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SHHHHHHH!: La recensione del nuovo EP di King Krule

  • SHHHHHHH! – King Krule
  • 20 giugno 2024
  • XL Recordings

Un anno fa, durante il tour di Space Heavy, King Krule inseriva nei suoi live qualche brano forse scartato dal disco e ne vendeva copie in flexi-disc. Quei brani, apprezzatissimi in live, si possono finalmente ascoltare ovunque. Questo è “SHHHHHHH!”, l’EP di cui non tutti sapevano di aver bisogno.

King Krule, al secolo Archy Marshall, non ha bisogno di presentazioni. Al giovane londinese è stata sempre riconosciuta una grande poliedricità, che si traduce in un sound personale e riconoscibile. Tutta la sua discografia è estremamente coerente e coltiva un’estetica precisa, fatta di influenze indie rock, darkwave, post-punk e punk-jazz. La pubblicazione di “SHHHHHHH!” non è una vuota manovra commerciale per ravvivare l’interesse verso un artista ad un anno dalla sua ultima uscita: l’EP aggiunge tasselli significativi al mosaico discografico di Marshall e i quattro brani funzionano bene in un disco autonomo.

Shhhhhhh!

Achtung!” è la traccia di apertura: oscura, riverberata al punto giusto, con una importante vena new wave. Il brano viene colorato da armonie un po’ più complesse rispetto a ciò che ci si aspetta di trovare in un brano new wave. L’armonia, insieme alla stratificazione di suoni, imprime al pezzo l’inconfondibile marchio di fabbrica di King Krule.

L’attitudine post-punk collega bene il secondo brano, “Time For Slurp“. Il timbro vocale e l’assolo di chitarra sono protagonisti ma non monopolizzano il discorso. La breve durata della traccia – 1 minuto e 57 – la fa suonare quasi come un intermezzo, senza nulla togliere alla sua solidità. In ogni caso, ha tutta l’aria di un brano che si presta ad una resa live scatenatissima.

L’EP cambia completamente direzione con “Whaleshark“, un delicato lento dalla fattura lo-fi. Archy Marshall, fra le altre cose, scrive bene: “Where’d it all go wrong?” chiede all’inizio del brano, parlando di affetti non più presenti. La musica che avresti voglia di ballare con la testa appoggiata al petto di qualcuno di speciale, ti lascia improvvisamente da solo. “Waited for you all night / And all day / Waited for you all day / And all day / And all night / But no show / They was never there“. E così, una scrittura perfetta condanna a godersi questo dolcissimo solo di sassofono in compagnia di un’assenza.

In 4 minuti e 18 di delirio, l’ultima traccia chiude l’EP con un cliffhanger. “It’s All Soup Now” è la formula utilizzata per commentare la confusione esistenziale dell’esperienza umana dove, alla fine, tutto viene messo in prospettiva e si mescola in un insieme dove ogni ingrediente è indistinguibile. La frase è pronunciata quasi con rassegnazione nella prima metà del brano, su una base musicale piuttosto minimale. Il brano evolve in qualcosa di molto più potente e affermativo con una solida linea di basso e un sassofono urlato, seguito improvvisamente da suoni elettronici che ricordano le suonerie dei telefonini di vent’anni fa.

C’è dell’ironia: l’ossessiva ripetizione di questa omogeneità esistenziale è sconfessata da un brano che varia tantissimo, in cui ciascun suono è ben distinto e aggiunge un colore. L’outro, dicevamo, è un cliffhanger. Il nichilismo funziona così: dopo una prima parte di decostruzione e una seconda di disintegrazione, occorre ricostruire. Succederà nel prossimo disco, magari a partire da quegli ultimi fraseggi elettronici?


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Lunar Dreams: La recensione di “Touched the Ground”

  • Lunar Dreams – Touched the Ground
  • 30 Aprile 2024
  • ℗ Diffuse Reality

Sonorità Elettroniche e ritmi Downtempo si intrecciano in “Touched The Ground”, il primo EP dei Lunar Dreams. Il duo, composto dal produttore/musicista Chris Blakey e l’artista italiana Ilona Dell’Olio, nasce a Fuerteventura, nelle Isole Canarie. Questo è un punto chiave nel panorama sonoro dei loro progetti, perché tra le influenze vocali a metà fra Portishead e Massive Attack, si incrociano produzioni elettroniche che arrivano proprio dai paesaggi vulcanici e rocciosi di quella zona, che non sembrano di questa terra. Se Ilona Dell’Olio è, relativamente, una nuova scoperta in ambito musicale, nel caso di Blakey, la situazione è un po’ diversa. Il produttore inglese, ha collaborato con artisti molto importanti nella scena britannica, passando dai Death In Vegas a Nick Cave e Warren Ellis. 

