- Oasis – (What’s the Story) Morning Glory?
- 2 Ottobre 1995
- ℗ Big Brother Recordings Ltd. / Sony Music Entertainment UK
E tutte le strade che dobbiamo percorrere sono tortuose
E tutte le luci che ci portano li sono accecanti
Ci sono molte cose che vorrei dirti, ma non so come
Credo non esista frase migliore per riassumere uno dei dischi generazionali più importanti, forse addirittura il più importante, degli ultimi trent’anni. “(What’s the Story) Morning Glory?” è la rivincita dei perdenti, un album che cattura la tensione e l’instabilità di una generazione, tra voci rauche e pesanti riff di chitarra. E se lo fa così bene anche dopo quasi trent’anni, forse è perché quella tensione e quell’instabilità dilagavano prima di tutto dentro le fila della band. Dopo “Definitely Maybe” del 1994, acclamato dalla critica, in “What’s the Story” i sentimenti sono stati inizialmente contrastanti e in gran parte dei casi non molto positivi. Quasi tutti però si sono ricreduti in seguito.
Il disco è stato registrato in uno studio in Galles in appena quattro mesi, tra marzo e giugno del ’95. Dopo l’abbandono del batterista Tony McCarroll, i fratelli Gallagher e soci ripiegarono su Alan White. Con Owen Morris, che già aveva collaborato al disco precedente, alla produzione, le sessions del disco diventano un tornado di ispirazioni, incredibili doti compositive, e vene creative.
Il disco si apre con “Hello”. L’iconica progressione di “Wonderwall” frantuma in un riff elettrico schiaffeggiante, composta da distorsioni psichedeliche. Basta arrivare al ritornello per capire chi erano gli Oasis di “Definitely Maybe” e chi sono (e saranno) gli Oasis di “Morning Glory”. “Roll With It” non era stata ben accolta dalla critica, probabilmente perché si trattava solo di una traccia di riempimento o forse perché i diretti interessati di quel “You gotta say what you say / Don’t let anybody get in your way” sono proprio i critici.
Il momento delle due perle rare arriva praticamente subito, dopo poco più di sette minuti.
“Wonderwall” mostra per la prima volta fin dove può spingersi la dote compositiva del gruppo. Introduce orchestrazioni sintetizzate, mescolate ad uno dei giri di chitarra più ricordati degli anni 90. È una traccia talmente vaga che a tratti è complicata da decifrare, ma una cosa emerge e anche in maniera piuttosto forte: quando la causa della nostra instabilità siamo noi stessi, tutti cerchiamo la salvezza in qualcun altro.
La progressione di piano stile ‘Beatles’ apre il sipario della canzone più importante di questo disco, e forse dell’intera discografia del gruppo. Se la traccia precedente aveva dato prova della grande dote compositiva degli Oasis, “Don’t look Back in Anger” riesce ad andare addirittura oltre. Questa volta, la voce rauca di Liam è sostituita da quella più morbida di Noel, che canta di “rivoluzioni iniziate dal mio letto” fino al lento cadere nell’oblio dell’anima di Sally, la protagonista della canzone.
Nonostante sia un disco quasi eccellente, purtroppo, anche (What’s the Story) Morning Glory? Ha qualche problema. Dopo l’alta tensione delle due tracce precedenti, il disco si ammorbidisce (concettualmente) con “Hey Now” che fa i conti con il passare del tempo, e con il lato negativo della fama, e “Untitled (Version 1)”, una delirante miscela di leaks blues psichedelici.
Ed ecco che tornano gli Oasis. “Some Might Say” trova terreno fertile su una pioggia di chitarre cruncy dai connotati Hard-Rock. Tornano vive le pesanti prese di posizione politiche e Noel trova spazio anche per analogie con il paradiso e l’inferno. Il verso “Alcuni potrebbero dire che non credono nel paradiso / vai a dirlo all’uomo che vive all’inferno” ha in realtà poco a che vedere con gli ambienti religiosi. Se la tua vita è perfetta, è facile non credere nell’aldilà, ma se la tua vita è orribile (se vivi all’inferno), credere nel paradiso è l’unica cosa che ti fa andare avanti.
In “Cast no Shadow” la band trova spunti acustici dai tratti blues, a supporto delle armonie vocali dei fratelli Gallagher. È una ballata colma di dubbi esistenziali e leggere linee melodiche squillanti.
“She’s Electric” è un altro punto di stallo del disco. È una botta di ironia scritta da Noel, su una ragazza con cui non vuole impegnarsi. È la canzone in cui l’impronta d’ispirazione dei Beatles emerge di più.
Il quarto atto del disco torna ad alzare la tensione.
La title track si apre con elicotteri e suoni d’ambiente, prima di introdurre chitarre urlanti e distorsioni. Tra lo stampo hard rock di “Morning Glory”, trovano spazio considerazioni sulla droga, una guerra di potere all’interno del gruppo, in cui Liam sembra avere la meglio. Mentre il disco volge al termine è abbastanza chiaro che a differenza del disco di debutto, in cui il gruppo era più spavaldo, qui si concentra su temi malinconici e esistenziali, guardati con impotenza.
“Untitled (Version 2)“ è il collante tra “Morning Glory” e “Champagne Supernova”. L’ultimo viaggio, il sogno e il risveglio, il mal di testa mattutino dopo una sbornia colossale. “Champagne Supernova” è la conferma che nonostante molte tracce del disco siano li solo per tappare buchi, poche altre riescono a tenere in piedi tutto l’album. È un vortice di psichedelia muri di chitarra invalicabili sotto una produzione incredibile e lacerante. Mentre la band attraversa il periodo più alto della sua carriera (in tutti i sensi), la canzone sembra quasi preannunciare il loro lento declino. “Champagne Supernova” sbiadisce lentamente mettendo la parola fine ad un classico senza tempo.
Voto: 9.2/10