Fontaines dc

Fontaines D.C.: La recensione di Romance

  • Fontaines D.C. – Romance
  • 23 Agosto 2024
  • ℗ XL Recordings

Sta succedendo di nuovo, vero?

“Di nuovo nell’oscurità” – sono queste le parole che Grian Chatten, frontman della band, ha utilizzato per aprire Romance, il nuovo disco dei Fontaines D.C. a due anni di distanza da Skinty Fia.  Eppure, saranno i richiami allo “Shining” di Kubrick nel video di Romance, o le lucenti melodie di Favourite, ma questo disco sembra apparire tutt’altro che oscuro.

Da quel debutto, Liberty Belle, uscito nel 2017, ne è passata di acqua sotto i ponti. Il quintetto è stato consacrato a salvatore del post-punk con Dogrel nel 2019. Ha sfiorato il Grammy nel 2021 dopo aver pubblicato A Hero’s Death. Lo switch vero e proprio arriva però nel 2022, quando la band tira fuori dal cilindro il suo terzo disco. Skinty Fia è la cosa più completa che abbiano mai fatto, uno dei migliori dischi irlandesi dal 2000 ad oggi e un classico istantaneo. 

Ora la domanda sorge spontanea: Per quale motivo siamo tornati indietro così tanto per parlare del nuovo album? La risposta è nei fili conduttori. Gli scorsi tre dischi erano legati a doppio filo dalla stessa identica visione. Un morboso attaccamento verso la loro terra natia. Mentre su Dogrel Chatten si era scagliato sull’Irlanda – e in particolare su Dublino – sul terzo disco, uscito dopo il loro trasferimento a Londra, la band appariva come tormentata da un insaziabile senso di colpa per aver lasciato quella terra che aveva contribuito a formarli come persone e come artisti. Bene, tutto questo sembra essere solo un lontano ricordo. Ora i Fontaines D.C. sono liberi da quel tarlo, liberi di andare oltre, di esplorare e sperimentare. Su Romance tutto questo è espresso all’ennesima potenza. 

Romance

Come sonorità possiamo dire che la band sembri ripartire dai tratti Shoegaze espressi su Skinty Fia, ma la verità – anche in questo caso – è molto più articolata. Mentre facevano da spalla agli Arctic Monkeys durante il loro tour, tutti i membri del gruppo hanno avuto modo di condividere gli uni con gli altri i generi e gli artisti più disparati. Si passa da Sega Bodega agli OutKast, dai Deftones ai Korn. Spunti sonori che vanno dall’Hip-Hop al Metal, hanno influenzato pesantemente i processi creativi dei cinque membri.

Si sono presi anche del tempo per loro stessi. Grian si è trasferito a Los Angeles e ha fatto uscire il suo disco di debutto da solista. Con Chaos For The Fly si è completamente staccato dalle sonorità cupe dei Fontaines, rifugiandosi nei toni caldi del Pop Barocco e del Folk. Ha scoperto un nuovo modo di scrivere e ha portato la sua voce verso orizzonti che non aveva mai sperimentato. Deegan, il bassista, si è trasferito a Parigi, mentre O’Connell, che insieme a Chatten rappresenta una delle menti più creative del gruppo si è spostato in Spagna. Ha contribuito, insieme a Peter Perrett (The Only Ones) ad alcune sue produzioni, ha esplorato l’arte di arrangiare gli archi e, nel mentre, è pure diventato padre. Poi, come in un film, il disco ha chiamato, e i cinque ragazzi di Dublino hanno risposto. 

Romance è il cambio di rotta più incredibile che una band potesse intraprendere dai tempi di Tranquillity Base Hotel & Casino dei Monkeys e – in un certo senso – ci sono delle sensazioni simili. Non a caso, concluso il sodalizio con Dan Carey, il gruppo si è rivolto a James Ford (Depeche Mode, Arctic Monkeys, Gorillaz), per la produzione. Lui più di tutti sa cosa vuol dire intraprendere un percorso di cambiamenti radicali e, più di tutti, sa come farlo mantenendo intatta l’identità artistica. Tra gli scricchiolii distorti dell’alt-rock anni ’90 e estetiche di primi anni 2000, i Fontaines D.C. suonano come la miglior band a cui potessero mai ispirarsi, loro stessi.