Touched the Ground
Foto di Ettore Maragoni

In “Touched the Ground” l’elettronica si fonde all’arte, altro tassello fondamentale del duo, importato da Ilona Dell’Olio, pittrice che ha collaborato con diverse gallerie tra Olanda e Italia. Ad aprire il disco è la title-track. “Touched the Ground” è un delicato tappeto di melodie di piano, sfarfallii di sintetizzatore e suoni ambientali, che avvolgono in maniera perfetta le calde voci dei due artisti. Prima che i breakbeat entrino da protagonisti su questa traccia, Blakey si districa fra linee vocali, pesantemente radicate nell’ambiente indie-rock britannico. “The Flames” è la ricetta perfetta del Trip-Hop. L’apertura su cui sono impilate delle strutture percussive esotiche se confluiscono nel breakbeat principale su cui le stratificazioni vocali trovano il punto perfetto per svilupparsi, in quella che è probabilmente la traccia più forte di questo disco. 

Mentre i suoni di “The Flames” si inacidiscono, aprono il passaggio a “Dissolve”. La traccia rallenta ancora di più rispetto alle precedenti, trasformandosi in una ballad dai suoni sfocati. Su “Collate” gli echi nelle voci di Dell’Olio, esplodono in ampie strutture di percussioni che sembrano uscire da “Protection” dei Massive Attack. La sezione ritmica ne esce ancora una volta da protagonista, i breakbeat e la corposa linea di basso trasformano tutto il resto in superfluo, eccezion fatta per la voce, che si muove squisitamente tra gli acidi accenti di synth e le batterie elettroniche. Il progetto rimane sulle sonorità trip-hop della prima metà degli anni novanta anche sulla traccia di chiusura. “The Framework” è intrigante e calda. I suoni cadenzati creano un’atmosfera quasi cinematografica, mentre le voci malinconiche di Dell’Olio giocano a nascondino con la strumentale, prima di unirsi a quelle di Blakey sul finale. 


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Boygenius: La recensione di “The Rest”

  • The Rest – Boygenius
  • 13 Ottobre 2023
  • ℗ Boygenius / Interscope Records

Dopo soli sei mesi dall’uscita di “The Record” il trio torna con del materiale completamente nuovo di zecca per coronare la fine del suo primo tour. C’è una cosa all’interno delle dinamiche di questo gruppo, che va oltre la ‘Top 10’ di Billboard, o un concerto al Madison Square Garden, o ancora essere tra gli ospiti principali del Coachella. Ognuna di loro si completa a vicenda. Ogni traccia contribuisce a rendere sempre più chiaro quanto forte sia il rapporto di amicizia fra le tre. Quella delle Boygenius è un’amicizia che va oltre la musica, di quelle che poche volte nella vita ti capita di avere. Di quelle che salgono con te sul treno e ti restano accanto lungo tutto il viaggio. 

Boygenius

Sebbene tutte e quattro le tracce ritornino su vecchie tematiche, già affrontate in passato dal gruppo, le tracce sono tutte nuove e non frutto di sessioni dei progetti precedenti. “The Rest” è stato concepito a Maggio, insieme ai collaboratori di sempre. Registrato tra Los Angeles e Nashville, tra gli storici “Sound City Studios” e il “Blackbird Studios” il trio è stato guidato alla produzione da Ethan Gruska, Tony Berg, Calvin Lauber, Jake Finch e Collin Pastore. L’unione artistica insomma, non è avvenuta solo tra i componenti del gruppo, ma anche tra i loro produttori. 

Nell’apertura del disco, “Black Hole” la voce di Julien Baker fa i conti con una melodia mononota, prima che le ritmiche intricate delle percussioni portino alle armonie vocali di Phoebe e Lucy. “A volte ho bisogno di sentire la tua voce”, cantano verso il finale, prima che la traccia si dissolva nei suoni squillanti delle sirene. 

