High Score

Sigur Ròs: La recensione di “ÀTTA”

  • Sigur Ròs – ATTA
  • 16 Giugno 2023
  • ℗ Von Dur Limited / BMG Rights Management (UK)

Il gruppo islandese è riuscito a creare un’aura incredibile in tutti i progetti usciti da Ágætis byrjun in poi. Il progetto ha ridefinito il post-rock e la musica orchestrale, esplorando le atmosfere delle orchestrazioni, unite alla musica ambient, il tutto accompagnato dalle parole inventate e dalle sottili linee di voce di Jónsi Birgisson. Il progetto del trio è figlio di un tipo di post-rock anni ’90 difficile da digerire, e sta qui la genialità del gruppo. A differenza di quel post-rock, qui non c’è nulla di complicato, nulla di noioso, solo emozione. È un insieme di contaminazioni che esplode in emotività, atmosfere sognanti e momenti altalenanti di tensione.

ÁTTA, ottavo album in studio della band è il primo disco del gruppo da circa dieci anni, suddiviso in dieci tracce, ognuna collegata all’altra, come se fosse un’opera completa. Ed in effetti lo è. A impreziosire l’intera esperienza c’è un’orchestra composta da 41 elementi.

La traccia di apertura del disco, “Glóð”, è un crescendo di emozioni, prima che freni bruscamente convertendosi in un ronzio di sottofondo da cui scaturisce “Blóðberg”. Per oltre sette minuti (mai banali), archi e fiati riempiono lo spazio con potenti linee melodiche. “Skel” inizia in modo affascinante, raggiungendo un climax cristallino nel suo culmine, mentre Birgisson crea un tutt’uno tra la sua voce e le linee spezzate del violoncello.

Sigur Rós | Auditorium Parco della Musica : Auditorium Parco della Musica

“Andrá” è la rivelazione del disco. La traccia in cui le voci di Birgisson arrivano ad un livello superiore, accompagnata da un vortice di archi e piano. “Ylur” è intensa, offre ampi spazi di riflessione e la traccia sia affascinante, in questi frangenti torna una potente richiesta di attenzione verso l’ascoltatore.

A differenza di tanti altri lavori del gruppo, questo è semplice, a tratti naif, se paragonato con molti dei loro lavori precedenti. Le tracce non vanno oltre la parola, cosi come il titolo del disco che significa 8, ed è per giunta, la sequenza di chiusura. È composta da quasi dieci minuti di oscillazioni, cambi di atmosfera, capacità di produzione oltre ogni limite e tranquillità. È il finale perfetto, una composizione che racchiude perfettamente tutti i percorsi affrontati dentro il disco. 

Solitamente questa pagina cerca di tenere da parte le impressioni soggettive nel recensire un progetto, ma è davvero difficile quando si presentano lavori del genere, capaci di scavarti a fondo e portare alla mente ricordi e sensazioni sepolte dentro di te. 

Voto: 8.5/10

/ 5
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Wednesday: La recensione di “Rat Saw God”

  • Wednesday – Rat Saw God
  • 7 Aprile 2023
  • ℗ Dead Oceans

Dopo “I Was Trying to Describe You to Someone”, disco d’esordio del 2020, il quintetto del South Carolina ha spiccato il volo e non accenna a volersi fermare. Tra il 2021 e il 2022 i Wednesday hanno pubblicato un disco in studio, uno live e un disco di cover, e ora sono usciti con un nuovo progetto. “Rat Saw God” altro non è che uno spaccato di vita dell’ambiente da cui provengono, ma tra fanatismi religiosi e la grande ipocrisia dell’America moderna, trovano spazio anche i ricordi, belli o brutti che siano, raccontati senza veli Hartzman, frontwoman della band.

La stesura del disco inizia ne 2021, dopo l’uscita di “Twin Plagues”. Hartzman (voce/chitarra ritmica), Lenderman (chitarra solista), Alan Miller (batteria) Xandy Chelmis (pedal steel) e Margo Schulz (basso), si riaffidano al loro spirito guida del disco precedente, il produttore Alex Farrar (Indigo De Souza, Hippo Campus, Snail Mail). Insieme costruiscono un disco con striature alternative anni ’90, in grado di mutare da un momento all’altro, passando da suoni caldi a chitarre sporche e cupe, cambi di ritmo e piccoli spunti industrial.

