Math Rock

Shellac: la recensione di “To All Trains”

  • To All Trains – Shellac
  • 17 Maggio 2024
  • Touch and Go Records

Nemmeno il tempo di gioire dell’imminente uscita del sesto album in studio degli Shellac, a ben dieci anni dal precedente “Dude Incredible”, che arriva la notizia sconvolgente: a pochi mesi dai sessantadue anni ci lascia uno dei personaggi più iconici ed influenti dell’alternative moderno, il cantante, chitarrista, produttore musicale, ingegnere del suono, critico musicale, e chi più ne ha più ne metta, Steve Albini. Una leggenda, senza se e senza ma, che ha prodotto artisti quali Nirvana, Pixies, PJ Harvey, Slint, solo per citarne alcuni, ed ha rivoluzionato il rock alternativo americano. Questo maggio trasporta quindi i fan in un mix di eccitazione e malinconia, così come l’ascolto di questo attesissimo “To All Trains”.

Cinico, sprezzante, estremamente provocatorio, Albini era solito evitare interviste e, qualora si riuscisse ad “intercettarlo”, dava il via a commenti che oggi sarebbero impossibili da pubblicare in un mondo così politicamente corretto ed incline alla nuova cultura woke. Persona controversa, ma coerente in un comportamento poco edificante: infatti negli anni non ha risparmiato insulti nemmeno a band alle quali ha contribuito al successo (definì i Pixiesquattro vacche così ansiose di farsi guidare con l’anello al naso”).

Ma veniamo al musicista e cerchiamo di sintetizzarne gli ingredienti: la base è senza dubbio punk, il noise è il filo conduttore, un pizzico di post rock, il tutto condito con una spezia esclusiva, soprattutto nel ’94, anno di esordio degli Shellac con “At Action Park”, ovvero il math rock. I testi, brevi ma molto diretti e pungenti, hanno però un comune denominatore con la musica di Albini e soci, ovvero la sinteticità e il minimalismo. Il mix è tra rumore e algebra, scevro da ogni particolare effettistica, allo stato grezzo.

To All Trains

Per analizzare l’album è bene basarsi su quanto sosteneva la mente che ne stava dietro: “la terza traccia dovrebbe essere quella che ti sconvolge. La uno deve dire alla gente, ehi siamo qui, e puoi tirare a vuoto nella due, ma la tre deve tirare via la vernice dalle pareti”.

Albini è un uomo di parola e “WSOD” chiama l’ascoltatore che, senza ombra di dubbio, sa di trovarsi di fronte alla band di Chicago. L’incipit se lo ritaglia la “ferrosa” chitarra, con il sound, unico nel suo genere, generato da plettri in rame e manico in alluminio. Si prosegue con la percussività del riff, inconfondibile con altre band, e gli altri strumenti che entrano progressivamente, quasi a colorare l’ossessivo giro di chitarra che rimane immutato fino ad un minuto dalla fine, dove viene sostituito dallo spoken word più minimale che ci sia. “Aspiro al bronzo, ma mi accontento del piombo, spacciato per oro, per il commercio turistico, assegnato dopo i test. Urina, sangue e capelli. Quei tre sono sempre un tutt’uno. Date a quell’uomo una medaglia, date a quell’uomo una medaglia”, niente di più, eccezion fatta per l’esplosione degli ultimi venti secondi. Iniziamo bene.

La seconda traccia segue la falsariga della prima, ma qui viene evidenziata maggiormente la struttura matematica del brano. Gli strumenti e la voce si incastrano in modo tale da creare una sequenza perfetta, a tratti ipnotica, soprattutto in chiusura. Nella teoria albiniana si può “tirare a vuoto” nel secondo pezzo, ma di fronte ad un tale livello sonoro ci permettiamo di dissentire.

Ed eccoci di fronte alla “sverniciatura delle pareti”: il pogo è d’obbligo con “Chick New Wave”. Poco meno di due minuti e mezzo di schitarrate, urla, intermezzi timbrici e botte in faccia. Non è il loro manifesto, ma sicuramente quello in cui maggiormente è emersa l’anima punk.