“Non tutti hanno la possibilità di vivere una vita che non è pericolosa” canta Dacus in “Afraid Of Heights”. È una midtempo dai toni caldi (nonostante l’argomento), costruita su pattern sonori country. Lo strumming di chitarra elettrica clean crea il canale perfetto per le melodie di lap steel, mentre Lucy, Phoebe e Julien riflettono sul tema della morte.

“Voyager” è probabilmente una delle tracce più importanti. Rappresenta la chiusura di un cerchio apertosi oramai cinque anni fa, nel primo EP del gruppo, dove la Bridgers si trovava persa in una relazione caotica. “Camminare da sola in città / mi fa sentire come l’uomo sulla luna”, cantano tutte e tre insieme. È il punto in cui più di tutti Phoebe ha bisogno di cantare con le sue amiche/colleghe, perché è riuscita a tornare con i piedi per terra, è anche merito loro. 

Lo strumming acustico di “Powers” è un richiamo voluto a “The Record”, uscito lo scorso marzo. Il crescendo emotivo passa tutto per le sei corde di quella chitarra acustica, prima che la traccia esploda in armonie vocali, sezioni di trombe “Il ronzio del nostro contatto, il suono delle nostre collisioni”. Questa frase fa letteralmente esplodere la canzone come quella cometa di cui parlano. È un invito a guardare le cose belle, perché spesso durano poco. 

Voto: 7.7/10

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About Time: L’intervista a Sara Curly

“Romantico, autentico e cazzuto”. È così che l’artista Sara Curlydescrive il suo EP di debutto “About Time”, in uscita questo venerdì, che segna l’inizio del grande viaggio della cantautrice. Abbiamo conosciuto Sara Curly con il suo singolo di debutto “Just the Four of Us”, uscito lo scorso luglio. A due mesi di distanza e un ulteriore singolo di mezzo, abbiamo fatto qualche domanda all’artista, per scoprire dove nascono le sue canzoni, la sua visione sulla musica e il suo futuro come artista.

Chi è, e come nasce il progetto Sara Curly?

Sara Curly, nome d’arte di Sara Carli Ballola, è una ragazza che inizia a cantare quasi nello stesso momento in cui inizia a parlare. La presenza di un padre bassista per passione e amante della musica blues e soul ha fatto sì che crescessi fin da piccola con i grandi della black music (e non solo) nelle orecchie, James Brown, Stevie Wonder, Tracy Chapman, Eric Clapton, ecc. All’età di 6 anni avevo un poster di Tina Turner appeso in camera e a 9 ho iniziato a suonare la chitarra.

Il canto, quello c’è sempre stato. Ho “messo in pausa” la musica negli anni dell’università per concentrarmi sull’altra mia grande passione, ovvero le lingue, laureandomi in traduzione, per poi tornare alle “origini” fondendo le mie conoscenze e capacità e iniziando a scrivere in inglese, cosa che in realtà avevo sempre fatto. Il progetto Sara Curly nasce dall’incontro con Luigi Marsala, il mio chitarrista, nel 2019, con cui ho iniziato a coltivare e a nutrire l’idea di mettermi davvero alla prova e iniziare a tirare fuori quella che è la “mia” musica. 

Tra le tue influenze, quella che spicca di più è senza dubbio una sorta di Country/Pop anni ’90. Da dove viene la scelta di attingere così tanto da un genere così datato?

In realtà più che una scelta credo sia semplicemente (e inaspettatamente, oserei dire) il mix risultante da ascolti e influenze variegate, che partono sicuramente da una base pop e confluiscono in una propensione naturale per il soul/R&B/blues/funky/jazz, passando inevitabilmente da una componente country che mi si è “appiccicata” addosso probabilmente per via dell’amore per il mondo acustico e cantautorale americano. Riguardo alle influenze anni ’90, beh, in fin dei conti sono una millenial!

Parlando di artisti che ti hanno ispirato, hai citato diversi nomi, Tina Turner, Joss Stone e Tracy Chapman. Quest’ultima, mi sento di dire, è quella che si percepisce di più all’interno dei tuoi progetti. Che rapporto hai con quest’artista?