Il suono pulito di “Hot Rotten Grass Smell” dura una manciata di secondi, prima di essere sovrastato da un alternarsi di strati su strati di chitarre distorte e sezioni minimali. “Bull Believer”, uscito come singolo di anticipazione ad agosto del 2022, potrebbe ricordare vagamente qualche esponente del grunge di inizio anni ’90. È la prima traccia in cui si nota il cambio di tematica. Mentre sulla superfice la canzone sembra parlare del non riuscire a fermare le dipendenze, più in profondità spuntano fuori ricordi del periodo del liceo.

“God Shocked” crea una sensazione di crescendo emotivo, scandito dalla sezione ritmica di Miller e Schulz. Nonostante il testo sembri non dire granché, il protagonista di questa canzone e la “casa che va in fiamme” altro non sono che due ulteriori tasselli nella vita della frontwoman, alle prese con l’ambiente da cui proviene, abbandonato a sé stesso, e con nessuna intenzione di migliorarsi. 

In “Formula One” la voce filtrata di Hartzman, appare quasi come una canzone della buona notte, accompagnata dalla lap steel di Chelmis. È più lenta e calda, quasi come la realtà di cui parla. “La mia giornataè finita / Ascolto quello che stavi pensando / L’amore non è il modo di trattare un amico”. “Chosen to Deserve” prende delle sembianze country. “Abbiamo iniziato raccontando tutte le nostre storie migliori prima / Adesso ti racconterò tutte le mie peggiori”, è così che esordisce Hartzman in questa traccia. Racconta della dipendenza di gran parte dei suoi amici da un farmaco per le allergie, che se assunto in grandi quantità provoca allucinazioni, della sua dipendenza dagli alcolici e della solitudine. “Bath County” torna allo stile delle prime tracce del disco, questa volta però oltre le stratificazioni delle chitarre, la canzone si sorregge su un’incisiva sezione di sintetizzatori.

“Quarry” è pervasa da un alone folk, sovrastato da distorsioni e voci filtrate. Tornano i riferimenti a posti importanti nell’ambiente in cui è crescita Hartzman e attacchi agli Stati Uniti. “L’America è una bambina viziata che ignora il dolore”. In “Turkey Vultures” inizia come un crescendo emotivo di caldo e scintillante rock, salvo poi abbandonarsi a deliri stridenti della pedal steel di Chelmis nella seconda parte della canzone. Nella cupa “What’s So Funny” la chitarra clean e una batteria lo-fi mettono la voce della cantante in primo piano. Hartzman canta di “Momenti bui che ti fanno capire chi sei veramente”. “TV in the Gas Pump” è caratterizzata da suoni metallici stridenti e stonati, disposti magistralmente in un ambiente indie-pop.  

Voto: 8.5/10

/ 5
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Lana Del Rey: La recensione di “Did you Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd”

  • Lana Del Rey – Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd
  • 24 Marzo 2023
  • ℗ Polydor Records Release / Interscope Records

Il nono progetto in studio di Lana Del Rey, al secolo Elizabeth Woolridge Grant, è un album mastodontico che esplora la famiglia, l’amore è il senso di perdita aiutato da riferimenti biblici e atmosfere malinconiche. Come approccio cantautoriale, il disco non si allontana particolarmente dai lavori precedenti e ritornano tematiche che stanno molto a cuore alla cantautrice newyorkese, come la morte e più in generale, la perdita.  Ad accompagnare la cantautrice verso la stesura finale di questo disco c’è un vasto assortimento di produttori, ma il nome più importante (e quello che compare in gran parte delle produzioni) è sicuramente quello di Jack Antonoff, produttore di Fun., Lorde, la stessa Lana Del Rey e colui che ha traghettato Taylor Swift verso il suo nuovo stile musicale. Tra gli altri nomi abbiamo Drew Erickson, produttore storico di Lana Del Rey, Nick Waterhouse (Jon Batiste, Allah-Las), e Zach Dawes, altro nome già noto all’interno della discografia dell’artista. Nonostante il numero importante di produttori, l’album resta omogeneo, salvo qualche piccola sbavatura, per tutte le 16 tracce, spaziando comunque tra sezioni orchestrali, cori e ritmiche della nuova scena R&B.

