Pop

Big Ideas: La recensione del terzo disco di Remi Wolf

  • Remi Wolf – Big Ideas
  • 12 luglio 2024
  • ℗ Island Records

La ventisettenne californiana Remi Wolf è tornata giusto in tempo per rinfrescare e colorare questa estate 2024: Big Ideas, infatti, è il nome del suo terzo album, un progetto estremamente significativo ed interessante.

La traccia di apertura è Cinderella, un brano allegro, caratterizzato da una linea estremamente Funky, sia nei suoni che nella voce. Il quesito posto dal testo del brano è ciò che lo rende davvero interessante: deve esserci per forza qualcosa di sbagliato nel modo in cui siamo fatti? Il fil rouge del brano, infatti, è la descrizione della camaleonticità dell’essere umano: si può essere ciò che si vuole, a patto di essere felici. Il paragone con Cenerentola è piuttosto ironico – Remi Wolf intende rompere con convinzione e credibilità gli schemi sociali pre-impostati che, in un modo o nell’altro, logorano la vita di tutti.

Soup è un vero e proprio invito a non andare via, una preghiera a rimanere in un determinato luogo insieme. Il sound è molto più pop e la voce di Remi si mostra in tutta la sua potenza. La zuppa è proprio, in questo caso, un elemento di unione (anche se bizzarro) fra la persona che fa l’invito e la persona intenta ad andare via: “If you gave me your keys, I’ll go and pick up the soup”, canta su una scia di sonorità a metà fra Olivia Rodrigo e Dua Lipa.

Avete voglia di una traccia molto più rilassante e sensuale? Allora Motorcycle farà al caso vostro. È il brano più calmo del roster. Il testo, scandito dalla presenza degli orari, ripercorre una giornata caratterizzata dalla costante presenza di una motocicletta, elemento di nostalgia e quotidianità di questa coppia: il sound, molto vicino a quello degli Alabama Shakes, mescola Black Soul e White Rock’n’Roll. Rapide successioni ed immagini della vita a Miami si susseguono in Alone in Miami e la voce spezzata della Wolf accompagna la triste frase – “Alone in Miami, with you there”. Un testo che si concentra sulla resa nel momento in cui si perde la persona che più ci era affine in una città che non si riconosce più.

Big Ideas

Cherries & Cream è invece, un brano in cui si alternano domande poste al proprio amante: Ti stai pentendo? Come ti senti? Ma soprattutto, se lei è perfetta perché sei qui? È un altro brano che scardina gli stereotipi. “You’re critical, but you taste like cherries and cream, tangerine, avocado. / Yeah, i’m allergic but i like it a lot, so pitful”. Tutti versi che sottolineano quanto sbagliato sia abbandonarsi agli amanti ma quanto, delle volte, sia impossibile resistere.

Interessante come tutti i brani abbiano titoli brevi, proprio ad evidenziare il senso delle “big ideas” espresse però in un una maniera rapida e di rapida immaginazione. Pitful è il brano che meglio esprime il senso di inferiorità che si assume nel momento in cui ci si trova davanti alla persona per cui si provavano dei sentimenti. “Hit me like a truck, i’m so pitful”, sono così pietosa. Il brano ha una linea molto allegra e movimentata, quasi incalzante, che entra in contrasto con un testo pregno di insicurezza.

Frog Rock è sicuramente il brano più originale: forti versi di rane nell’intro accompagnano l’esplosione di tutti gli strumenti sporchi e la voce di Remi mentre intona una critica ad una persona che gioisce ora che lei non c’è più. La tua vita sembra così facile ora che non ci sono più / Non voglio che tu stia bene. Un forte assolo a metà brano dopo questa dichiarazione forte, quasi lapidaria, accompagna un falsetto struggente. In Just the Start la cantante dimostra quanto sia abile anche quando si riduce un brano ad una sola chitarra. La sua voce assume colori ancora diversi e sfumature più dolci in questo brano, in cui cerca di acquisire consapevolezza su suo essere un’artista in un mondo stereotipato e dominato dall’omologazione.

Quando pensi che sia la fine, in realtà è solo l’inizio: viva la reazione, ma soprattutto, viva la fatica per raggiungere i propri obbiettivi. In un mondo orientato esclusivamente ai numeri, alle voci e ai corpi perfetti, Remi Wolf irrompe con la sua personalità travolgente per darci una grande lezione: è necessario smettere di annullare i tratti personali degli artisti per scoraggiare la narcotizzazione più totale e l’omologazione. Le sue “grandi idee” ci piacciono, eccome.

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Brat: La rivoluzione elettronica di Charli XCX

  • Charli XCX – BRAT
  • 7 Giugno 2024
  • ℗ Atlantic Recording Corporation

Charli XCX, nota per la sua capacità di trasformare il pop contemporaneo con influenze futuristiche e sperimentali, torna con un nuovo album intitolato brat. L’album rappresenta una svolta significativa nella carriera dell’artista, dimostrando una combinazione di audacia, ambizione e vulnerabilità. Dopo il successo di “Crash” e la sua partecipazione al film “Barbie”, l’artista ha deciso di esplorare un percorso più personale e interessante per lei, allontanandosi dal mainstream.

La produzione dell’album ha visto crescere la collaborazione di lungo corso con il produttore A.G. Cook e George Daniel, noto per il suo lavoro con i “The 1975”. Questo team ha creato un sound che mescola influenze diverse, rimanendo fedele allo stile eclettico e sperimentale di Charli XCX.

Durante un evento esclusivo alla Boiler Room di New York, Charli ha presentato alcuni dei nuovi brani di Brat, dimostrando il suo talento non solo come cantante ma anche come DJ, mixando tracce conosciute e musica inedita per ottenere un’atmosfera unica. Il disco include anche collaborazioni inaspettate, come quella con Julia Fox, che ha performato il suo singolo di debutto “Down the Drain” su invito di della cantante. Questa collaborazione sottolinea l’approccio inclusivo e di supporto che adotta verso le altre artiste, evidenziando la sua volontà di elevare chi le sta intorno.

brat

360 apre l’album con un’energia contagiosa e un beat coinvolgente. La produzione è futuristica, ricca di sintetizzatori e ritmi pulsanti, ed è un perfetto esempio del sound innovativo che Charli XCX cerca di portare. Il testo, molto diretto, trasmette la ritrovata autostima in seguito a una storia ormai finita – il momento in cui si decide di andare per la propria strada e di riconoscere il proprio self worth.

Club Classics è un omaggio nostalgico ai brani da discoteca che hanno segnato un’epoca, con una vibe che rievoca i primi anni 2000. Il ritmo e il groove travolgenti fanno venire voglia di muoversi. Charli riesce a fondere elementi di house e dance aggiungendo un tocco personale e moderno, catturando l’essenza di una serata in discoteca.

Sympathy is a Knife esplora il lato oscuro delle relazioni, l’ipocrisia che si cela dietro ai sorrisi e l’insofferenza nella condizione di dover mentire e mascherare le proprie emozioni davanti agli altri con un approccio lirico intenso e provocatorio. La produzione è minimalista, basata su ritmi taglienti e melodie inquietanti che mettono in risalto la voce molto emotiva di Charli XCX. Questo brano dimostra la sua capacità di trattare temi complessi con profondità e autenticità.

I Might Say Something Stupid è un brano pop con un tocco di autoironia. Charli XCX riflette sulle insicurezze e le paure che possono emergere con se stessi e nei contesti sociali, utilizzando testi sinceri e un ritornello accattivante per comunicare il senso di non appartenenza che ognuno prima o poi può provare. La produzione è fresca e dinamica, con elementi elettronici che si sovrappongono per creare un sound interessante.

