Giorgio Debernardi

GIORGIO DEBERNARDI: LA RECENSIONE DI “SHAJARA”

  • Shajara – Giorgio Debernardi feat. Shajara Ensemble
  • 23 febbraio 2024
  • Stand Alone Complex

Guardare in alto nella foresta più fitta significa incontrare i raggi del sole che trapelano fra gli alberi e le loro foglie, dipingendo ghirigori unici dove oscurità e luce danzano insieme, generando scintillii che si estendono a perdita d’occhio. Questa non è solo una scena suggestiva ma è anche l’immagine che meglio rappresenta Shajara, il disco d’esordio di Giorgio Debernardi e della sua Shajara Ensemble, uscito il 23 febbraio per Stand Alone Complex.

Shajara è un disco immersivo, un percorso di otto tappe in cui si avvicendano sensazioni e contaminazioni continue in cui, al primo ascolto, sembrerebbe di percepire un sound diviso nettamente fra notte e giorno. È bene, tuttavia, assaporare a pieno il viaggio e interiorizzarlo per non accontentarsi della prima risposta che viene a farci visita.

Si tratta infatti di un lavoro “dalle luci soffuse”, che mischia il chiarore dei ritmi e del sound vivace della world music all’oscurità di contrabassi e fiati jazz, assieme ad inaspettate chitarre acustiche dolci e meditative. In tutto questo, quasi voler innalzare tutto verso un “Sacro” palpabile, si inseriscono moltissimi strumenti, alcuni così esotici da risultare sconosciuti.

Al musicista siro-italiano Debernardi (chitarra acustica, weissenborn, daf, sansula, calimba cromatica, cori), si aggiungono Marco Bellafiore (contrabbasso), Alan Brunetta (percussioni, marimba, rodes) e Matteo Cigna (vibrafono, marimba, balafon). Assieme a questi Shajara può vantare la collaborazione di diversi artisti provenienti da diverse culture come il chitarrista sudafricano Guy Buttery, la cantante francese Nadine Jeanne, il trombettista Luca Benedetto, la korista Elena Russo e la calabasista Carla Azzaro.

Attraverso le ciclicità ritmiche e i loop melodici condotti da questa originale miscela l’ascoltatore ritorna alla sua origine, ad un tempo d’ascolto lento e rigenerativo.

Il merito di guidare questa catarsi va essenzialmente a Debernardi, ma anche all’ensemble che lo accompagna, che oltre ad essere un gruppo di musicisti unico e variegatissimo rappresenta la compagnia perfetta per un lungo viaggio, uno di quelli che si intraprende quando si è alla ricerca di qualcosa di importante.

Non è un caso che il musicista siro-italiano scelga come titolo la parola che dall’arabo si traduce letteralmente come “albero”. Quante volte, persi in una quotidianità intrappolata nei loop burocratici e nel cemento più freddo ci è capitato di riconoscere quanto sia effimero e il mondo che ci siamo costruiti attorno, quanto artificiali siano i suoi schemi e i suoi ritmi?

È quando questa consapevolezza fa capolino nella nostra sensibilità che sentiamo il richiamo. Vi sarà capitato almeno una volta nella vita. Come un antico mantra questo ci invita a scappare dal grigio dalla nostra realtà per ritornare all’origine, a correre liberi lungo foreste sconfinate, fino a (ri) abbracciare la natura che ci ha creato.

Quella chiamata Giorgio Debernardi la segue fino a tradurla in Shajara e a portarci assieme a lui. Giunti fin è giusto chiedersi: può il contatto con la natura risolvere quell’antica incomunicabilità fra noi e il mondo che ci circonda? Può il ritorno a luogo che ci ha generato risolvere l’enigma che porta gli esseri umani a sentirsi da sempre così fuori posto? Può un solo albero, e il suo abbraccio, riuscire a salvarci e farci ricordare chi siamo?

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