What’s the panic with you?” apre l’algebrica “Tattoos”. Qui torniamo in pieno stile shellachiano, dove gli strumenti dialogano fra loro e la voce entra in punta di piedi, quasi a non voler disturbare troppo il discorso musicale. Altro capolavoro di una band inestimabile.

Wednesday” viene introdotta da un ritmo tribale: i tom percossi da Todd Trainer accompagnano l’ascoltatore all’interno delle profondità più cupe dell’album. Si sfiora il doom e la voce, nelle rare apparizioni, grava ancora di più il tema. Si fa strada maggiormente nel finale, dove prende il sopravvento e racconta una storia macabra, degna dell’accompagnamento musicale. Cos’altro aggiungere?

La vetta più alta di questa opera immensa arriva in sesta posizione, con “Scrappers”. Il sunto della band può essere sintetizzato in questi due minuti e venti secondi: l’esaltazione matematica del punk in chiave punk, con l’alternanza tra cantato e parlato, in un unico grido “we’ll be pirates!”.

Il premio per il miglior testo lo vince a mani basse la canzone più breve di tutte: “Days Are Dogs” sembra una poesia, un testamento spirituale recitato magistralmente da quello che è al tempo stesso autore e fruitore. “Sono l’ultimo giorno della tua vita, vissuto oltre ogni aspettativa”, un monito che dovrebbe ronzare sempre nelle teste di tutti.

Dallo spoken word precedente si passa al primo ed unico pezzo interamente cantato. Una sorta di marcetta perdura fino all’ultimo minuto, dove tutti gli strumenti cambiano rotta. Nell’immensità del decalogo di “To All Trains”, “How I Wrote How I Wrote Elastic Man (Cock & Bull)” risulta forse il più “normale”.

Prima di chiudere, Albini e soci hanno deciso di rendere omaggio al musicista e ingegnere del suono Rob Warmowski, morto nel 2019 all’età di 52 anni. Il titolo, “Scabby The Rat”, che prende il nome dal roditore gonfiabile usato dagli attivisti sindacali, era anche l’account twitter pro labor creato dallo stesso musicista. Emblematiche le parole di affetto rivolte dal cantante della band: “La scena musicale è come una famiglia, e Rob era sempre lo zio socievole che conosceva i nomi di tutti i cugini e faceva le presentazioni e iniziava le conversazioni in modo che tutti si sentissero a casa. La maggior parte delle persone che conosco nel mondo della musica ha avuto con Rob almeno un rapporto di sfuggita. E tutti loro lo hanno apprezzato.”

Non poteva esserci finale migliore. “I Don’t Fear Hell” è il saluto più puro che Albini potesse rivolgere al suo pubblico. È tutto giusto, dalla musica funerea e rarefatta, algebrica e rumorosa, al testo che sembra essere un addio, ma sempre in pieno stile Shellac. I sentimenti sono contrastanti: così, tra una lacrima e una risata, ci apprestiamo a concludere questa perla.

Le parole non sarebbero mai abbastanza per ringraziare questo maestro alternativo della moralità. Ci limitiamo ad immaginare come lui stesso ha voluto descrivere il suo approdo nell’aldilà, perché d’altronde “se c’è un paradiso, spero che si stiano divertendo, perché se c’è l’inferno, conoscerò tutti”.

5,0 / 5
Grazie per aver votato!

I Hate My Village: la recensione di “Nevermind The Tempo”

  • Nevermind The TempoI Hate My Village
  • 17 Maggio 2024
  • Locomotiv Records

Ma cosa stiamo ascoltando? Una domanda più che lecita quando si schiaccia play e si inizia ad approcciare al nuovo esperimento del supergruppo composto da componenti di spicco di altre band, come Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle). Ma a questo gli I Hate My Village ci avevano già ampiamente preparato con il loro omonimo d’esordio e con la pura sperimentalità dell’EP “Gibbone”. Insomma, non si può di certo dire che non ci avevano avvertiti, così come è impossibile non ammettere che i fan del math rock non stessero aspettando con trepidazione che il quartetto lombardo/romano sfornasse un nuovo prodotto. Dunque, l’attesa è finita, non resta che godersi il risultato.

L’incipit di “Nevermind The Tempo” è quanto più math acido si potesse chiedere: poliritmie dove la voce deve farsi strada ed incastrarsi in una moltitudine sonora. Iniziamo bene, molto bene.