Talk Talk è una traccia vivace e ballabile, caratterizzata da ritmi veloci e melodie orecchiabili. Charli XCX esplora i temi della comunicazione e delle incomprensioni nelle relazioni, tutti dubbi che si hanno nei confronti di una persona “Are you thinkin’ ‘bout me?” e che si risolverebbero facilmente proprio parlando, “Wish you’d just talk to me” utilizzando un mix di ritmi dance e pop per creare un’atmosfera frizzante e coinvolgente.

Von Dutch è un tributo alla moda Y2K, con riferimenti culturali degli anni 2000. La produzione è audace e sperimentale, con ritmi spezzati e suoni glitch che riflettono lo stile distintivo di Charli XCX. Il brano è un viaggio nostalgico attraverso una delle epoche più iconiche della cultura pop, con un sound che ricorda “Take it off” di Ke$ha.

Everything is Romantic è una ballata elettronica che esplora la bellezza e la fragilità dell’innamoramento. Con una produzione eterea e testi poetici, Charli XCX crea un’atmosfera sognante che avvolge l’ascoltatore. Il contrasto creato dalla voce delicata, i beat ritmati mixati a suoni elettronici quasi spaziali e gli archi che aprono il brano danno vita a una traccia ricca di sfaccettature.

Rewind esprime il desiderio di tornare indietro nel tempo e rivivere esperienze passate. Con una produzione caratterizzata da sintetizzatori dreamy e un beat rilassato, la canzone crea un’atmosfera nostalgica e riflessiva.

So I è una traccia di introspezione che esplora temi di identità e autoaccettazione. Si distacca leggermente dagli altri brani con una produzione minimalista ma estremamente potente a livello comunicativo. Il focus è sulla voce di Charli XCX che trasmette vulnerabilità e forza. Questo brano dimostra la capacità dell’artista di trattare temi personali con profondità e autenticità.

Girl, So Confusing è un brano pop energico che parla della complessità nell’essere una ragazza e nell’interagire con le altre ragazze. Con un ritornello orecchiabile e una produzione vibrante, Charli XCX crea un pezzo che è tanto divertente quanto riflessivo. I testi parlano delle incomprensioni e delle emozioni contrastanti che possono sorgere, esprimendo frustrazione e affetto in egual misura.

Apple è provocatoria e sensuale, con una produzione audace che mescola elementi di pop e R&B. Charli XCX esplora temi di desiderio e tentazione, utilizzando testi evocativi. Il titolo stesso è una chiara reference alla mela proibita mangiata da Eva nella Genesi, accompagnato da una performance vocale magnetica.

B2b (Back to Back) è un brano energico che celebra le serate in discoteca e l’euforia che si crea in quei contesti. La produzione è caratterizzata da bassi potenti, sintetizzatori pulsanti e ritmi incalzanti che creano un’atmosfera elettrica. I testi parlano di ballare tutta la notte, lasciandosi alle spalle le preoccupazioni quotidiane. Charli XCX offre una performance vocale dinamica e coinvolgente, rendendo “B2b” un inno al clubbing.

Mean Girls affronta il tema del bullismo e delle dinamiche sociali tossiche con una produzione potente e di sfida. La traccia è caratterizzata da ritmi aggressivi, sintetizzatori taglienti e un ritornello incisivo. I testi esplorano le esperienze di essere vittima di bullismo, esprimendo i momenti di demoralizzazione e quelli di resilienza. “Mean Girls” è una forte critica, riflettendo le esperienze personali e le osservazioni sociali dell’artista.

I Think About It All the Time riflette sui pensieri e sui sentimenti dell’artista riguardo al futuro, in particolare rispetto alla maternità. In un’intervista per Rolling Stone, Charli XCX ha dichiarato che questa canzone è stata fortemente ispirata da una delle sue amiche più strette, Noonie Bao, quando ha avuto un figlio. La canzone esplora le incertezze e le domande esistenziali di Charli su quando o se dovrebbe prendere questo passo nella sua vita. È un pezzo estremamente vero e personale che delinea la riflessione “Am I less of a woman?” rispetto al volere o meno avere figli. 

365 chiude l’album facendo riferimento a un ciclo interminabile di party e clubbing che vanno avanti durante tutti i 365 giorni dell’anno. Questo brano fa riferimento alla traccia di apertura “360” (entrambi i titoli condividono le prime due cifre), che è campionata in questa canzone, suggerendo così che “Brat” sia una sorta di loop. Questa stessa operazione era stata applicata anche nell’album omonimo di Charli del 2019, che inizia con “1999” e termina con “2099”.

Nel complesso, “Brat” è un progetto che riflette la complessità e la multidimensionalità di Charli XCX come artista, capace di combinare elementi di pop, elettronica e avanguardia in un modo che è allo stesso tempo accessibile e profondamente personale.


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Billie Eilish: La recensione di “Hit Me Hard And Soft”

  • Billie Eilish – Hit Me Hard And Soft
  • 17 maggio 2024
  • ℗ Darkroom / Interscope Records

A tre anni di distanza da “Happier than Ever”, Billie Eilish e Finneas tornano con “HIT ME HARD AND SOFT”. Con questo album, i due fratelli volevano andare più a fondo, uscire dalla propria comfort zone. Questa scelta li ha portati a confrontarsi anche con momenti in cui non si sentivano allineati, a grandi liti, e ha sicuramente messo alla prova la loro relazione di artisti e fratelli, come raccontano in alcune interviste, tra cui quella per Apple Music con Zane Lowe. Tuttavia, questa esperienza ha decisamente permesso loro di cambiare l’approccio alla parte creativa della realizzazione di un album, portando un prodotto nuovo.

Il punto centrale della ricerca dietro questo album è stato trovare se stessi. Finneas ha chiesto a Billie di “open up the door” per lui, cercare di farlo entrare per capire cosa stesse sentendo e di cosa avesse paura. Non è sempre facile comunicare queste sensazioni, specialmente se noi stessi non riusciamo bene a identificarle. Per facilitare questa indagine introspettiva hanno deciso di registrare in un piccolo studio a casa, “side by side”, facendosi guidare da un’ atmosfera più rilassata, cercando il più possibile di non percepire questo progetto come lavoro ma come “hanging out”, un’attività divertente tra fratelli.

Sentendosi spesso non in sintonia, l’esperienza di indagare nuovamente la propria identità si è rivelata molto complessa: Billie spiega che ha sempre avuto problemi con il processo creativo, ma che Finneas ha bisogno di comprendere a fondo le emozioni dell’artista con cui collabora per poter lavorare su qualsiasi progetto in modo efficace. Finneas ha quindi cambiato atteggiamento cercando di essere paziente e di lasciare a Billie più spazio così che lei potesse trovare il modo di esprimersi e questo compromesso ha evidentemente dato i suoi frutti.

Hanno creato un gioco chiamato “fart or fear” che utilizzano come parametro quando ascoltano della musica: una canzone rientra nella categoria fart quando, secondo loro, l’artista è sicuro di sé, sa di essere bravo e gli piace ciò che ha prodotto, mentre fear sta per il dubitare e rischiare. Entrambe le categorie possono essere sia negative che positive. Fanno l’esempio dell’album “WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?” che rientra nella categoria fear per tutte le novità che hanno introdotto e di cui non erano del tutto sicuri, mentre “Happier than Ever” lo giudicano fart perché, mentre lo realizzavano, avevano la sensazione di sapere dove stessero andando e di aver raggiunto un livello artistico soddisfacente, nonostante qualche crisi d’identità.