“The Grants”, traccia di apertura del disco che prende porta il nome della sua famiglia, è un concentrato di Gospel e orchestrazioni, con riferimenti biblici alla montagna di Mosè e Lana che porta con sé le memorie dei suoi cari. In “Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd” enormi percussioni e gli archi guidano una cascata di note di pianoforte verso richiami ai grandi musicisti degli anni ’70, verso la paura di non essere ricordati, verso la solitudine, tutto condito con una voce tanto vellutata quanto straziante. “Sweet” riprende uno degli argomenti della prima traccia, riguardo l’avere dei figli, stesi su una dolce melodia di piano forte. I sussurri, le melodie veloci di piano e chitarra conducono “A&W” ad un’epopea di sette minuti costruita su potenti armonie vocali e linee leggere di sintetizzatore che sfuma in effetti ambientali e batterie elettroniche. 

“Judah Smith Interlude” è costituita da un pianoforte che sembra suonare nelle profondità del mare, ma ciò che la rende è il discorso di Judah Smith, il pastore di Churchome. In “Candy Necklace”, primo featuring del disco, ci troviamo davanti alla prima ballad di questo disco. “Ti stai comportando in modo irrequieto / Io sono ossessionata da questo”. Jon Batiste, da la sua voce all’outro della canzone. Quello che colpisce parecchio dei riferimenti biblici di questo disco, non è solo che sono contenuti nei testi, ma anche nei nomi di gran parte dei featuring. “Jon Batiste Interlude” è un delirio pinkfloydiano di suoni ambientali, sperimentazioni e fill di batteria. “Kintsugi” è una delle tracce emotivamente più forti del disco. Si rifà all’arte giapponese di riparare la ceramica rotta con polveri, solitamente d’oro o d’argento. Si può tradurre come il non vergognarsi delle cicatrici che abbiamo. L’argomento principale della canzone è ancora una volta la morte, in questo caso di alcuni membri della sua famiglia. 

“Fingertips” galleggia fra accordi di piano sfocati e violini, mentre la cantautrice tira fuori tutti i suoi pensieri più intimi, in bilico fra relazioni passate e ciò che sarà in futuro. La progressione di accordi di “Paris, Texas” richiama l’omonimo film del 1984. In “Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing”, chiede in qualche modo aiuto a dio, chiede a suo nonno di vegliare su suo padre, con costanti richiami al titolo del disco. “Let The Light In” con Father John Misty, ci spostiamo su una canzone dalle tinte folk. Nelle tematiche troviamo una relazione clandestina tra due artisti, uno dei quali sposato, in cui entrambi devono nascondere il loro amore al mondo. 

“Margaret” è una commedia romantica, scritta da Jack Antonoff, che in questa canzone compare sotto il nome di Bleachers, e dedicata a sua moglie. Tra orchestrazioni sporche di mellotron e archi reali, la voce vellutata di Lana Del Rey canta di amori che vanno oltre la vecchiaia. “Fishtail” ripercorre i ricordi d’infanzia con la sorella. Al suono di piano sfocato si mescolano drum machine hip hop. “Mani sulle tue ginocchia, sono Angelina Jolie” canta in “Peperoni”. Questa è la traccia più sperimentale, costituita da veloci ritmiche di drum machine, sgommate e flauti sintetizzati. Un semplice pattern di chitarra clean chiude l’album in “Taco Truck x VB”. “Passami il mio vaporizzatore, mi sento male / Immagina se non ce ne fregasse davvero un cazzo / Mi sto innamorando di te”. La chitarra iniziale sfuma in ritmi elettronici e sintetizzatori.

Voto: 8.7/10

/ 5
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Model/Arctiz: La recensione di “Dogsbody”

  • Model/Actriz – Dogsbody
  • 24 Febbraio 2023
  • ℗ ModelActriz LLC / True Panther Records

Il primo album in studio della band di Brooklyn è uno spettacolo macabro, tra banger, contaminazioni e testi criptici. Sebbene il genere predominante sia il punk, questo disco ha forti tendenze elettroniche, noise ed industrial. Dopo l’EP autoprodotto del 2017 la band ha deciso di affidare il ramo produttivo a qualcuno di più consono. La scelta è ricaduta su Seth Manchester, che ha lavorato già con la band “Daughters” e la musicista “Lingua Ignota”. Entrambi progetti sperimentali. I testi sono molto criptici, ma si spazia da relazioni violente a sofferenza sia fisica che mentale. Tutta quest’atmosfera è ingigantita da una voce grave e quasi apatica, che infonde una sensazione di inquietudine e tormento. 

