French House

Justice: la recensione di “Hyperdrama”

  • Hyperdrama – Justice
  • 26 Aprile 2024
  • Genesis/Because Music

Portatori sani del french touch, estimatori dei Daft Punk, il duo sperimentale prosegue un cammino che va avanti da oltre vent’anni. Il loro sound ampiamente riconoscibile ha subito alcuni cambiamenti negli anni, con il granitico ed entusiasmante esordio, seguito da uno scivolone del secondo “Audio, Video, Disco”, con un disastroso richiamo al progressive anni ’70, fino al ritorno ad un sound più elettronico e dance in “Woman”. Sono questi quindi i loro marchi di fabbrica, così come la croce che non li abbandona mai negli anni. Il duo parigino decide quindi di coniare il tutto in “Hyperdrama”, senza però deludere e riavvicinandosi con cautela ai fasti di “Cross”, non più lontani anni luce. In questa ultima opera, inoltre, non mancano le collaborazioni.

Si parte con Kevin Parker, leader dei Tame Impala, che fa decollare l’album, con la prima scanzonata e danzante “Neverender”. La dance settantiana emerge in tutto il suo splendore.

Justice

Con “Generator” si torna a melodie più familiari: un brano che strizza l’occhio ai due “Phantom” ed a “Genesis” del primo album. Un vero gioiello di quasi cinque minuti.

La soave voce di Rimon spezza il duro ritmo iniziale di “Afterimage”: la traccia prosegue senza bruschi tornanti, in un percorso piacevole ma senza tratti memorabili.

La successiva “One Night/All Night” segue la falsariga iniziale, con i medesimi ospiti, mentre “Dear Alan”, che con i suoi cinque minuti e mezzo è la canzone più lunga di “Hyperdrama”, è l’apice il manifesto del french touch: il jingle televisivo iniziale si apre in un continuo crescendo, fino a maturarsi entro il primo minuto. L’intero pezzo gira intorno a questi suoni, intervallati da bridge sintetici che interrompono la melodia centrale. Si sente che i Justice sono molto ispirati in questo nuovo album.

Questa originalità traspare ancora di più in “Incognito”, dove la partenza eterea lascia brevemente spazio ad un tappeto elettronico che mixa egregiamente synthwave e progressive, toccando vette non lontane dal “disco con la croce”. Perfetta la chiusura soffice, collegata in modo lineare con la successiva “Mannequin Love”, in compagnia degli inglesi The Flints.

L’eco di Brian Eno è inconfondibile in quella che a tutti gli effetti potrebbe essere un intermezzo, ovvero “Moonlight Rendez-Vous”. Sembra quasi un intro della seguente “Explorer”, composta con l’ausilio di Connan Mockasin, in pieno stile cinematografico, come fosse una colonna sonora di un thriller.

Arriva poi un trittico, che andrebbe ascoltato tutto d’un fiato: l’apertura sognante viene bruscamente stroncata da un synth rumoroso e prepotente, per poi aprirsi nuovamente fino alla successiva interruzione, in cui sembra che il tempo venga scandito dal bip di un elettrocardiogramma. Questo è il canovaccio di “Muscle Memory”, un susseguirsi di saliscendi in pieno stile ottovolante. E se “Harpy Dream” funge da ponte tra i due estremi del trio, “Saturnine” si presenta sensuale, così come la voce dell’altro ospite Miguel. Particolari sono le interruzioni costanti di quello che sembra il campanello tipico dei desk degli hotel.

“This is the end” diceva Jim Morrison, e mai più azzeccato poteva essere il titolo ed il sound finale dell’opera. Insieme all’ultimo featuring Thundercat, Gaspard Augé e Xavier de Rosnay creano una chiusura secca e asciutta, con rimandi ai migliori Royksopp.

Graditissimo ritorno che fa sempre ben sperare. Lunga vita all’elettronica d’autore, lunga vita ai Justice.

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Tuesday Music Revival: Daft Punk – Homework

  • Daft Punk – Homework
  • 20 Gennaio 1997
  • ℗ Warner Music France / ADA France 

È il 1997 e la musica elettronica sta vivendo forse la sua fase più fiorente. La cosa incredibile è che è avvenuto tutto nel giro di pochissimo tempo. Fino alla prima metà degli anni ’90, il driver principale dell’industria musicale era il rock. Tutti volevano fare rock, compreso il duo, che veniva proprio da quell’ambiente, e che non era stato in grado di offrire un adeguato contributo. Eppure c’era qualche outsider. Qualcuno che aveva avuto l’intuizione del secolo. Non era certo bastata a spingere la musica elettronica alle orecchie dei più, ma aveva creato l’ecosistema perfetto per la proliferazione di alcune delle menti artistiche più forti di questo secolo. 