Per quanto riguarda “HIT ME HARD AND SOFT”, il concept che lega tutte le canzoni presenti nell’album è il percorso di ricerca dell’identità di Billie, che ormai sa chi è, anche se c’è una parte di lei che è ancora incerta e guarda alla Billie del passato. Questo concetto viene riassunto nei versi “but the old me is still me and maybe the real me and I think she’s pretty” in “SKINNY”, la canzone che apre l’album.

Finneas e Billie raccontano di aver iniziato a lavorare su questo progetto prima ancora che qualcuno glielo imponesse, rendendo il lavoro meno pesante e dando modo alla creatività di uscire e svilupparsi spontaneamente. L’approccio creativo è stato diverso rispetto ai precedenti album: Finneas spiega che solitamente procedevano iniziando e finendo una canzone alla volta ma, in questa occasione, hanno lavorato su una canzone per un po’ e, quando sentivano di stare arrivando vicini a un livello di soddisfazione o saturazione creativa, si fermavano e iniziavano a lavorare su un’altra.

Il motivo principale era mantenere l’inventiva viva, con il criterio che se, tornando su una canzone dopo tre settimane, non avessero sentito le stesse emozioni, l’avrebbero bocciata e avrebbero ricominciato da capo, operando come sarti che tagliano e cuciono le parti più convincenti per eliminare quelle scartate. Questa necessità nasce dal metodo utilizzato per “Happier than Ever”, che era praticamente opposto: avevano la pressione data dalle tempistiche stringenti, i brani erano molti di più (16 canzoni) e in generale sentivano di essersi presi troppo “sul serio”. 

Hit Me Hard And Soft

“SKINNY” è la canzone che apre l’album e, in quanto tale, pone le basi per permetterci di capire quale sia il tema principale che connette tutte le canzoni: l’identità. Con questa canzone veniamo cullati, inizialmente dalla chitarra che accompagna la voce di Billie, molto dolce. Ci si può facilmente immaginare una conversazione tra la Billie del passato e quella del presente, con la delicatezza di chi si vuole bene ed è piena di domande, come “do you still cry?” in un percorso di accettazione che culmina nel verso “but the old me is still me and maybe the real me and I think she’s pretty”, il quale racchiude il senso dell’intero album. Gli archi accompagnano verso il finale della canzone con un piacevole e inaspettato cambiamento, dato dal beat che non è altro che l’introduzione della prossima canzone, “LUNCH”.

Legata al finale di “SKINNY”, questa canzone si apre con un beat e un giro di basso molto accattivanti, a cui poi si aggiungono anche la batteria e la chitarra. “LUNCH” è un’accurata metafora di un’emozione che prende il sopravvento e il controllo. Scritta dopo una conversazione con un’amica che descrive il sentimento pressoché bestiale, il magnetismo e l’attrazione provate per una persona, quasi paralizzanti come descritto dal verso “she’s the headlights I’m the deer”. La frase chiave della canzone è “I can buy you so much stuff it’s craving not a crush”, che dipinge perfettamente come per questa persona si sia disposti a fare di tutto, mossi da una febbre istintuale.

Questa canzone è un tentativo di prendersi meno sul serio, spiega Billie, non essere sempre seri e vulnerabili come avevano fatto per “Happier than Ever”, ma cercare di abbracciare la propria parte più “cringe and playful”. Billie voleva che in generale le canzoni non fossero facilmente interpretabili, ma che ognuno potesse trovare la propria interpretazione senza ascoltarle e dire “ok so esattamente di cosa sta parlando”, sostenendo che oggi tutti sappiano tutto di qualsiasi cosa e che non c’è più spazio all’immaginazione e all’interpretazione personale perché ad ogni domanda c’è qualcuno pronto a fornire la risposta, che è una e unica.

In Chihiro basso e beat sono la struttura portante del brano, ma più “laid back” rispetto a “LUNCH”. Il ritornello “open up the door” nasce improvvisando e giocando con gli effetti vocali. È una richiesta estremamente semplice ma intrisa di una potenza emotiva notevole: si chiede il permesso di entrare nell’interiorità di qualcuno attraverso l’immagine quotidiana, familiare della porta. Tutti i vocals sono stati registrati con il feedback degli speaker perché a Billie piaceva di più la versione che sentiva dal proprio iPhone rispetto alla versione “pulita” sistemata da Finneas; in particolare è stato molto apprezzato il noise prodotto dal feedback, aggiungendo effetti come il delay. Con questa canzone Billie sperimenta il “performing while writing”, ossia il processo di creazione, anche del testo, avveniva spontaneamente mentre Billie improvvisava con il microfono in mano, aiutandola a superare le sue difficoltà nel comunicare.

Birds of a Feather presenta due anime: una che voleva commuovere e una che cercava di comunicare spensieratezza. Questo contrasto ben riuscito è dato dalla base piuttosto ritmata e ballabile, in contrapposizione con un testo pieno di emozione. In questa canzone, Billie sperimenta un nuovo modo di cantare. Finneas le mostra come registrare da sola e come accompagnarsi. Billie è molto meticolosa e critica sui suoi vocals e cerca sempre di prendere le singole parole meglio eseguite da diverse registrazioni. Riesce inoltre a raggiungere una nota altissima, che la rende davvero orgogliosa di aver preso quel rischio e di aver provato da sola, perché in presenza di Finneas avrebbe sempre avuto dell’imbarazzo, nonostante il loro rapporto.

“WILDFLOWER” esprime una sensazione complessa e devastante, riassunta dal verso “I know that you love me, you don’t need to remind me”. Ogni parola di questa canzone apre una ferita sempre più profonda. In amore, il punto è proprio far sapere all’altra persona quanto la si ama, e sentirsi dire una frase del genere esclude completamente, non lascia più spazio a repliche di alcun tipo. Con quella frase si comunica che non si ha bisogno di essere rassicurati sui sentimenti dell’altro, ma che il problema è la presenza di un sentimento che non può essere scacciato, un costante pensiero, uno stato di “overthinking”. Si costruisce un’immagine di amore a senso unico, in cui si è consapevoli: “Did I cross the line?” “I see her in the back of my mind.”

Non parla di tradimento, ma di un pensiero assillante. Questo stato è espresso anche dal crescendo della batteria e del secondo chorus, che va sempre più in alto per poi tacere improvvisamente per lasciare spazio al verso “Do you see her in the back of your mind? In my eyes.” È come se a questo punto il pensiero abbia preso il sopravvento e abbia contaminato anche l’altra persona, la canzone si conclude con la ripresa, come se non ci fosse davvero alcuna via d’uscita.

The Greatest è il brano che più di tutti mostra quanto Finneas e Billie siano cresciuti artisticamente. È il cuore dell’album e il brano che lo rende davvero completo. Billie e Finneas raccontano di essersi sentiti “risvegliati” da questa canzone, passando dal vivere al comprendere la vita. Volevano descrivere la sensazione brutale di essere feriti da una persona che si ama profondamente, il momento della delusione in cui ci si accorge che la persona amata non desidera seguire la stessa strada in quello che è un vero e proprio climax.

Viene raccontata la speranza riposta nel possibile cambiamento, con l’attesa di questa persona, per poi però comprendere che non sarà mai disposta a compiere gli stessi sacrifici. La pazienza e il compromesso “all my love and patience” non sono corrisposti “doing what’s right, without a reward” “just wanted passion from you, just wanted what I gave you” e si rivelano “unappreciated”. La parte più esasperante a livello sentimentale è capire che questa persona aveva davvero tutte le caratteristiche per essere quella perfetta, ma semplicemente non ne è capace “you said your heart was jaded, you couldn’t even break it” “you could have been the greatest”, condizione davvero solitaria e triste, ma anche di presa di coscienza delle proprie qualità “man, am I the greatest”.