“Donkey Show” si muove fra suoni industriali, lamenti, e batterie sporche e serrate. Il cantante parla in maniera quasi disperata di un cammino, che a giudicare da alcune frasi come: “Sotto le mie unghie che rispendono come porcellana” e “Il paradiso non può cancellare l’oscurità del mio cuore”, sembra essere quello di una persona che sta morendo. In “Mosquito”, singolo che ha anticipato l’uscita di questo disco, entriamo in contatto con tamburi, piatti e suoni metallici che sembrano prodotti dallo sfregamento delle lamiere. “Crossing Guard” è sicuramente una delle tracce più sperimentali e più forti di questo disco. Nonostante la voce che sembra a tratti un parlato e a tratti un lamento, il pattern è quello del post-punk inglese. L’arrangiamento si appoggia ad una struttura ritmica di basso/batteria, di matrice elettronica, sembra quasi arrivare da un rave in qualche capannone dismesso in Germania. Un breve suono noise verso la fine e la canzone prepara la pista di decollo per “Slate”. Nonostante la struttura sia parecchio simile a quella della traccia precedente, il segno distintivo arriva verso la fine, quando il cantante si mette ad urlare verso un momento di tensione crescente e di suoni stridenti: “E poi sanguina, sulla mia mascella, sul mio collo sul pavimento”. 

Il primo cambio di rotta arriva nella quinta traccia dell’album. “Drivers” parte con suoni che ricordano un modo particolare di suonare la chitarra, attraverso gli archetti da violino. Il testo è essenziale e quasi incomprensibile, un miscuglio di “Cadere in volo”, “Mi sembra di trovarlo, ma non dentro di me” e “Braccia intrecciate”. Nell’atmosfera triste non mancano però elementi spaventosi e synth noise. “Amaranth” riprende da dove si era interrotta “Slate”, stesse sezioni ritmiche, stessi suoni, tensione alle stelle, ma questa volta una voce più marcata. “Pure” è caratterizzata principalmente da batterie elettroniche veloci. In questa canzone, per la prima volta dall’inizio del disco, si riesce a percepire quello che sembra il suono di una chitarra, preso direttamente dai sottogeneri più sperimentali del metal. Il sangue, elemento sempre presente in questo disco, si mescola a delle urla terrorizzanti. In “Maria” il cantante fa i conti con un suo partner, con la loro relazione tossica e con il non essere abbastanza l’uno per l’altro. 

“Sleepless” utilizza dei suoni che ricordano vagamente delle campane, non fosse per tutte le distorsioni. Il cantante torna a sussurrare in quello che è il secondo momento più calmo di questo disco. In “Sun In” ci si trova ad affrontare quel sole che nella prima canzone del disco, faceva enormi giri pur di non sorgere. Non è un caso che nel momento in cui le luci dell’alba si liberano, tutte i deliri delle tracce precedenti svaniscono, “La città si ricompone” e “il sole illumina i miei occhi”. Questa è la traccia migliore del disco a livello concettuale, nonostante l’arrangiamento sia più semplice rispetto alle canzoni precedenti.

Voto: 8.6/10

/ 5
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Caroline Polachek: La recensione di “Desire, I Want to Turn Into You”

  • Caroline Polachek – Desire, I Want to Turn Into You
  • 14 Febbraio 2023
  • ℗ Perpetual Novice

Dopo lo scioglimento dei ”Chairlift” e un interessante album di debutto, Caroline Polachek alza l’asticella per i prossimi lavori pop di quest’anno. Se “Pang” aveva superato le aspettative, “Desire, I Want To Turn Into You” le ha completamente polverizzate. La cantante americana si è spinta oltre i confini dell’avant-pop, mescolando a breakbeat e drum & bass, pattern di chitarra presi in prestito al flamenco, atmosfere vagamente medievali e persino le voci angeliche del “Trinity Croydon Choir”. L’argomento principale che guida tutto l’album, come si può intuire dal titolo, è l’impossibilità, dettata dalle forme corporee, di poter esprimere al massimo i propri sentimenti, in modo che possano creare un tutt’uno. La produzione di “Desire” è curata, per la maggior parte, dal DJ e produttore britannico Danny L Harle, che aveva curato anche una parte delle tracce del disco precedente, ad eccezione della traccia “Sunset”, prodotta da Salvador “Sega Bodega” Navarrete. Tra la palette di artisti che ha partecipato alla stesura di questo disco ci sono anche “Dido”, famosa cantante dei primi anni 2000 (Stan – Eminem) e “Grimes” entrambe nella traccia “Fly To You”.