Siamo in Francia, e Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo, sono parecchio diversi da come li ricorda l’immaginario collettivo. Non sembrano ancora due viandanti dello spazio, per le maschere dovremmo aspettare ancora un po’, ma in quanto a idee e creatività, vivono sicuramente su un altro pianeta. Anche le sonorità sono diverse da quelle dei loro dischi successivi, sono più grezzi. Il punto di partenza e quello d’arrivo, in “Homework”, restano saldamente ancorati alle palette sonore Techno dell’epoca. Una cosa, forse la più importante, già la hanno però. Una dote incredibile nell’arte del campionamento. E non quel campionamento che nel 97 era già stato ampiamente esplorato. Questo è diverso. Ogni campione è cucito alla perfezione sopra delle composizioni straordinarie. 

La loro è una storia di incontri casuali. Il primo nel 1993, quando il duo, in compagnia di Laurent Brancowitz, in seguito chitarrista dei Phoenix, cerca di mettere in piedi una band. Posto sbagliato, momento sbagliato. La band si scioglie dopo un anno, ma qui avviene la svolta. Durante un rave a Parigi, Homem-Cristo e Bangalter, conoscono Stuart McMillan, un produttore della Soma Recordings. L’anno successivo, la stessa etichetta pubblica “The New Wave”. Quella è la genesi dei Daft Punk, perché quella traccia diventerà “Alive”. 

“Homework” incarna alla perfezione gran parte delle sfaccettature che i Daft Punk manterranno incastonate ai loro lavori anche negli anni futuri: il duello fra vecchio e nuovo e un amore incondizionato per la musica disco. Il disco ha un principale punto negativo, la coesione. Lo stesso duo ha ammesso, in più di un’occasione, che le tracce del disco erano concepite come una serie di singoli, poiché non avevano preso in considerazione l’idea di fare un album e questo, soprattutto a distanza di 27 anni lo si concepisce in maniera piuttosto forte. Il punto è che per quanto sia una sbavatura importante, non riesce a scalfire l’anima di “Homework”. 

Homework

Ad aprire l’album è “Daftendirekt”, una composizione dai tratti acidi, in cui i due campionano loro stessi. ‘Revolution 909’ si scaglia contro la politica anti-rave di Chirac, mentre su “Da Funk” li vediamo danzare su linee melodiche acide, in una delle tracce cardini di questo disco. Nonostante le tracce siano scollegate tra loro, una cosa i Daft Punk l’hanno mantenuta invariata. Il beat in 4/4. “Phoenix”, è energica, i break-beat ricalcano ancora una volta l’house più tradizionale, facendo da tappeto per una struttura di sample gracchianti. Lo scrosciare delle onde dell’intro di “Fresh”, ci porta lentamente alla traccia portante di questo disco.

“Around The World” è minimale, sulla sezione ritmica elettronica, sono spalmati pochi suoni. La linea corposa di basso si interseca con una semplice melodia di sintetizzatore. Il testo occupa la parte principale. Vocoder ed effetti “robotizzano” una frase semplice e ripetitiva “Around The World”, che si ripete per tutta la traccia, prima di convertirsi nelle percussioni distorte dei sette minuti di Rollin’ & Scratchin’. 

Nella terza parte del disco, lo sporco sembra sparire. “Teacher” omaggia l’Hip-Hop con I suoi campionamenti, mentre in “High Fidelity” il duo tagliuzza e riassembla “Just the Way You Are” di Billie Joel. Tornano con quel suono grezzo e contorto in “Rock’n Roll”, ma solo per i successivi 7 minuti, perché da “Oh Yeah” a “Indo Silver Club”, la band mette i suoni sperimentali in secondo piano e si concentra sull’House nuda e cruda che in quel periodo stava infiammando i club. 

“Alive” è il terzo pilastro portante di “Homework”. La traccia è il risultato dei primi due singoli del loro EP di debutto, che si combinano in un’esplosione di stratificazioni elettroniche e effetti. Il disco si chiude con una reprise di Around The World in “Funk Ad”. Il vero protagonista del disco, non è l’house, che fornisce solo l’immaginario sonoro, il vero protagonista è l’utilizzo dei campioni e il minuzioso modo in cui vengono lavorati. I synths acidi, i richiami al Boogie o al G-Funk. Tutto questo ha creato il terreno giusto per la proliferazione della musica pop moderna.

Sono passati 27 anni. Nel mentre il duo si è evoluto, ha esplorato i suoni e le ambientazioni più disparate, e si è sciolto con un epilogo da inserire nei libri di storia, eppure non passa giorno senza che questo disco ci ricordi quanto siano stati importanti nel plasmare la musica elettronica di oggi. 

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