 “Water Tanks” risulta più scanzonata già dal giro iniziale, quasi afrobeat, con rimandi innegabili all’album precedente. Di sicuro il pezzo più “orecchiabile” e semplice dei dieci presentati, ma non per questo banale. È ballabile, nella maniera di Ferrari e soci.

La struttura sonora rimane invariata anche in “Italiapaura”, con un ritmo serrato che anticipa il classico jingle della chitarra. Seppur nella sua brevità (circa due minuti e mezzo) il brano si apre e si chiude di continuo, quasi come un giro su un ottovolante. L’ascoltatore viene quindi sballottolato tra chiusure sonore, ingresso di nuovi strumenti, cambi di ritmo inattesi, che lo trastullano in un trip musicale a tratti assurdo. Tutto questo potrebbe essere racchiuso in una sola parola: perla.

Non c’è un attimo di tregua, nessuna pausa rilassante: “Eno Degrado” porta la sperimentazione a vette molto alte, ma nelle quali i quattro musicisti si muovono con disinvoltura invidiabile. Non c’è nulla di fuori posto o di esagerato, nonostante il caos generato dalla moltitudine di suoni e rumori. Perfetti, inoltre, l’inizio e la chiusura, con un click che anticipa il tempo e un re “battuto” dalla chitarra distorta, un richiamo non troppo lontano dall’inizio “Eulogy” e la chiusura di “Third Eye” dei Tool.

Il mezzo passo falso arriva a metà album, con l’esoticaMauritania Twist”, dove la voce di Adriano Viterbini (eh si, ha iniziato anche lui a cantare in questo progetto) emula uno strumento e segue la melodia arabeggiante. Il pezzo prosegue con un susseguirsi di traccia/ritornello sicuramente interessanti, ma non al pari del resto dell’opera.

L’hype si rialza subito dopo: la successiva “Erbaccia” parte in modo soffuso con quello che sembra un carillon rotto, per poi aprirsi in suoni industrial in continuo crescendo. Non ci sono particolarità, cambi di tempo o stranezze varie, il pezzo scorre liscio, senza intoppi, ma tremendamente bene.

Se “Jim” ha uno stile di canzone più classico, la strumentale Dun Dun” potrebbe tranquillamente fungere da colonna sonora di un film: il ritmo tribale fa da tappeto a suoni sospesi, inquietanti e ipnotici, fino a un minuto dal termine della canzone, dove un’improvvisa interruzione e rallentamento del tempo precede il reprise finale, che ripropone la melodia precedente.

La struttura che sembra normale, si trasforma per trenta secondi a metà di “Come una poliziotta”, lasciando spazio a rumori e ad una sorta di beatbox, prima di riprendere il giro iniziale e concludere gli ultimi venti secondi con un richiamo improvvisato del beatbox precedente. Mai come in questo album la band si è divertita.

La ballata finale è la degna chiusura di un’opera immensa come “Nevermind The Tempo”, con una psichedelia di fondo che permea l’intera traccia. Una sorta di brano trip hop sospeso, pronto anch’esso per divenire una soundtrack di un film.

“La differenza principale è che questo disco è nato con la volontà di essere un disco di canzoni e questo ha fatto sì che tutto il processo fosse diverso. Il primo disco era stato concepito per essere strumentale e la voce si è aggiunta solo in un secondo momento. Adesso abbiamo una consapevolezza diversa e abbiamo voluto innanzitutto esplorare la forma canzone” sostiene in un’intervista al Rolling Stone Marco Fasolo. E come dargli torto, il cambio di passo risulta evidente fin da subito.

“La cosa interessante di questo gruppo è che ognuno è fan degli altri e per questo disco qui ci siamo fortemente ispirati a noi stessi”. Forse proprio con queste parole di Viterbini si può spiegare l’evoluzione del sound: da progetto di superband, con artisti provenienti da realtà diverse e parallele, a gruppo musicale vero e proprio, dove ognuno ascolta e completa l’altro. Un passaggio epocale, che sembra solo l’inizio di un percorso duraturo.


/ 5
Grazie per aver votato!