Messo da parte il senso di identità dei lavori precedenti, la band non riesce però a mettere da parte la costante sensazione di degrado in cui si sente immersa. Solo che, invece di abbandonarsi completamente ad essa, questa volta sceglie il distacco. Il disco si sposta verso orizzonti astratti, a metà fra ciò che è reale e ciò che è finzione. Grian e gli altri si tengono in equilibrio fra i due mondi come dei funamboli. E mentre questa pressione, e questa sensazione di degrado sembrano non scrollartisi mai di dosso, la band ci trova dell’amaro Romanticismo.

“Forse il romanticismo è un luogo” – canta Chatten tra inquietanti crescendo e imponenti melodie nella title-track. Su Starburster arriva uno dei momenti più sperimentali del gruppo, dove sezioni ritmiche propulsive e stridenti melodie di Mellotron, fanno da bozzolo per tematiche autodistruttive, prima di abbandonarsi a orchestrazioni barocche. Nato da un litigio tra Chatten e O’Connell, Here’s The Thing schiaccia il piede sull’acceleratore (o sui pedali delle distorsioni). Il brano è ansiogeno eppure alla costante ricerca di un briciolo di desiderio. Desire resta su questo ridondante gioco di ritmiche, delle montagne russe che oscillano fra ritmi narcotizzati e frenetici, abbandonati a tinte shoegaze e sonorità sensuali. 

Le influenze losangeline si avvinghiano a In The Modern World. Tra suoni fortemente ispirati allo slowcore di Lana Del Rey, il brano si addentra in tematiche fortemente politicizzate, che raccontano di un mondo decadente, del fallimento del capitalismo, e della lotta politica sotto un triangolo amoroso nell’occhio del ciclone. La cosa ironica è che non esiste niente di più romantico di tutto ciò. Su Bug emergono le influenze folk che hanno caratterizzato tutto il debutto solista di Chatten, con uno strumming che ricorda vagamente I Love You. L’acusticità viene polverizzata da orchestrazioni e chitarre squillanti, mentre il frontman danza fra due mondi, uno influenzato dai R.E.M. e l’altro dall’era più pop degli Smiths.

Loop e scricchiolanti chitarre acustiche guidano il sentimentalismo di Motorcycle Boy. Ciò che colpisce a questo punto di Romance è ancora una volta il testo. Grian non ha più paura di parlare di sentimentalità, non importa in che ottica. Nonostante il lavoro squisito di tracce come A Couple Across The Way, lo stesso Chatten aveva più volte detto di trovarsi in gravi difficoltà quando doveva scrivere di sentimenti. Bene, sembra aver trovato la sua strada. Sundowner è un’ode all’amicizia scritta e cantata da Conor Curley, mentre su Horseness Is The Whatness tornano, come ai tempi di Dogrel, i riferimenti a Joyce. Essenzialità e Orchestrazioni sono le due parole chiave di questo brano. Il battito cardiaco della figlia di O’Connell (che ha scritto e arrangiato la traccia), si unisce a un crescendo malinconico e allo stesso tempo caldo e avvolgente. 

Death Kink ancora una volta assorbe scelte sonore dai dischi precedenti, salvo poi trasformarle in strutture apocalittiche a sostegno di un testo che analizza in lungo e in largo il risveglio da una relazione guidata dalla manipolazione in un mondo che farebbe rabbrividire Orwell. 

E poi? Forse è meglio non svegliarsi mai del tutto. Il disco si chiude con il jangle-pop a tinte shoegaze di Favourite. Dite la verità, vi siete spaventati quando questa canzone è stata rilasciata come singolo. Avete pensato che i Fontaines D.C. fossero l’ennesima band venduta a chissà quale sistema discografico. Solo dopo aver ascoltato questo disco nella sua interezza realizziamo il suo vero significato. Perché a volte si può trovare del bello anche negli attimi di tristezza. Perché a volte ti è concesso solo arrenderti in balia degli eventi. Come l’amaro Romanticismo di due innamorati che si concedono l’ultimo bacio, mentre il mondo esplode.

