ma durante la stesura del disco è stata poi ridotta a 5. ‘Lovely Rita’ è un’altra rock ballad allegra scritta da McCartney, caratterizzata da un tappeto di organi su cui poggia l’assolo di piano di Martin.

In ‘Good Morning Good Morning’ veniamo risvegliati dal canto di un gallo, che ci catapulta in una canzone piuttosto movimentata, composta da sezioni di ottoni gracchianti e la ritmica serrata di Ringo. È una traccia sarcastica sviluppata sul concept di Andy Warhol, infarcita con suoni ambientali. Il breakbeat di batteria di ‘Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise)’ ci guida verso una delle tracce più importanti, se non la più importante, che è anche colei che chiude il disco. 

‘A Day In The Life’ prende piede tra gli applausi del pubblico. Sono uno strumming leggero di chitarra acustica e un piano a guidare la voce sottile di Lennon. Nonostante la semplicità percepita all’inizio, la traccia si evolve in un crescendo orchestrale. Per Lennon, alla sessione principale, mancava qualcosa, una sezione iconica. Sezione iconica che trovarono con l’orchesta. L’intento del gruppo era creare un orgasmo sonoro. Per faro Martin e McCartney si sono serviti di un’orchestra di 40 elementi. Le tracce vennero poi sovraincise 4 volte, in modo da dare l’impressione che gli elementi fossero 160.

15 Fab Quotes About the Making of 'Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band' |  Entrepreneur

Sono pochi i dischi perfetti, usciti senza sbavature in cui non si riesce a trovare un errore neanche con il carattere più pignolo, e “Sgt. Peppers’s Lonely Hearts Club Band” non è sicuramente tra questi. Ma bisogna dare atto alla band di un paio di cose. Lennon e McCartney riescono a creare, forse per l’ultima volta, un legame nelle tracce vocali che poche altre volte si è visto. Le atmosfere, dettate dagli ambienti psichedelici e dai testi criptici, cantanti con spiazzante tranquillità sono lo specchio perfetto della ‘flower wave’ di quel periodo. L’ultimo punto riguarda l’impatto artistico. Checché se ne dica, ‘Sgt. Pepper’ è stato un disco capace di cambiare, ancora una volta, il modo di fare musica, e il disco degli Stones, citato in precedenza, è solo uno di quelli ispirati all’ottavo disco del quartetto di Liverpool. 

Voto: 9.6/10

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Tuesday Music Revival: Abbey Road – The Beatles

  • The Beatles – Abbey Road
  • 26 Settembre 1969
  • ℗ Calderstone Production Limited / UMC

Abbey Road rappresenta a tutti gli effetti l’ultimo tassello mancante di una carriera non lunghissima, ma sicuramente molto prolifica. Questo sarà l’ultimo lavoro effettivo scritto ad otto mani dal quartetto di Liverpool, poiché “Let It Be”, pubblicato nel 1970 era un insieme di inediti scritti durante le sessioni degli album precedenti. In soli sei anni i Beatles avevano costruito, un nuovo modo di fare musica, sotto tutti i punti di vista dal processo di scrittura fino alla registrazione, erano diventati conosciuti e acclamati in tutto il mondo ma, come per tutti gli artisti, erano vicini al capolinea. La pressione, i riflettori costantemente puntati contro e il sopraggiungimento di alcuni attriti all’interno della band, crearono un momento per niente piacevole, durante le sessioni di registrazione di “Get Back”, che finirono per generare nulla che i quattro componenti trovassero accettabile per un nuovo album. Quindi, tornati nel loro posto sicuro, agli studi della EMI, in Abbey Road, e una volta assunto il produttore George Martin, i Beatles si misero a scrivere il loro ultimo capolavoro. Nonostante le tante divergenze i Beatles riuscirono a portare a termine il loro compito e lo fecero alla grande, probabilmente perché ognuno di loro sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta.