Karma: La recensione di “K3”

  • K3 – Karma
  • 27 Ottobre 2023
  • VREC Music Label

Un’assenza pesante, di quasi trent’anni, quella della band milanese, che sembrava destinata a rimanere un piacevole ricordo dell’underground italiano degli anni Novanta. In questo 2023 ricco di novità e piacevoli conferme, spicca “K3”, la nuova vita dei Karma, in grandissimo spolvero dopo il lungo letargo. Non si può parlare di totale rivoluzione, ma di mirabile evoluzione di un sound granitico e sporco, che però dal grunge degli esordi ha virato verso un più maturo alternative rock, contaminato da math e post rock di pregevole fattura. Ma andiamo per gradi e, con un’immaginaria macchina del tempo, torniamo agli albori di Moretti e soci, per analizzare meglio il percorso che li ha portati ad un rientro in pompa magna.

Se il primo album omonimo del 1994 è figlio dell’ondata grunge, che sfocia di tanto in tanto nel trash, già nel successivo “Astronotus” si anticipa quanto riproposto nell’ultimo lavoro, ovvero una maggiore spinta alla sperimentazione, con una crescente psichedelia di base ed una voce che talvolta sembra avvicinarsi alla Demetrio Stratos memoria. L’ultima “Astronotus – Jam Reprise” esalta ancora di più quest’ultimo concetto e nei quasi venti minuti i suoni si dilatano riuscendo a trasportare l’ascoltatore in un burrascoso viaggio che culmina con una quiete apparente.

Da quel silenzio finale riparte “K3”, un pezzo totalmente strumentale aperto da un tribale degno dei migliori combattimenti spartani nel film di Zack Snyder.

Già con “Neri Relitti” si percepisce la svolta della band: la maggior consapevolezza dettata dall’esperienza maturata in tutti questi anni emerge fin dalle prime note e anche la voce di David Moretti sembra non aver risentito minimamente del tempo trascorso.

Il cambio di passo è ancora più evidente in “Corda Di Parole”, con echi math e prog che sorreggono un testo profondo e duro, scandito da un ritmo incalzante, frutto del duo composto da Diego Besozzi alla batteria e Alessandro “Pacho” Rossi alle percussioni. “Nella grammatica di ogni relazione le parole creano intrecci che attraggono, seducono, come il canto delle sirene di Ulisse. Corda di parole descrive una catarsi, la presa di coscienza di come ciò che era saldo sia diventato in realtà finzione. Non è una delusione verso le parole, ma verso chi non ha più la volontà di ascoltare. Come ne La Menzogna di Ulisse di Brecht le sirene restano in silenzio negando la propria voce a un uomo che non vuole abbandonarsi al loro canto” commenta così il cantante della band.

La coppia di canzoni che segue lascia più ampio respiro con toni maggiormente dilatati, spezzati dall’ultimo minuto di “Abbandonati A Me”, che richiama melodie new prog, mixando i Porcupine Tree e i Tool.

Con “Atlante” prosegue la metamorfosi dei Karma: le atmosfere psichedeliche e arabeggianti, già ascoltate nei primi Oceansize, elevano il brano più spirituale, che parla del continuo rapporto tra il sorreggere e l’essere sorretti tipico della vita di ciascun individuo. Mirabile il videoclip, realizzato da Barbara Oizmud, con un bianco e nero che ne enfatizza appieno la natura mistica.

L’evoluzione nei sette minuti di “Goliath”, a mio avviso la migliore traccia dell’album, è costante: il brano si apre con una base quasi minimal, per poi crescere con arpeggi eterei, accompagnati da suoni tribali ed elettronici, e ancora sfociare nello sludge metal intorno al quinto minuto. Questa escalation si capovolge, per completarsi e tornare alla quiete inziale, completando armoniosamente quanto iniziato. Voce sospesa, cori e intrecci di italiano e inglese rafforzano quanto egregiamente proposto dagli strumentisti della band.

Mentre ne “Il Monte Analogo” vale lo stesso discorso già espresso nella precedente “Abbandonati A Me”, con “Ophelia” si toccano note post rock, molto curate e mai banali.