5,0 / 5
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Slowthai: La recensione di “Ugly”

  • Slowthai – Ugly
  • 28 Ottobre 2022
  • ℗ Method Records / Universal Music Group

Gran parte delle sfaccettature della scena alternative britannica confluiscono nel nuovo LP dell’una volta rapper di Northampton. Nonostante dopo l’ascolto dei primi secondi della prima traccia si potrebbe pensare ad un album profondamente radicato dentro i confini dell’Hip-Hop, quello che si scopre lungo l’ascolto delle canzoni successive è che, “Ugly”, è ben altro. Ogni traccia di questo disco è intrisa di punk, indie, synth ed elementi appartenenti a sonorità industrial. Ad aiutare l’MC inglese accorrono personaggi parecchio di spicco nella scena UK. Tra i vari, i più importanti sono sicuramente i “Fontaines DC” e “Sega Bodega”, che aveva prodotto parte dell’ultimo disco di “Caroline Polachek”. I testi raccontano di autodistruzione, la paura nel diventare padre, egoismi ed omicidi. 

“Yum”, traccia di apertura dell’album si apre con synth pulsanti e il rap di slowthai, tra deliri di egocentrismo e campionamenti di urla. In “Selfish” abbiamo la prima prova della direzione verso cui questo disco sta virando. Tra 808 e sintetizzatori distorti, spiccano sezioni ritmiche punk e linee di basso potenti. “Sooner” parte con un arrangiamento scarno, come solo nel punk si può sentire. Al posto di un classico basso, qui si opta per dare tutto lo spazio alle 808. È una canzone apparentemente più allegra rispetto alle precedenti, almeno dal punto di vista melodico. Perché dal punto di vista del testo invece si parla del non sentirsi all’altezza del mondo, del non fidarsi di nessuno, del fare qualsiasi cosa per il raggiungimento di uno scopo di cui non hai bisogno. “Feel Good” mischia bene bassi distorti e chitarre cruncy su una ritmica elettronica, mentre in “Never Again”, costituita da toni Lo-fi, ci è concesso di fermarci un attimo per respirare.

“Fuck It Puppet” è tutta Hip-Hop, quello più puro. “HAPPY”, una delle tracce migliori di questo disco, mischia il modo classico di rappare a batterie punk e chitarre cupe dal suono pulito. Gran parte del groove è composto da basso, molto presente nella traccia e la batteria. Il cantante parla del valore della felicità. “UGLY” è probabilmente la traccia più melodica. È costituita da un pattern nebbioso di chitarre distorte e sintetizzatori, trasportati dalla solita sezione ritmica, che a questo punto del disco si è completamente convertita, da drum machine a batterie acustiche. Slowthai non perde il suo stile da rapper, anzi lo incastona dentro una performance perfetta, liberandosi nelle urla del ritornello. 

In “Falling” assistiamo all’ennesima svolta di questo disco. Suoni modulari e chitarre piene di effetti preparano il terreno per un testo che parla di abbandono. “Wotz Funny” tra storie di madri single che lavorano 14 ore al giorno e insegnanti costretti a fare i senzatetto, nasconde la paura del non essere in grado di diventare padre. In “Tourniquet” veniamo accolti dal piano forte, elemento non ancora utilizzato nel disco. La traccia presenta svariate sfaccettature acustiche, che lasciano a slowthai l’arduo compito di esprimere attraverso urla e voci senza emozione alcuna la disperazione di questa canzone. “25% Club” mette in campo percussioni legnose e una chitarra classica. Parla dell’eterna ricerca da parte di ogni persona, del pezzo mancante del puzzle. Quella cosa che ci renderebbe completi al 100%.

Voto: 6.5/10

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