“L’AMOUR DE MA VIE” rappresenta la condizione opposta di “THE GREATEST”. Il testo diventa sempre più tagliente, mostrando quasi un narcisismo oltraggioso. La persona in questione non ha paura di ammettere con serenità che si è presa gioco dell’altra, confessando che ha mentito: “I told you a lie when I said you were the love of my life”. Questa canzone voleva essere una canzone nella canzone, permettendo agli ascoltatori di cogliere collegamenti con le altre tracce. È stata scritta con libertà e leggerezza, con la volontà di tornare a quando la musica non era solo lavoro ma, prima di tutto, una passione, portata avanti con piacere e spensieratezza, tant’è che non presenta una struttura rigorosa ma ci sono variazioni, parti in cui si gioca con i beat e l’effettistica, rendendola sicuramente un brano particolare e che si distacca leggermente dagli altri. 

“THE DINER” è una canzone che riflette sull’essere umano, sulle nostre debolezze e ossessioni, la parte forse un po’ più oscura. Finneas e Billie la descrivono come imperfetta, ma hanno deciso di non cambiarla troppo rispetto a come era nata, proprio perché la versione più “grezza” risultava più soddisfacente di quella ripulita. Sono stati utilizzati dei beat lo-fi e molti effetti come il delay e il reverb sempre adottando la modalità del registrare con l’iPhone per poi riascoltare il prodotto finale dagli speaker.

Bittersuite ci accompagna verso la fine con una dualità musicale che inizia in modo etereo e cresce lentamente, solo per essere interrotta da una calma improvvisa che disorienta e risulta piuttosto estranea. Nonostante ciò, il testo continua a dipingere immagini oniriche, il sogno, la fantasia e a esplorare la doppia natura dell’amore. Inoltre, riprende i temi delle canzoni precedenti con versi come “l’amour de ma vie”, “love so bittersweet”, e “open up the door for me”. La conclusione sfuma nella voce e si conclude con un suono deciso che collega il finale al bridge di BLUE. Questo chiude il cerchio e conferisce un senso di completezza aprendo e chiudendo l’album.

Nonostante sia l’ultima traccia dell’album “BLUE” è la prima canzone che Finneas e Billie hanno scritto. Nasce da due brani già esistenti, “Born Blue”, originariamente destinata a “Happier than Ever” ma successivamente scartata, e “True Blue”, composta da Billie e Finneas quando avevano rispettivamente 14 e 18 anni. Nel 2022, “True Blue” è trapelata, causando inizialmente fastidio e irritazione in Billie poiché era una canzone incompleta e da tempo dimenticata. Tuttavia, riascoltandola, ne riconosce il potenziale. Con Finneas, decidono quindi di riscrivere il testo, senza successo, finché Billie non inizia a improvvisare canticchiando “Born Blue”.

È quindi riesumando e combinando questi due brani con l’aggiunta dello stesso motivo che ricorre nel bridge di “THE GREATEST” e nell’introduzione di “SKINNY” che la canzone viene portata a compimento, raccogliendo riferimenti a tutte le tracce precedenti. Ritorna “open up the door” ma è chiaro che il character development è ormai arrivato alla fine del percorso “it’s over now”, e ci viene data la possibilità di immaginare la prossima evoluzione introdotta dalla domanda finale “but when can I hear the next one?”.

Finneas e Billie dichiarano di sentirsi come se davvero avessero dato tutto ciò che avevano con questo album e di essere finalmente liberi di esplorare nuove direzioni creative. “HIT ME HARD AND SOFT” rappresenta un notevole sviluppo artistico per Billie Eilish e Finneas, evidenziando la loro crescita nelle scelte musicali, di produzione e scrittura. In generale la complessità dei temi che avvolgono queste tracce diventa un mezzo davvero immediato per immedesimarsi e riconoscere domande e sensazioni completamente appartenenti all’essere umano. 


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Off The Wall: L’album d’oro della Disco Music al tramonto della Disco Music

  • Michael Jackson – Off the Wall
  • 10 Luglio 1979
  • ℗ Epic / MJJ Productions

Life ain’t so bad at all / If you live it Off The Wall

Al suo ventunesimo anno di età, quella che sarebbe diventata una delle icone pop più grandi di tutti i tempi, aveva più anni di carriera di molti altri musicisti. E non era una cosa positiva. Per il bambino prodigio di Gary, le luci dei riflettori sono sempre state più un male che un bene e, complice un padre fin troppo severo e esigente, Michael Jackson non ha mai vissuto la tenera età come tutti gli esseri umani meriterebbero. Questo è forse il primo punto che rende il suo quinto disco così incredibile. Off The Wall è da considerare a tutti gli effetti come un secondo debutto per Jackson. Un secondo debutto in cui tirare fuori tutto sé stesso, celebrare la vita e la voglia di divertimento che solo in giovane età si ha. Quale genere migliore per esprimere questo concetto se non la Disco Music

Off The Wall arriva apparentemente nel momento sbagliato e sembra proprio non interessarsene minimamente. Esce in commercio il 10 Luglio del 1979, appena due giorni prima che il mondo decretasse la fine del genere. Con la Disco Demolition Night, un evento in cui, in uno stadio di baseball, vennero demoliti migliaia di dischi, al culmine di un movimento reazionario contro la Disco Music. Off The Wall procede a passo spedito, scala le classifiche, entra nei cuori di qualsiasi ascoltatore e fa capire al mondo che l’ultimo ad avere la parola prima del tracollo del genere è Michael Jackson.

Per quello che diventerà il Re Del Pop, questo disco è un processo di transizione di 42 minuti da prodigio dei Jackson 5 a icona mondiale. Per comprendere meglio il disco, forse bisognerebbe fare qualche passo indietro, più precisamente all’estate del 1976. I fratelli Jackson disegnano sulla CBS un mondo fatto di luci abbaglianti, costumi e stravaganza, che debutterà col nome di The Jacksons. Quel programma cucirà su Michael un personaggio complicato da scrollarsi di dosso, ed è molto difficile far vedere davvero chi sei, se il mondo rimane avvinghiato ad un’immagine di te completamente distorta e “abbagliata dai flash”. Con Off The Wall, Jackson disegnerà un nuovo artista a 360 gradi. Look nuovo, personaggio nuovo e, in un modo o nell’altro, una persona nuova. 

off the wall

L’idea del disco ha iniziato a prendere forma nella testa di Michael a New York, durante le riprese di The Wiz, nel 1978. In quel periodo, la Grande Mela era un costante via vai di artisti e personalità di spicco del mondo dello spettacolo, che il Michael ventenne ha attirato (o da cui è stato attirato) come una calamita. Ben distante da quelle atmosfere stile “Sesso, Droga e Rock N’ Roll”, si è limitato ad assimilare quanto più l’ambiente era disposto ad offrirgli, per trasformarlo in un’istantanea perfetta dell’epoca simbolo di stravaganza e eccessi.

Durante le riprese del film, il giovane Jackson non si diverte solo, ma fa anche parecchie conoscenze. E una di queste gli cambierà la vita. Ha un curriculum chilometrico, va da Dizzy Gillespie a Frank Sinatra, e il suo nome e Quincy Jones. Quando l’idea del disco iniziò a concretizzarsi, il dinamico duo non voleva solo un album che permettesse a Jackson di affermarsi artisticamente, volevano il miglior album di Disco Music mai prodotto. A distanza di 45 anni dalla sua uscita, possiamo dire che ci sono riusciti. Q e Michael ascoltarono un totale di circa 800 demo, prima di scegliere le dieci tracce di Off The Wall.