Adoro Tracy Chapman ed è una di quelle cantautrici che mi è entrata dentro senza che io me ne accorgessi. Sento tantissimo i suoi testi e il suo modo di cantare mi fa quasi male, per quanto è forte. Mi dicono spesso che somiglio a lei nel timbro vocale, ma devo ammettere che non è una delle artiste a cui mi rifaccio “volontariamente”!

Tornando alle tue canzoni, il video di “Just the Four of Us” prende quasi le sembianze di un diario di viaggio. Nel testo stesso della canzone fai diversi riferimenti al viaggiare. La mia domanda è: Viaggiare influenza in qualche modo (e quanto) il tuo processo creativo?

Viaggiare è, insieme alla musica e alle lingue, un’altra delle mie grandi passioni di vita. Credo che viaggiare, a volte anche in solitaria (anche se solo per brevi tratte), permetta di sentire tutto in modo più amplificato, le emozioni, le percezioni, e ti dà la possibilità di elaborarle con una sensibilità maggiore. L’immagine di un’artista che inizia a scrivere la bozza per la sua prossima canzone sull’aereo di ritorno da un viaggio è molto cliché, ma anche molto vera.  È in quel momento di raccoglimento con séstessi, dopo lo tsunami di input che il viaggio ti scaraventa addosso, che ti senti più “ricettivo/a” e quindi creativo/a. 

Precedentemente abbiamo parlato di diversi artisti che hanno in qualche modo contribuito a creare il tuo background musicale e di conseguenza il tuo suono. Sono emersi tutti nomi importanti, dalla Chapman fino a James Brown. C’è invece qualche artista attuale che ascolti?

Negli ultimi anni sono passata da ascolti blues/soul ad ascolti molto più rnb. L’artista da cui mi sento in assoluto più ispirata ultimamente è H.E.R, ma direi che gli artisti che ascolto molto sono Joss Stone, Alicia Keys, John Mayer, Madison Ryann Ward, Snoh Aalegra, ma anche tanto pop come Lizzo, Miley Cyrus, Beyoncé, davvero un po’ di tutto.

About Time

Vorresti che al pubblico arrivasse un messaggio specifico riguardo il tuo EP di debutto “About Time”.

Per questo mio primo EP ho scelto il titolo “About Time”, che in inglese vuol dire tipo “Era ora!” ma anche perché contiene la parola “Time” (tempo), un concetto che domina e al tempo stesso “assilla” la mia (e quella di tutti, credo) vita. Il messaggio è che non importa quanto ci metti per realizzare qualcosa, un progetto, un sogno nel cassetto; se quella cosa è destinata a te e avrai la costanza e dedizione per crederci e alimentarla, prima o poi quella cosa si realizzerà…E nel mio caso, era ora che lo facessi!

Tornando al discorso di poco fa sul Country/Pop anni ’90. Pensi ci sia in qualche modo una sorta di dogma per cui la musica attuale, anche la più promettente non regga il confronto con le epoche musicali più vecchie?

Credo che ultimamente la tendenza del mondo della musica sia quella di “cavalcare” l’onda di qualcun altro o il successo che può aver fatto un determinato genere, artista, sound o canzone e di emularlo, dando vita a qualcosa di simile e volutamente “già sentito”. Per carità, fare musica originale e creare un sound “mai sentito prima” è molto difficile, ma credo che nelle epoche musicali precedenti ci fosse semplicemente più autenticità e quella volontà di fare musica perché la si ha semplicemente dentro, e meno perché la si deve vendere.

Ora sta per uscire “About Time”, il tuo primo EP. Poi cosa farai (musicalmente parlando)?

“About Time” segna l’inizio di questo mio progetto musicale. Questo EP è un po’ una sorta di manifesto d’arte, una dichiarazione pubblica delle intenzioni per quello che seguirà. Ci sono ancora tante canzoni che per ora aspettano solo di uscire, altre di essere arrangiate e incise e altre ancora di essere scritte, e non vedo l’ora di vedere anch’io stessa dove mi porterà questo grande viaggio!

Se dovessi scegliere una traccia che reputi “più importante” tra le quattro contenute nell’EP, quale sceglieresti?

Credo che “Just the Four of Us” sia in assoluto quella che mi rappresenta di più, sia per le sonorità, che per le atmosfere romantiche/malinconiche in cui mi piace sguazzare, ma anche per il testo, che ritengo autentico e molto personale e sentito.

