Postpunk

Dead Crayons: La recensione di “Touches”

  • Dead Crayons – Touches
  • 2 Giugno 2023
  • ℗ Dead Crayons

Si chiamano Dead Crayons, trio fiorentino nato durante il 2020 e uscito, insolitamente in esclusiva su bandcamp e Spotify, lo scorso giugno con il primo EP di debutto dal titolo “Touches”. 

Il gruppo, composto da Giulia Bellia (basso, voce), Vincenzo Marolda (chitarra, synths) e Alvaro Buzzegli, ex batterista di diverse band underground (RitmeniaZoo, NON, GF93), è riuscito a trovare un giusto compromesso tra cupezza e esplosività nei soli 16 minuti di durata di questo progetto. 

Il disco, nato all’inizio del 2023 e sviluppato all’Audiovolt Studio, sotto la supervisione di Lorenzo Bellia, mescola al suo interno, sonorità cardine del noise-rock e post-punk. Sicuramente niente di nuovo, eppure le distorsioni, le voci filtrate e gli stack di sintetizzatore creano un’incredibile e cupa atmosfera, rendendo questo progetto incredibilmente interessante. 

Touches

Ad aprire il disco è “Reflection of a Bliss”. In poco meno di quattro minuti il trio riesce a portare la tensione alle stelle. Tra le potenti linee di basso e i tamburi cadenzati di Buzzegli, si insinuano le voci graffianti di Bellia. “To Camelia” sprofonda in un noise-rock viscerale, che non ascoltavamo dai tempi di Dogsbody, debutto dei Model/Actriz. Dopo un intro caratterizzata da percussioni e rumori ambientali, la sezione ritmica si fa via via più cadenzata e potente, accogliendo le pesanti distorsioni sul basso e una linea vocale completamente sfasata. Sui loops, nella coda della traccia, la tensione aumenta seguita dalle distorsioni, prima di morire lentamente lasciando spazio alla chiusura di questo EP. “Elvedon”, tutta strumentale, si butta nelle braccia dei tamburi di Buzzegli. La batteria ne esce da protagonista in una traccia che chiude in maniera ottima questo progetto. 

Tre tracce difficilmente creano un giudizio preciso su un artista, ma se questi sono i presupposti, ci si aspetta ottimi progetti futuri.

Se ti piacciono i Dead Crayons potrebbe piacerti anche: Model/Actriz, Bud Spencer Blues Explosion, Screaming Females

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Tanz Akademie: La recensione di “Hullabaloo”

  • Tanz Akademie – Hullabaloo
  • 26 aprile 2024
  • ℗ Overdub Recordings

La musica di oggi è tutta mediocre, specie quella italiana. Quante volte abbiamo sentito questa frase, e negli ultimi anni sempre più spesso. Eppure, i Tanz Akademie sono l’ennesima conferma di quanto queste parole siano insignificanti per chi tutti i giorni ha voglia di scavare sotto la superficie del panorama musicale odierno. 

“Hullabaloo” è il titolo del disco di debutto di una delle scoperte più interessanti di questo 2024, nella scena musicale italiana. La band piemontese, composta da Francesco Nada (Sax, chitarra), Luca Assisi (chitarra), Matteo Boglietti (corno francese), Giovanni Lo Vano (Voce, Chitarra), Matteo Cicolin (batteria) e Michele Reggio (basso), ha registrato il disco in una sola settimana, ma l’album non è nato in sette giorni. Hullabaloo è il risultato di anni di prove, concerti andati male, amicizia e il giusto compromesso tra ferocia e dolcezza. 

Sebbene questa miscela di post-punk, alt-pop e jazz sia ormai un ingranaggio ben oleato, almeno fuori dall’Italia, i Tanz Akademie ci insegnano una lezione importante. Qui c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di rischiare. 

Hullabaloo

Il disco è un vorticoso susseguirsi di emozioni. Speranza, frustrazioni e rinascita colorano il cupo viaggio della band alla ricerca di un momento di luce. Il collante di questo progetto risiede nel titolo. “Hullabaloo” è baccano. E il baccano non ha fazione. Può scaturire dalla felicità, dalla rabbia, da una disperata richiesta d’aiuto o da un evento che desta sorpresa, o ancora, e questo sembra ciò che il sestetto ama di più fare, un tentativo di colmare un silenzio assordante.