Fatto il pieno di alcuni dei musicisti migliori che la scena musicale del tempo potesse offrire, prenotarono gli studi. Il disco è stato lavorato fra gli Allen Zentz Recoding Studios, i Westlake e i Cherokee. L’El Dorado della produzione musicale, dotato di alcune delle apparecchiature più avanzate dell’epoca. Dentro questi veri e propri templi della musica, la raffinatezza delle produzioni di Jones e la creatività di Michael diventarono un tutt’uno. Dentro l’apparente involucro Disco di Off The Wall, si incrociano Jazz, R&B e Funk, sorrette da riff scoppiettanti, orchestrazioni e sezioni ritmiche incalzanti. Il mix tra elementi acustici e i primi elementi elettronici crea un sound riconoscibile alla prima nota e incredibilmente fresco, almeno per l’epoca. Ricordiamoci sempre che siamo nel 1978. 

Il disco si apre con i sussurri di Jackson che si trasformano in falsetti, in Don’t Stop ‘Til You Get Enough. Il groove irresistibile e i suoni scintillanti delle sezioni di ottoni hanno catapultato il brano ai vertici delle classifiche. Rock With You è un’altra punta di diamante. La traccia simbolo della Disco Music, che ancora oggi è una lezione di come si scrive musica per il dancefloor. Scritta da Rod Temperton, è uno dei brani più iconici della discografia di Michael Jackson. I morbidi tocchi di piano avvolgono perfettamente le voci in una produzione in cui il muro portante è affidato ad una sezione ritmica magistrale. Con Working Day and Night si creano alcune delle strutture vocali che faranno da cifra stilistica per il Michael degli anni ’80. Versetti, armonie e linee melodiche incredibilmente dinamiche si fondono ai riff funky, in una delle tracce più movimentate del disco. 

Co-scritta con Louis Johnson, Get on the Floor è un inno alla danza. Jackson mette da parte le sperimentazioni delle prime tracce dell’album e si concentra sull’obbiettivo iniziale: La Disco. La title-track è qualcosa di magico. Scritta ancora una volta da Rod Temperton, celebra la libertà e la voglia di divertirsi, di cui l’artista si era innamorato durante la sua permanenza tra i club di New York City. La produzione raffinata fa da trampolino di lancio per un performance vocale di Michael Jackson che va oltre tutto ciò a cui eravamo stati abituati fino a quel momento.

Paul McCartney firma Girlfriend. Il pop di ieri e il pop di oggi (ovviamente si parla sempre del 1978) inchiodano la spensieratezza in una traccia allegra e giocosa, prima di entrare in contatto con un’altra punta di diamante di questo disco. She’s Out Of My Life è una bomba emotiva a cui non eri abituato. Vista l’euforia delle tracce precedenti, arrivato a questo punto resti come spiazzato, e forse è per questo che l’impatto è così forte. La straziante fine di una relazione in un’interpretazione impeccabile di Jackson, che trasuda vulnerabilità e malinconia come mai fino a quel momento. Il Brano si trasforma in un secondo l’apice più toccante di Off The Wall.

Stivie Wonder e Susaye Green lasciano il loro nome sul mix perfetto fra Jazz e Pop. Il modo in cui gli strati di sintetizzatore si incrociano alle ritmiche e ai soffici glissando di Rhodes in I Can’t Help It, mostrano la grande versatilità di Jackson, mentre gli archi ci portano verso la fine del disco. It’s the Falling in Love, vede il ragazzo di Gary intento a duettare con Patti Austin, in una traccia rilassata, dagli spunti funky delle chitarre effettate alle armonie vocali. La chiusura del disco è una sentenza. Con Burn This Disco Out Jackson invita il mondo a ballare finché non esaurisce le forze e, su un groove irresistibile, decreta la fine dell’era Disco. 

Se c’è stato un momento in cui Michael Jackson, Mj, o qualunque sia il modo in cui vogliate chiamarlo è stato semplicemente Michael è questo. Per questi 42 minuti tutto quello che è stato prima: i Jackson 5, un padre che l’ha cresciuto come un prodotto da vendere; Tutto quello che è stato dopo: Thriller, Il Re Del Pop, le controversie e le battaglie legali, sono nulla. Questo è il momento in cui, più di tutti, Michael Jackson è stato semplicemente Michael.

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Taylor Swift: La recensione di “Folklore”

  • Taylor Swift – Folklore
  • 24 Luglio 2020
  • ℗ Taylor Swift / Republic

Un sodalizio in parte inaspettato, quello con Aaron Dessner, principalmente tenuto in piedi tramite video call, ma nonostante tutto incredibile. Per quanto possa sembrare strano, in realtà, il chitarrista dei National, non è poi così lontano dalla linea di pensiero di gran parte dei dischi di Taylor Swift. Lo abbiamo visto l’anno scorso, quando abbiamo recensito Good Riddance di Gracie Abrams. 

Amore, perdita e il passare del tempo. Una ricetta immortale che funziona sempre e in tutte le salse. Anche (e soprattutto) nel periodo indie-folk dell’artista della Pennsylvania. Non si può mai sapere cosa succederà poi, ma ad oggi, il momento che intercorre tra Folklore e Evermore, è il punto più alto che la carriera di Taylor potesse toccare. 

Uscito a sorpresa il 24 luglio del 2020, a poco meno di un giorno dall’annuncio sui social, Folklore ha segnato, seppur in maniera poco duratura una svolta epocale nella carriera dell’artista. L’allora trentunenne poteva evitarlo, e mantenere il primato di popstar, eppure ha scelto di esplorare. Certo, non si apre a particolari sperimentazioni, e gran parte delle sonorità cercate, erano viste e riviste, eppure, l’aura che si è creata dietro il suo ottavo disco, è riuscita ad essere qualcosa di diverso. Swift ha deciso di abbandonare i suoni di Lover e, quello che probabilmente è il suo peggior disco, Reputation, per abbracciare un suono più intimo e acustico.

Questa presa di posizione ha creato una palette di tematiche completamente diverse. Folklore sembra quasi un libro di fiabe. Attraverso storie e personaggi immaginari vediamo un lato di Taylor più “maturo” (completamente disintegrato in The Tortured Poets Department, ma questo è un altro discorso).

Complice la pandemia, molti artisti hanno dovuto interrompere le loro “routine creative”, molti altri invece, hanno utilizzato quel momento di isolamento per espandere i loro orizzonti. Swift è una di loro. Con la collaborazione non solo di Dessner, ma anche di Bon Iver e Jack Antonoff, con cui aveva collaborato anche per il disco precedente, ha iniziato la lavorazione del disco in pieno Lockdown. Dessner ha fatto forse il lavoro più pesante, co-scrivendo e producendo undici delle sedici tracce del disco. Quello che è veramente importante nel lavoro del chitarrista dei National è però ben altro. È riuscito ad arricchire il suono di Taylor con la sua influenza indie-folk, a metà fra malinconia e momenti di riflessione. 

folklore-taylor-swift-immagine

L’intero disco è in bilico fra realtà e finzione, con un mosaico di esperienze umane, non più solo personali e autobiografiche, come era stato nel caso di Lover. La scelta stessa del titolo è il riflesso di questa nuova direzione: miti e racconti popolari reinterpretati dagli occhi della Swift.  

Il disco si apre con The 1, brano dai tratti nostalgici. È costruito sulle macerie di un amore finito e una melodia orecchiabile, tra le riflessioni di Taylor su ciò che sarebbe potuto essere. Cardigan è la traccia di punta del disco, una ballata emotiva segnata dal destino. Vulnerabilità e forza di volontà si intrecciano ad uno storytelling perfetto che racconta di amori perduti e poi ritrovati.