L’album inizia con “Welcome to My Island”. Una cantica di tempi dimenticati ci introduce a raffinati miscugli di sintetizzatori, voci robotiche e breakbeat adagiati su una melodia in grado di catturare dal primo ascolto. Nel testo la cantante si misura con i suoi sentimenti, con una particolare vena ironica, quasi si prende in giro. “Pretty In Possible” è una traccia che da più sfoggio dell’abilità della cantante di sperimentare, unendo suoni a prima vista totalmente scollegati in una canzone priva di ritornelli, mentre il testo fa riferimento alla mitologia greca. 

Le linee di basso e le percussioni donano a “Bunny Is a Rider” un’atmosfera dai toni tropicali, fra i cinguettii degli uccelli e i rumori delle foglie degli alberi mossi dal vento, costituiti da nient’altro che synth, Polachek ci parla del sogno di una donna di sfuggire alla vita di tutti i giorni. Nella quarta traccia, “Sunset”, veniamo catapultati dalla foresta tropicale al cuore del mediterraneo. La canzone si apre con delle linee melodiche prese in prestito al flamenco. Le chitarre classiche sono l’unico filo conduttore di tutta la canzone.

In “Crude Drawing of an Angel” vediamo per la prima volta dei riferimenti filosofici. Nella canzone precedente, l’artista già ci aveva introdotto ad una storia d’amore segnata dalla pressione della società in cui ci troviamo. Questa pressione viene citata anche in Crude Drawing of an Angel, in chiavi diverse. Uno dei motivi della scelta dell’argomento potrebbe essere legato al periodo storico, infatti gran parte delle canzoni di quest’album sono venute fuori durante il periodo della pandemia. Se Bunny Is a Rider e “Sunset” viaggiavano nello spazio, da un paese all’atro, “I Believe” viaggia in un altro tempo. La sesta traccia dell’album è completamente immersa nella dance che aveva caratterizzato il periodo a cavallo fra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Questi stili pervadono anche la traccia successiva. “Fly To You” mantiene un alone di pop di inizio millennio, ma con una sezione ritmica completamente futuristica. Ad impreziosire la canzone ci sono i contributi di Dido e Grimes. 

“Blood And Butter” mantiene le chitarre ariose del pop dei primi anni 2000, ma ancora una volta si sposta su nuovi orizzonti e, mentre si viene deliziati con un insolito assolo di cornamusa, Caroline Polachek introduce gli ascoltatori all’ultima parte del disco.

In “Hoperdrunk Everasking”, il piano ovattato e un tintinnio tanto interessante quanto fastidioso, introducono una sdolcinata Polachek, che canta di luci alla fine del tunnel e richiami ai drammi Shakespeariani. “Butterfly Net” si concentra più su strumenti tradizionali, abbiamo chitarre acustiche, maracas e un suono che ricorda vagamente il ticchettio di un orologio. Tra una strofa e l’altra compaiono organi psichedelici e angeliche melodie lontane. La cantante canta di una storia d’amore finita male, in cui non riesce a guardare oltre. L’arrangiamento stratificato e robusto di “Smoke” ci fa perdere in un ritmo fremente. Gli argomenti sono sempre gli stessi, ma questa volta da una prospettiva diversa, quella di una persona che, nonostante sappia di essere in una relazione condannata a finire, continua a spingerla, nonostante tutti i segnali che invitano a lasciarla andare. L’album si chiude con “Billions”. Fra ritmi drum & bass e atmosfere al limite fra new wave e down tempo, si fanno largo le voci dei bambini del “Trinity Croydon Choir” ripetendo una sola frase: “Non mi sono mai sentito così vicino a te”. Sintomo del fatto che la landa desolata che separa i due protagonisti dell’album, in questa canzone è meno infinita, ma pur sempre infinita. La canzone sfuma accompagnandoci gentilmente verso la fine del nostro viaggio “Nell’isola di Caroline Polachek”.

Voto: 8.5/10

/ 5
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