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Yonic South: La recensione di “Devo Challenge Cup”

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  • Yonic South – Devo Challenge Cup
  • 03 Febbraio 2023
  • ℗ Wild Honey Records

Dall’ultima uscita, in piena pandemia, i “Yonic South”, tornano con un nuovo EP intitolato “Devo Challenge Cup”. Nati all’interno di una Citroen, la band potrebbe ricordare “vagamente” il nome di un altro gruppo di New York di primi anni ’80. Ma questo non è l’unico riferimento, nel nuovo EP della band bresciana ci sono citazioni ai “Devo”, in particolare a “Mark Mothersbaugh” “Blink-182” e come in gran parte dei lavori precedenti, ai “Twix” (Si, le barrette di cioccolato). Nonostante i riferimenti alla Pop Culture e alle band punk di primi anni ’70, possano far pensare ad un disco mediocre e con testi poco incisivi, “Devo Challenge Cup” ha superato le mie aspettative. A differenza del lavoro precedente uscito per “La Tempesta Dischi”, quest’album esce sotto “Wild Honey Records”. I Yonic South hanno lasciato da parte le sperimentazioni noise e psichedeliche di Twix & Drive, portando il progetto sul garage punk: riff suoni metallici e spigolosi e testi brevi.

L’EP si apre con “The Helmet”. Delle progressioni arabeggianti si accostano a suoni metallici e distorti, la voce del cantante, presa in prestito a “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson, ci introduce in un mondo dalle atmosfere deliranti. A bordo di una Citroen Picasso per “gareggiare in una gara che non possiamo vincere”. Prima ancora di rendersi conto, si piomba alla traccia successiva. Mr. Fliptop sembra un festino anni ’70 a base di acidi, la voce assume delle punte irriverenti e si ritrova un tema attuale, riguardo la Russia. Sulla stessa scia ritmica delle due tracce precedenti, veniamo introdotti a “Girl U Want”. È la storia di una ragazza bella e dal profumo inebriante, ma inarrivabile. Non mancano i riferimenti alla cultura pop, come detto in precedenza. Nella canzone troviamo citazioni a Miss Peach e gli immancabili Twix. Fill di rullante e distorsioni compatte aumentano l’intensità fino a condurci verso la quarta traccia del disco. “Drums Hero” crea atmosfera per ciò che verrà dopo. Aumenta il patos con un’ambientazione da duello western mista ad un rullante da plotone d’esecuzione. Mentre il batterista da sfoggio delle sue abilità ci si ritrova catapultati nella traccia più forte dell’EP, scelta come singolo. “Mark Mothersbaugh Alterego” ha un’andatura più alta, come se a bordo di quella Citroen qualcuno abbia premuto il pulsante del turbo. “Ti troverai in un luogo impossibile da descrivere” dice il cantante, un mondo dove il reale e l’irreale si mescolano. Un mondo dove, se riesci ottenere ciò che hai sempre voluto dovrai prenderti carico anche di tutte le cose che non avevi considerato. L’alter-ego di Mark Mothersbaugh chiede ai ragazzi di scegliere la canzone che preferiscono, loro lo fanno e si dirigono verso la traccia finale dell’EP. “All The Small Twix” è una citazione alle già ampiamente discusse barrette di cioccolato e una vera e propria cover (tanto che il gruppo ha dovuto dare i crediti a Mark Hoppus e Tom DeLonge), alla “All The Small Things” dei Blink-182 contenuta in “Enema of the State”. Il delirio di questo EP si consolida verso metà traccia, dopo che il gruppo canta la prima strofa della canzone dei Blink, ritornano tutti quei suoni psichedelici e noise, che per le cinque tracce precedenti erano stati evitati.Ora traiamo delle conclusioni. Questo EP non è sicuramente un capolavoro, ha diversi punti deboli, che risiedono per la maggior parte nella stesura dei testi e nelle argomentazioni, un’altra pecca è legata principalmente al costante richiamo alla cultura pop, che va in netto contrasto con quello che il genere vuole trasmettere per definizione. Oltre queste piccole sbavature il disco è sicuramente interessante, soprattutto dal punto di vista produttivo e dalla scelta della palette di suoni che è stata utilizzata.

Voto: 6/10

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