In The Last Great American Dynasty i ritmi iniziano a velocizzarsi. L’arrangiamento è minimale, regola che come tutti i dischi folk, bisogna imparare ad accettare. Tutto ciò che non è essenziale non ti serve. Quella raccontata qui dentro è una storia vera. È la storia di Rebekah Harkness, la precedente proprietaria della casa di Taylor a Rhode Island. Con Exile, arricchita dai corposi toni vocali di Justin Vernon tocchiamo uno degli apici di questo disco. Un duetto struggente a piedi nudi sui cocci di una relazione finita. Il contrasto tra la profondità della voce di Vernon e la dolcezza della voce di Swift è qualcosa di incredibile. 

In My Tears Ricochet la cantante torna a parlare dei momenti difficili della rottura con la sua ex etichetta discografica, mentre su Mirrorball la vediamo intenta ad esplorare fragilità e resilienza, nella metafora di una sfera stroboscopica che cerca di riflettere la luce, nonostante le sue crepe interiori. Le atmosfere eteree si polverizzano sui suoni ovattati di piano in Seven. L’innocenza dell’infanzia incastonata in ricordi sbiaditi, è perfetta sul semplice e delicato arrangiamento, alla ricerca di un legame emotivo. Le strumentali tornano a caricarsi in August fra triangoli amorosi inventati e cottarelle estive non corrisposte. L’organo di This Is Me Trying crea un ambiente perfetto per una Taylor annegata nei riverberi che cerca di migliorare sé stessa. Il brano altro non è che uno sguardo onesto sulle sfide e sul desiderio di crescere, nonostante le difficoltà. 

Con Illicit Affair si torna su ballate leggere, guidate da arpeggi di chitarra e accordi di piano. È una storia alla Romeo e Giulietta, sulla complessità e il dolore di una relazione clandestina. In Invisible Strings vediamo una Taylor per la prima volta veramente ottimista, prima di cadere in un vortice di rabbia e frustrazione su Mad Woman. Le esperienze del nonno dell’artista durante la Seconda Guerra Mondiale si incontrano con il lavoro degli operatori sanitari durante la pandemia, in uno degli arrangiamenti più belli del disco in Epiphany, mentre su Betty si ritorna al triangolo amoroso introdotto in August

Peace potrebbe essere una traccia che interessa molto la Swift, costantemente sotto la luce dei riflettori. La traccia analizza le difficolta delle storie d’amore quando la vita pubblica minaccia di invadere la sfera privata. Anche qui ci troviamo difronte a una Taylor profondamente ottimista, che promette amore e fedeltà, pur riconoscendo le difficoltà che il suo stile di vita comporta. Questo cammino nei sentieri oscuri di Folklore si conclude con Hoax. Malinconica, disillusa e allo stesso tempo speranzosa, l’ultima traccia del disco ci lascia con una nota di riflessione: “come fai ad andare avanti se il dolore della distanza supera quello della relazione stessa?”. 

/ 5
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Dua Lipa: La recensione di “Radical Optimism”

  • Dua Lipa – Radical Optimism
  • 3 Maggio 2024
  • ℗ Radical 22 / Warner Records UK

Quando all’inizio dell’anno avevano iniziato a circolare le voci del suo nuovo disco, le aspettative si erano infuocate in un battito di ciglia. Il cambiamento radicale ai connotati del pop durante il 2020, aveva fatto di “Future Nostalgia” un secondo debutto, e di Dua Lipa uno dei punti di riferimento del pop mondiale. In appena quattro anni, sembra che tutto sia sparito. Con l’uscita di “Houdini”, alla fine del 2023 parevano esserci tutti i presupposti per un secondo album trend-setter, ma il singolo si è rivelato solo una delle poche tracce salvabili di “Radical Optimism”.

Dopo aver reso noto il nome, la pretesa che potesse diventare un ennesimo spartiacque nel mainstream, è diventata sempre più forte, sulla scia ottimistica portata avanti dalla stessa Dua, che aveva ammesso di aver tratto ispirazione dal Britpop degli Oasis, e addirittura dai Massive Attack, per la realizzazione di questo album. Beh, mi dispiace deludervi, ma in “Radical Optimism” non sentirete nulla di tutto ciò. Se Dua Lipa si è ispirata a qualcuno per questo disco, quel qualcuno è sé stessa. Non fraintendetemi, non è un crimine, ma in questo caso i banger pop di “Future Nostalgia” non hanno portato a niente di buono sulla consistenza del suo terzo disco. 

Radical Optimism

Il colpo di genio non arriva nemmeno dal punto di vista melodico e degli arrangiamenti né Kirkpatrick, suo produttore di lunga data, né Harle, che avevamo apprezzato lo scorso anno sulla produzione del disco di Caroline Polachek sono riusciti a trovare la via giusta per questo disco, nemmeno con l’aiuto di Kevin Parker (Tame Impala).

Le atmosfere da club di “Houdini” e i richiami alla Golden Era della disco music di “Whatcha Doing”, riescono nel loro obbiettivo di trainare il disco, ma risultano due delle poche tracce veramente interessanti del disco. Anche le tracce più scoppiettanti, come “Training Season” e “French Exit” non riescono ad arrivare ad un risultato sperato. “Illusion” rientra in quelle poche tracce che salvano il disco. L’atmosfera dance anni ’90 si fonde perfettamente con gli stili pop di Lipa. Questo è forse l’unico caso in cui l’artista crea un suono che fino ad ora non ci aveva mai proposto. Le voci agrodolci spalmate sulle chitarre acustiche di “These Walls” si dimenticano non appena la traccia arriva al termine. Purtroppo è il destino di quasi tutte le altre tracce del disco, eccezion fatta, forse solo per “Happy For You” che trova la sua forma migliore solo nel momento del ritornello. 

/ 5
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The Weeknd: La recensione di “After Hours”

  • The Weeknd – After Hours
  • 20 Marzo 2020
  • ℗ XO / Republic Records

1500 giorni. È il tempo che è trascorso da quando l’artista canadese ha settato un nuovo standard sulla scena mainstream mondiale. L’avevamo visto salire alla ribalta nel 2011 con una trilogia di mixtapes e poi altri tre (quattro se si vuole considerare “My Dear Melancholy,”) dischi tra il 2013 e il 2016. Tutti accomunati dalle stesse sfaccettature. Un’atmosfera noir consolida un immaginario che ha come protagonista un’oscura personalità in balia degli eventi, perso nell’abuso di sostanze e completamente distaccato dal resto del mondo. 

In “After Hours”, la situazione sembra non essere cambiata poi così tanto. L’artista si butta nell’ennesimo dramma, caratterizzato dai soliti problemi dei progetti precedenti. Una continua sensazione di Dejà Vu, in cui fa sempre gli stessi errori. Insomma la solita solfa. L’abbiamo pensato tutti al primo ascolto. E tutti abbiamo sbagliato la prospettiva da cui questo disco andrebbe visto.  

L’avevamo guardato sorridere e ballare fra i neon e le luci della città nel video di “Heartless” alla fine del 2019, salvo poi ritrovarlo, due mesi più tardi, in quelle stesse strade, con il naso spaccato e grondante di sangue. Forse per capire il senso di “After Hours” occorre partire da qua. Perché è proprio in questo punto che l’artista fa incontrare i suoi due mondi. Il disco riesce per la prima volta ad unire la spettralità dei suoi primi lavori alla sfarzosità di un’America (e una Los Angeles) ormai troppo lontana. Quella del Sunset Blvd colmo di luci al neon, del Dream pop vecchio stile, dell’R&B. Nel trovare il suono giusto l’hanno aiutato nomi importanti, da Illangelo, suo produttore di lunga data a Max Martin, fino a addirittura Tame Impala e Oneohtrix Point Never.