Ci hanno insegnato che quando un neonato ha bisogno di chiedere qualcosa piange. Quando quel neonato cresce impara a dosare il tono della voce in base a quello che ha da chiedere. E più queste richieste si fanno disperate, più il tono della voce si alza. Questa potrebbe essere la risposta perfetta per definire “Hullabaloo”. Nonostante il frastuono, le energiche chitarre punk e i toni fiabeschi dei fiati, la band trova ampio spazio di analisi sul rapporto tra la vita e la morte, sulla salute mentale, sui legami familiari e sull’essenza della giovinezza. Ci sono così tanti spunti di riflessione, che spesso si rischia di influenzare in maniera negativa un disco. Non è questo il caso. 

L’album si apre con “The Vampire”, primo singolo di anticipazione, pubblicato all’inizio dell’anno. La traccia è leggera, un contrasto netto con il testo, che invece si insinua all’interno di una relazione tossica, costernata da morbosità e illusioni, in bilico fra un rapporto a metà fra ciò che è reale e ciò che è invece frutto dell’immaginazione umana. In “The Ghost”, uscito anche esso come singolo, le pesanti distorsioni sulle chitarre creano il trampolino di lancio per l’ingresso degli ottoni, che danzano con lo spoken word di Lo Vano. Tutta la canzone ruota intorno a turbamenti psicologici, dove l’angoscia iniziale data da un fantasma che infesta una casa si appiattisce nel momento in cui lo si inizia a considerare come una figura amica.

Il ritmo cadenzato di “Trst” vaga verso atmosfere dai Goth leggere e riverberate, prima di gonfiarsi sui “La La La La” del finale. Su “Tomorrow” virano verso pulite sonorità “Buckleiane” risvegliandosi sulle sporche linee di basso di “The Wake”. I tocchi di piano di “Geisterwalzer” ci catapultano in atmosfere che sembrano provenire da un altro disco. Eppure la traccia strumentale lunga appena due minuti, risalta incredibilmente bene all’interno di questo progetto tentacolare. “Special Town” e “Widows” ritornano più forti che mai alle cifre stilistiche che il gruppo ci ha sparato dentro le orecchie nelle prime tre tracce di “Hullabaloo”.

“Lollipop” è a meta fra un walzer da saloon e una fiaba, mentre in “The House” la quiete torna ad essere la protagonista. Le distorsioni si spengono e sui dolci arpeggi di chitarra Lo Vano ci traghetta verso un incredibile composizione dai tratti post rock. Un po’ Squid, un po’ Fontaines D.C. la band assesta il colpo finale con le ambientazioni oscure dell’ultima traccia cantata del disco, “Venice”. A chiudere questo incredibile esordio è “The House (Reprise)”. Qualcuno è arrivato alla fine del viaggio, ha trovato la luce e lontano, forse all’interno di quel tunnel descritto in precedenza risuona ancora quel “la la la la”, dolce e spensierato. O forse anche qui, come in “The Vampire” è tutta un’illusione.  

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Erotic Secrets Of Pompeii: la recensione di “Mondo Maleficum”

  • Mondo MaleficumErotic Secrets Of Pompeii
  • 25 Gennaio 2024
  • Deaf Endling Collective

Quando si dice che il buongiorno si vede dal mattino: risulta splendente l’esordio dei britannici Erotic Secrets Of Pompeii. Estro, pazzia, tecnica si fondono per creare un sound che intinge il proprio essere nel post-punk dei Fontaines D.C., la schizofrenia dei Black Midi, la follia creativa dei Mr. Bungle, l’acidità dei Primus. Un mix quantomai azzeccato che si esalta nelle dieci tracce che compongono “Mondo Maleficum”, un album che saprà accontentare palati diversi. Ma l’approccio deve essere consapevole, con le dovute istruzioni per l’uso, altrimenti rischia di diventare troppo complesso ai più e strizzare troppo l’occhio alla dance per i più esigenti.