Il disco si apre con “Come Together”, canzone politicamente impegnata, tanto da essere utilizzata per la campagna elettorale di Timothy Leary, candidato alla carica di governatore della California, con richiami al Rock & Roll americano e una delle linee di basso più famose della storia della musica. “Something”, ballata scritta da George Harrison e uscita come singolo insieme a Come Together, cambia decisamente il ritmo dettato dalla traccia precedente introducendo un’aura di spensieratezza. Dietro le melodie allegre di “Maxwell’s Silver Hammer”, che la fanno suonare quasi come una filastrocca, si nasconde in realtà la storia di un ragazzo che commette un omicidio. La traccia introduce l’utilizzo di un sintetizzatore Moog e un’incudine. Sebbene sembri una canzone scritta a tempo perso, le sue sessioni di registrazione furono parecchio travagliate. “Oh! Darling” suona estremamente Rock & Roll, con la sezione di piano forte volutamente ispirata a personaggi come Little Richard. La canzone è scritta da Paul McCartney, che l’ha anche cantata. Il suo perfezionismo l’ha portato a registrare la traccia diverse volte, fino ad ottenere il risultato che stava cercando, le urla di un uomo che supplica una ragazza di rimanere al suo fianco. In “Octopus’s Garden”, scritta da Ringo, il gruppo torna una volta ad esplorare il mondo sottomarino, le voci ausiliarie sono quelle di McCartney e Harrison. 

“I Want You (She’s So Heavy)” è fino a questo punto la traccia più sperimentale e piena. Sono presenti vari cambi di ritmo, in alcuni punti sembra come se ci fossero dei richiami al solo di Come Together, ma ad una velocità ridotta. C’è l’utilizzo dell’organo, del Moog e alcuni spunti psichedelici. “Here Comes the Sun”, scritta da Harrison dopo un periodo di forti contrasti con la Apple Records, l’allora etichetta discografica dei Beatles. I problemi con la Apple non sono i soli, in quel periodo Harrison si era dovuto operare e aveva perso sua madre, queste sfaccettature emergono nella canzone in versi come: “È stato un lungo inverno freddo e solitario”, che lasciano spazio a speranza: “Sento che il ghiaccio si sta lentamente sciogliendo”. Il suono del clavicembalo apre l’ultima traccia registrata per Abbey Road. “Beacuse”, ispirata a Beethoven e nata da un giro di pianoforte di Yoko Ono, la canzone introduce una sezione più corposa di sintetizzatori, rispetto alle tracce precedenti, e delle armonie vocali da parte di tre dei Beatles. “You Never Give Me Your Money” è forse una delle canzoni più introspettive della band. Nella traccia vengono messi a nudo tutti i problemi che stanno logorando il rapporto fra ogni membro e che porteranno al loro scioglimento. “Sun King” unisce ispirazioni ai “Fleetwood Mac” e alcuni piccoli richiami a “Don’t let me Down”, nel comparto melodico. La canzone è stata registrata. In una sola ripresa, con “Mean Mr. Mustard”, traccia successiva, ispirata ad un articolo di giornale su un vecchio che teneva i suoi soldi nascosti in casa.  

“Polythene Pam” fu scritta circa un anno prima dell’inizio delle sessioni di Abbey Road, da John Lennon. La protagonista della canzone racchiude alcune esperienze da parte della band, in periodi diversi della loro vita. “She Came In Through the Bathroom Window” continua il medley iniziato con Sun King, raccontando la storia di un fan che sgattaiolò all’interno della casa di Paul McCartney attraverso la finestra del bagno. La chitarra di George è particolarmente graffiante rispetto alle altre tracce del Medley, ma le fondamenta della canzone sono probabilmente la sezione ritmica e il basso. “Golden Slumbers” trasforma il medley in una ballata a base di piano e archi. È probabilmente la canzone più realista insieme a “You Never Give Me Your Money”, in cui i Beatles dicono addio a quello che sono stati, con una delle tracce più belle del disco. Il fill di batteria finale di Golden Slumbers ci porta direttamente dentro “Carry That Weight”, che analizza il peso della fama, quando gli affari si aggiungono al fare musica. L’ultima vera e propria canzone del disco (e dei Beatles) non fa giri di parole. Il titolo è “The End”, canzone composta da assoli di chitarra, di John, George e Paul. 

“Alla fine, l’amore che ricevi è uguale all’amore che dai”, questa è l’ultima frase dei Beatles, seguita dall’ultimo sospiro, per ciò che sono stati e ciò che non saranno mai più.

“Her Majesty” è l’effettiva traccia finale. Fa parte di una porzione del medley, inizialmente posta fra Mean Mr Mustard e Polythene Pam. La scelta di mettere questa come ultima canzone ha attirato diverse critiche, da chi sosteneva che il giusto finale avrebbe dovuto essere “The End”. C’è un motivo ben preciso se l’album si chiude con questa canzone. È come se il gruppo volesse sdrammatizzare la malinconia che aveva portato creare l’ultimo disco.

Voto: 10/10

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