Ma il contrasto non è solo sonoro. “After Hours” è un duello, tra Abel e The Weeknd. È una spirale di intimità, accettazione (persino di sé stesso) e distrazione emotiva, nascosta sotto lo sfarzo. 

Abuso di sostanze e cupezza danno il via al disco, con “Alone Again”. Il lavoro di produzione è magistrale e si percepisce in particolar modo nel momento in cui i sintetizzatori incontrano la sezione ritmica. Lungo tutto il corso di questo disco, il vintage e il nuovo si incastrano alla perfezione. “Too Late” inietta lentamente un cambio di stile che culminerà solo nella traccia successiva, “Hardest to Love”. È quello della Drum n’ Bass. I complessi pattern di batterie elettroniche in contro tempo creano un’atmosfera sfocata in cui Tesfaye analizza la rottura di una relazione. Si assume le sue responsabilità arrivando persino ad interrogarsi sul perché qualcuno possa voler stare con lui. Con “Scare To Live” il disco inizia ad assumere una connotazione sempre più synth pop.

In “Snowchild” Abel assume una consapevolezza completa del suo personaggio, spostandosi verso sonorità attribuite alla nuova scena Hip-Hop. Stesse sonorità riproposte in “Escape from LA”, “Heartless” e “Faith” in cui le atmosfere cupe prendono il sopravvento, mentre il disco inizia a spostarsi verso i tre banger che da tre anni a questa parte non hanno ancora fatto il loro corso. “Blinding Lights” è la definizione perfetta di synth pop. È un cambio di direzione che va a braccetto con il costante aumento della sensazione di rammarico e dolore che nessuno si aspettava da un personaggio come The Weeknd.

In “In Your Eyes” cambia i connotati alla Disco Music, dando una chiara risposta a tutti quelli che in passato l’avevano etichettato come erede di Michael Jackson. E la risposta è una sola: La musica non ha bisogno di eredi. Il luccicante assolo di sax, defluisce verso “Save Your Tears”. L’artista affronta ancora una volta le relazioni passate. Il rammarico e la nostalgia vengono disintegrate da una profonda sensazione di vergogna. Abel tenta di redimersi, pur non nascondendo in alcun modo il suo lato più oscuro. “Se ti ho spezzato il cuore è perché qualcuno l’ha fatto a me”. 

L’interludio “Repeat After Me” è un magistrale esercizio di stile di Tame Impala e Oneohtrix Point Never. Mentre il disco inizia a volgere al termine Tesfaye torna su sfocate atmosfere cinematografiche nella Title-Track e “Until I Bleed Out”.

A trasformazione completata, Abel ricorda che, nonostante i passi avanti fatti in questo disco, non è in grado di essere la versione migliore di sé stesso (se non dal punto di vista artistico). Nonostante le ballads anni ’80 le belle voci e le sensazioni erotiche e romantiche di Abel, dentro avrà sempre quel vortice di malinconia e assuefazione di Weeknd.

/ 5
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Subsonica: la recensione di “Realtà Aumentata”

  • Realtà Aumentata – Subsonica
  • 12 Gennaio 2024
  • Sony Music Entertainment

Con quasi trent’anni di carriera sulle spalle, i Subsonica non hanno bisogno di presentazioni. Il loro stile inconfondibile, che fonde rock, pop ed elettronica, è un marchio di fabbrica storico della band torinese. Nonostante le loro note influenze, cha spaziano dalla psichedelia floydiana al trip hop del Massive Attack, sonorità ad oggi non molto “di moda”, sono riusciti negli anni ad esplodere nel mainstream peninsulare. Questo limbo tra underground e hit delle classifiche li ha resi uno dei gruppi famosi a giovani e meno nel panorama italiano. La loro costante evoluzione, partita del capolavoro dell’album omonimo fino alla sperimentazione di “Mentale Strumentale”, con alcuni scivoloni di percorso, li ha portato ai nostri giorni con un’opera degna di nota. Si tratta di un ritorno alle origini, con la maturità di chi non ha più vent’anni. Un percorso nella loro storia musicale che ha portato Samuel e compagni ad un “nuovo inizio”, dopo il rischio non troppo velato di scioglimento a causa di dissidi interni, dove gli strumenti cercavano di emergere piuttosto che creare un suono unico.

In questo panorama si pone “Realtà Aumentata”, un manifesto granitico che esprime appieno il desiderio della band a mostrare il loro lato migliore. Con testi taglienti e mai scontati, la band critica vari aspetti della società moderna, come il continuo ricorso all’apparenza sfrenata, il tutto con sonorità familiari, che cullano l’ascoltatore verso lidi conosciuti e piacevoli.

A seguire “Cani Umani” che già dal titolo fa capire una sua natura più peculiare e sperimentale, “Mattino di Luce” ripercorre un canovaccio da eseguito dai Subsonica, sicuramente un po’ ripetitivo, ma non sgradevole. Anzi, forse era proprio quello che ci voleva.

La conferma di questo ritorno alle origini viene ribadito in una frase di “Pugno Di Sabbia”, dove Samuel afferma a gran voce che “c’è un passato che non passa mai”. Anche qui il terreno è pianeggiante e permette un cammino costante e senza intoppi, ma veramente piacevole.

Se con “Universo” si rimane sospesi nelle note vocali, quasi contrastanti rispetto ad un ritmo incalzante, l’atmosfera cambia radicalmente con “Nessuna Colpa”. Una base più cupa fa da sfondo ad un testo rappato, che esplode nel ritornello, che ribadisce il concetto espresso nel titolo.

Nuovamente rarefatta la seguente “Missili E Droni”, che fonde dolcemente la chitarra acustica ed il pianoforte con un tema elettronico, creando un turbine molto interessante.

Si arriva ad un crossover con i rapper Ensi e Willie Peyote ed i fiati di Paolo Parpaglione ed Enrico Allavena. Il brano è godibile e l’ensemble improvvisato è ben riuscito, anche se è quanto di più lontano dai Subsonica dell’intero album.

La band torinese continua a stupire con la seguente “Africa Su Marte”, la più lunga ma anche la meglio eseguita di questa loro opera ultima. Sonorità tribali, elettronica onnipresente di stampo dance, poche parole ma ben dosate valgono la palma di migliore brano dell’album per distacco, una vera perla.

Questo mood prosegue in “Grandine”, facendola sembrare la prosecuzione naturale del pezzo precedente, per poi sprofondare nell’intimità folk di “Vitiligine”, una ballad in piena regola con echi psichedelici, che permette all’orecchio di rilassarsi e all’animo di sognare.

La degna conclusione è affidata a “Adagio”, soundtrack dell’omonimo film. Dura, cruda e oscura, insolita per la band ma quanto mai azzeccata per descrivere le vicende descritte da Sollima. Potrebbe anche segnare una svolta nel sound di Casacci e soci e se il buongiorno si vede dal mattino, il futuro sembra piuttosto sereno.

Un nuovo inizio, una sterzata forte, un ritorno alle origini. Qualunque sia la strada intrapresa, ben venga tale scelta.