“Osiris at the Large Hadron Collider” parte con un classico riff di chitarra che si potrebbe ascoltare in un disco dei Franz Ferdinand. Ma la voce di Thomas Hawtin accompagna l’ascoltatore in un vortice di stranezze, degno del miglior Mike Patton.
Già il giro di basso che introduce “The Wheel, the Spade, the Stars in Motion” mostra un altro percorso rispetto al precedente, dove la chitarra ricorda a tratti LaLonde, mentre la batteria prosegue il viaggio post-punk che li contraddistingue. E già ci troviamo di fronte ad una prima gemma.
L’inizio della terza “Faustina Filmed in Psychorama” ricorda i francesi We Insist!, con questo fare cadenzato accentuato dai vocalizzi. Un’altra freccia ben scagliata, dritta al centro del bersaglio.
La successiva “Venus Ascending” sembra tratta da un nuovo album degli Arctic Monkeys con la partecipazione di Mike Patton alla voce e con l’assolo di chitarra di David Gilmour. Questo strano trio suona a meraviglia, mostrando tutta la qualità della band.
Più sinuosa, ma al contempo acida e psichedelica, “Bad Weather at Beachy Head” si differenzia ulteriormente dal resto dei brani: questa mistione di suoni si fonde ancora di più qui, confondendo e sorprendendo l’ascoltatore, ormai in balia degli eventi.
Il picco di stravaganza viene raggiunto con “Utterly Rudderless”, un raro esempio di follia lucida contemporanea. Il vero capolavoro in mezzo a tante perle.
Segue egregiamente “Crocodilian”, quasi a voler ribadire che, anche se probabilmente si è raggiunta la massima vetta, le altre sono quasi tutte allo stesso livello. Più lineare della precedente, ma complessa nella sua interezza.
“Tenderness Has Failed Me” è sicuramente una delle più ascoltabili, senza troppi scossoni. Attenzione, ciò non significa banale, un termine che difficilmente potrebbe essere associato agli Erotic Secrets Of Pompeii.
Nemmeno il tempo di abituarsi ad un terreno stabile che si viene catapultati in atmosfere noir, con una sorta di acid blues a luci soffuse. “Auguries and Auguries” è geniale, soprattutto perché spezza il ritmo dance al quale ci si era abituati.
La chiusura in poco più di tre minuti di “The Unstitching of Everything” è degna dell’intera opera: sembra quasi uscita da un musical rock: una sinfonia che completa un puzzle quasi perfetto, con una conclusione quasi sospesa, come se volesse tracciare la strada per lavori futuri.
Buona la prima è un’espressione riduttiva per questo album, impeccabile sotto ogni punto di vista. Poco più di mezz’ora che vola come se fossero passati solo pochi minuti.
Ora le ipotesi sono due: rischiare una clamorosa perdita di quota a discapito delle aspettative, oppure consacrare ancor di più questo debutto con un’opera che porterà il quintetto inglese nell’olimpo dei grandi.

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From Flowers To Flies: la recensione di “We Built This Machine”

  • We Built This Machine – From Flowers To Flies
  • 19 Gennaio 2024
  • Broken Windmill Music

Oscurità nei testi, ecletticità ed eleganza nell’esecuzione strumentale, è ciò che emerge nella storia in dieci tracce, con l’aggiunta di un prologo e di un epilogo, raccontata dai From Flowers To Flies nel loro disco di debutto. L’intera opera è intrisa da una mistione di chamber pop e prog rock, sempre molto ben bilanciata ed eseguita alla perfezione.

L’album si apre con la vigorosa “Signs”, dove gli accenti degli ottoni si intrecciano con le vibranti melodie chitarristiche e il ritmo incalzante di basso e chitarra, evidenziando le abilità dinamiche della band. Il breve prologo lascia spazio subito ad un brano dalle due facce, più ritmata, quasi tribale, la prima parte, maggiormente riflessiva e cupa la seconda.

Il singolo di debutto, “Fog”, intriga con la sua sobria eleganza iniziale, sfociando poi in un crescendo climatico avvincente. Gli strumenti si fondono in un intreccio melodico coinvolgente, mentre le voci narrano un senso di immobilità, presto sovrastato da una distorsione graffiante che aggiunge nuova profondità alla traccia.

“Powerlines” irradia un’energia cupa e fragorosa, con un basso post-punk pulsante che si fonde con una pesante distorsione chitarristica e sprazzi di ottone, evocando suggestioni estetiche che richiamano alla mente un incrocio tra Madness e Black Midi. Dopo la poetica strumentale “We Are What We Pretend To Be”, si torna ad atmosfere più angosciose con “The Game”, con echi non troppo lontani dai Porcupine Tree. Qui i synth e il basso guidano in modo avvincente la sequenza vocale, con l’intervento preciso e perfetto della chitarra da metà traccia.

L’intermezzo di poco più di due minuti della quasi totalmente strumentale “38.9°N, 77.0°W” apre la strada in modo

“Glide” presenta un approccio rock più groove e funky, evitando la foga distorsiva a favore di un coinvolgimento, esaltato dalla splendida voce femminile della band. Le liriche approfondiscono i temi dell’ansia e del tumulto moderno, mentre “Contagion” si fa eco di un futuro incerto, dove ci si interroga su quanti danni si possano infliggere, in un prog rock di stampo seventies, con arpeggi di chitarra e organi che si rispondono in un dialogo continuo.

La successiva “Not The Way You Want” è sicuramente la più scanzonata dell’intera opera, con melodie aperte e cori armoniosi.

Dopo la lunga strumentale e atmosferica “Vamp Until Cue… Then Fade”, con giochi di chitarra e ottoni, l’album si chiude con il consumante epilogo, che abbraccia un nostalgico synth-pop e un senso di inquieto idealismo new-wave.