L’ultima suite di undici minuti parte con un richiamo alla coda di “Astronotus”, per poi evolversi in riff più sincopati e cupi, degni di Maynard J. Keenan e soci, e completare il percorso già battuto nei brani precedenti, chiudendo questa stupenda opera con una parte orchestrale, che anticipa l’ultimo minuto noise sospeso, quasi a voler suggerire un nuovo album.

Un piacevole ritorno, che trova ulteriore conferma live, come in occasione del concerto il 30 novembre scorso al Wishlist di Roma, dove il quintetto milanese ha mostrato al pubblico che, anche dopo circa trent’anni, il talento e la passione sono ben saldi nelle loro anime.

/ 5
Grazie per aver votato!

The Mercury Tree: La recensione di “Self Similar”

  • Self Similar – The Mercury Tree
  • 7 Settembre 2023
  • ℗ Self Published

Alieno è tutto ciò che risulta estraneo allo standard. Spesso può spaventare, risultare troppo distante da ciò al quale siamo abituati. Nella musica tale aggettivo viene spesso associato alla sperimentazione e all’innovazione, in alcuni casi portata anche all’estremo. Nello specifico, ultimamente molte band occidentali hanno approcciato alla xenarmonia, un’accordatura diversa rispetto alle canoniche dodici note.

In questo universo i Mercury Tree hanno trovato il loro sound: gli strumenti raggiungono così molte più suddivisioni rispetto ai dodici semitoni che collegano un DO all’ottava successiva. Senza entrare troppo in tecnicismi inutili, il suono che fuoriesce è pertanto alieno, enigmatico, talvolta di difficile ascolto, ma raggiunge un’armonia inaspettata che ingloba l’ascoltatore in una spirale dolcemente contorta.

A partire dalla voce, che spesso ricorda Geddy Lee dei Rush a tratti posseduto, dalle prime note di “Grown Apart” sono chiari i riferimenti al Re Cremisi, seppur più astrusi, così come gli eco non troppo lontani di altri capisaldi, quali Tool, in particolar modo in “Similar Self”.

Proseguendo, si ritrova Steven Wilson e soci in “Binary”, i dimenticati ai più Oceansize nella title track, dove subentra prepotentemente la voce dell’ospite di eccezione Gabriel Lucas Riccio. Si arriva poi alla dura e granitica “Stay The Corpse”, dove la psichedelia, il grunge e il metal si fondono in un unico sontuoso brano.

L’album si conclude con la coppia formata da “Dark Triad” e “After The Incident”, che consacrano l’album, portando l’ascoltatore in poco meno di diciassette minuti tra accenni iniziali ai Genesis, a nuovi intrecci di Frippiana memoria, fino ad una conclusione che strizza l’occhio ad un genio come Tom Yorke. Il tutto condito da tempi dispari e poliritmie, come nella splendida “Recursed Images” impreziosita da strumenti meno usuali rispetto a quelli suonati dal terzetto di Portland, quali dulcimer, salterio e tongue drum, pregevolmente eseguiti dall’eclettico Damon Waitkus dei Jack O’ The Clock. Rimandi, ma mai troppo accentuati, che permettono di godere di sonorità familiari senza scadere in banali plagi.

Un caleidoscopio di suoni che trova nel math rock la base di partenza, ma si arricchisce di sonorità psichedeliche, tribali e, perché no, progressive metal. Queste musiche variopinte sono accompagnate da testi criptici, che parlano di trasformazione, sogni, “morti viventi”, alternative al binarismo della vita, con un conclusivo “Sono sveglio” che lascia ben sperare.

Chi conosce la band non può non trovare un’evoluzione negli anni, a partire dagli albori dell’omonimo “The Mercury Tree”, più oscuro ma al contempo fruibile, passando per “Pterodactyls”, dove si inizia ad ascoltare un primo avvicinamento alla sperimentazione, accentuata nei successivi “Freeze In Phantom Form” e “Countenance”, ed infine sublimata con le due perle antecedenti quest’ultimo lavoro, ovvero “Permutations” e “Spidermilk”. Con “Self Similar” il trio statunitense ha alzato ulteriormente l’asticella, permettendoci di gustare un’altra sfaccettatura del loro mondo alieno, ma magnificamente armonico.

/ 5
Grazie per aver votato!