4,0 / 5
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Kali Uchis: La recensione di “ORQUÍDEAS”

  • ORQUÍDEAS – Kali Uchis
  • 12 Gennaio 2024
  • ℗ Geffen Records

Ritmi caraibici e una pioggia di fiori sul quinto disco, secondo in poco meno di un anno, dell’artista colombiana. Circa un anno fa, nella recensione di “Red Moon In Venus”, avevamo sottolineato, come già il titolo faceva capire, che la Uchis si stava spostando verso un linguaggio standard, quello della lingua inglese, mantenendo, seppur solo nelle sonorità, alcuni tratti caratteristici della musica latina. Con “ORQUÍDEAS”, l’artista sembra a tornare al suo marchio di fabbrica: un album completamente in lingua spagnola.

Per quasi tutta la durata di questo LP, la cantante rievoca le sensazioni a cui ormai ha abituato. Le atmosfere sono in grado di perdersi in paesaggi brillanti e lussuria, spalmati alla perfezione sulle contaminazioni al confine tra Hip-Hop e Pop. Le ispirazioni non si sono spostate di molto da quelle che avevano caratterizzato l’ottima riuscita del suo disco precedente, finito su gran parte delle classifiche dei migliori dischi del 2023. Eppure questo disco sembra trovare una spinta in più. 

Il disco è stato portato avanti parallelamente a “Red Moon In Venus”, eccetto alcune canzoni che risalgono al 2021. A differenza del suo predecessore, che sfruttava ritmiche quasi downtempo, per creare sensazioni quasi erotiche, sull’altra faccia della medaglia, quella di” ORQUÍDEAS”, abbiamo ritmi più velocizzati a supporto di una gamma sonora in qualche maniera diversa, ma che riesce ad ottenere un risultato piuttosto simile. Anche il team di lavoro è cambiato. La cantante ha mantenuto solo Albert Hype, come produttore/autore, rivolgendosi poi a una nuova fitta lista, come per il precedente album, di addetti ai lavori. “ORQUÍDEAS” è un disco che vede anche diverse collaborazioni, tutte del panorama latino, da Peso Pluma a KAROL G.

ORQUÍDEAS

Ad aprire il disco è “¿Cómo Así?”, tra bassi intriganti e risate.  L’inquietudine nella traccia lascia la Uchis a esibirsi in vocalizzi e testi ridondanti, prima che di colpo ci si presenti davanti “Me Pongo Loca”. Le atmosfere UK Garage, passano in secondo piano su una traccia che rispetta molto più gli standard dell’urban latina. In “Igual Que Un Ángel”, primo featuring, con Peso Pluma, di questo disco, tornano gli echi di Red Moon In Venus. Su tre canzoni tutte esplorano sonorità diverse, in questo caso Kali si sposta sulle ritmiche ferme e gli strati melodici dei sintetizzatori nu-disco. Questa palette sonora si ripresenta anche nella traccia successiva, “Pensamientos Intrusivos” utilizza le stesse metriche stilistiche, ma risultain qualche modo più minimale, gli ambienti si allargano così come la voce della cantante che si sposta verso tonalità più alte. 

“Diosa” e “Perdiste” tornano ai ritmi latini, mescolati con contaminazioni elettroniche, mentre la voce ci Kali passa in secondo piano, soprattutto nella prima traccia, il calore sulle due tracce si alza, e le atmosfere si caricano di luccichii. “Te Mata”, rallenta il ritmo, attingendo a scelte strettamente legate alla musica latina, dagli arpeggi di chitarra all’utilizzo degli archi, questa traccia trasuda sud America ad ogni parola. Nei rolls di hi-hat in “Young Rich & In Love”, ritrova costanti sonore trap condite con fitti strati di armonie vocali. 

I successivi tre featuring arrivano tutti uno dietro l’altro. In “Muñekita” con El Alfa e JT, i ritmi si innalzano. Finora questa è probabilmente una delle tracce meno riuscite in questo disco. In “Labios Mordidos”, con KAROL G, sembra, anche se non di molto, correggere il tiro. Il Feat. Meglio riuscito è quello con Rauw Alejandro che, insieme a peso pluma timbra il cartellino su due ottime tracce di “ORQUÍDEAS”. 

Nelle ultime due tracce, “Heladito” e “Dame Beso // Muévete” dilagano atmosfere esotiche, più sfocate nel primo caso e più brillanti nel caso della traccia di chiusura.

/ 5
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PinkPantheress: La recensione di “Heaven Knows”

  • PinkPantheress – Heaven Knows
  • 10 Novembre 2023
  • ℗ Warner Music UK Limited.

Il disco di debutto dell’artista ventiduenne di Bath consolida il suo stile artistico, contro le aspettative date dal percorso di altri suoi colleghi. Si, perché se è vero che il successo social, soprattutto con TikTok, come nel caso della Walker, può arrivare in un lampo, come un lampo può anche scomparire. Soprattutto se si sta parlando di musicisti. Per PinkPantheress sembra però esserci una sorte diversa. Con “Heaven Knows”, uscito a due anni di distanza dal Mixtape, “to hell with it”, Vicky trova nuovi spunti, non solo elettronici. Se qualcuno si aspettava atmosfere glitch-pop, si aspettava male.

I suoni partono da pattern elettronici, i synth occupano un ruolo chiave, dopo tutto si sta parlando di musica elettronica, così come lo stile Garage di primi anni 2000, su cui l’artista ha lavorato da subito. PinkPantheress trova il modo di inserire anche elementi più tradizionali, tra cui chitarre classiche, che trovano l’incastro perfetto. 

Messa da parte la sua carriera di TikToker/Cantante, si è concentrata su una strada più difficile, ma sicuramente più appagante. Quella di Artista. Ha anche trovato nuovi collaboratori per la lavorazione di “Heaven Knows”, da Greg Kurstin (Kendrick Lamar, Sia, Adele), e Danny L Harle (Caroline Polachek, Charli XCX e Houdini, ultimo singolo di Dua Lipa). 

Nonostante l’impronta pop, i due producer sono riusciti a mantenere lo scheletro House nello stile della Walker.

I quattro featuring del disco sono azzeccati, in maniera particolare quello della bonus track “Boy’s Liar Pt.2”, con Ice Spice. Uscita inizialmente come singolo di anticipazione lo scorso febbraio, aveva permesso a PinkPantheress di scalare la Hot100 di Billboard. “Nice to meet you” con Central Cee non è da meno. Mentre la struttura dell’arrangiamento rimane dentro i canoni dell’elettronica, la scelta dei suoni accoglie contaminazioni rap che creano il tappeto perfetto per le rime del rapper inglese.

“Another Life”, traccia di apertura del disco è quella che, insieme a “Ophelia”, spicca di più nel disco. Le atmosfere elettroniche e house si emarginano, lasciando uscire fuori elemnti tradizionali, dalle chitarre acustiche agli organi. Nel caso di “Ophelia”, addirittura le strutture delle percussioni cambiano completamente connotati, creando un botta e risposta tra ritmiche garage e breakbeat acustici. I campionamenti di “Feelings” portano la traccia verso sensazioni R&B di primi anni 2000, mentre la Walker si concentra su sensazioni di inquietudine, ansie e incertezza. 

Non manca di dare la sua opinione sui social. Già all’inizio di quest’anno aveva dichiarato di essere fuori dall’ambiente social, e questo disco ne è la conferma. Nell’ interludio “Internet Baby” si scaglia contro le generazioni più giovani che popolano il social cinese. “Non sono il tuo bambolotto di Internet” canta. Nella traccia mette in luce un’incredibile dote vocale, mentre espone una problematica che si sta facendo sempre più seria tra fanbase e artista.

Nonostante ci sia ancora del lavoro da fare per trovare la forma perfetta a cui tutti gli artisti ambiscono, “Heaven Knows” è un disco che mostra un’ottima crescita artistica nella cantante classe 2001.

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