Il finale è un trionfo dirompente, che conclude in modo impeccabile un album d’esordio che fa ben sperare e aumenta la curiosità nei confronti di una band ancora a tratti acerba, ma pronta a sbocciare con un percorso inverso rispetto al loro nome.

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Fontaines D.C.: La recensione di “Skinty Fia”

  • Fontaines D.C. – Skinty Fia
  • 22 Aprile 2022
  • ℗ Partisan Records

È oramai lontana la realtà pre-pandemica, in cui, con “Dogrel”, la band si accaniva con spietata schiettezza sulle immagini di una Dublino dai mille volti. La stessa Dublino che li ha fatti nascere, non solo artisticamente. Eppure, la parola “pre-pandemico”, che avrei preferito non utilizzare, è stata una manna dal cielo per il quintetto irlandese. Se non fosse stato per la pandemia, probabilmente le sorti del post-punk revival sarebbero state diverse, probabilmente la band non sarebbe andata a vivere insieme a Londra e, che ci crediate o meno, probabilmente non sarei qui a parlare di “Skinty Fia” con questo entusiasmo. Nel secondo disco, “A Hero’s Death”, Chatten e soci si erano spinti verso sonorità più sperimentali, insieme al contributo di Dan Carey. In “Skinty Fia”, uscito nell’aprile 2022, la band non molla il colpo. 

Come per “Dogrel”, l’ostinato attaccamento del gruppo verso la propria terra natia, parte dal titolo del disco. Tradotto letteralmente in “Sia dannato il cervo”, Skinty fia, altro non è che un’imprecazione in lingua irlandese, che funge in questo caso come valvola di sfogo verso un mondo ormai spaccato in due, che la band, Chatten in particolare, ha vissuto sulla sua pelle, dopo il trasferimento a Londra. Nasce così il disco, tra nostalgia di Dublino, etichette sociali, “guerre religiose” e, ovviamente Dan Carey che ne cura la produzione.

Sono delle accoppiate vincenti, che già nei precedenti due dischi avevano funzionato per la band, ma che qui sembrano trovare un ulteriore crescita narrativa/sonora, che contribuiscono a spingere il disco fuori dai canoni musicali fino a quel momento. Chatten appare più padrone della sua voce, e anche il comparto melodico di Coll, O’Connell, Curley e Deegan III, sembra sotto molti punti di vista aver trovato delle ambientazioni completamente loro, in equilibrio tra dolcezza e violenza. 

Skinty Fia

L’oscurità cala con “In ár gCroíthe go deo”, nonostante il titolo della canzone porti un messaggio tutt’altro che oscuro. La linea di basso, non lontana da quelle dei precursori del post-punk, si scontra con cupi vocalizzi, mentre le cantiche di Chatten, creano una connessione viscerale tra artista e ascoltatore, che polverizza i sei minuti di questa traccia. È l’unico punto in cui la band riesce a ipnotizzare in questa maniera. In “Big Shot”, scritta da O’Connell, i suoni si rifugiano in delicate sfaccettature dai tratti shoegaze, mentre la band porta avanti la sua evoluzione, che culminerà solo alla fine del disco.

“How Cold Is Love” appare più vicina ai precedenti lavori, mentre “Jackie Down The Line”, si prepara a puntare il piede sull’acceleratore. È brillante e al contempo cruda. È distruttiva, pervasa da tossicità e misantropia, eppure non invita mai a smettere di combattere. Un altro dei momenti in cui la band rimarca il suo attaccamento all’Irlanda. 

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“Bloomsday” è un altro dei grandi Banger di questo disco. Di gran lunga meno ritmato della traccia precedente, e più cupo, descrive un Chatten che lascia tutto ciò che, in qualche modo lo ha reso ciò che è, in un polverone di tristezza e noise rock, per un nuovo posto, in cui non si sente a casa. In “Roman Holiday”, la band si prende una pausa dalla tristezza.

Non la cancella del tutto, la mette solo da parte, e in certi momenti la tratta addirittura come ironia. “The Coupe Across The Way”, se vi aspettavate che i Fontaines, non si potessero mai trovare a cantare testi che suonano quasi come una filastrocca, mentre giocano con vecchi Accordion, in questo disco c’è anche quello. Esplorano le sfaccettature dell’amore, i momenti belli e quelli meno belli, visti da fuori, nei momenti di vita quotidiana di altri. È come guardare il mondo da fuori, consapevole che quello che ti è successo oggi a qualcuno potrà succedere domani, e viceversa.

La title-track è quella che si distacca di più dal resto del disco a tratti sembra di ascoltare i Massive Attack in botta da cocaina, a tratti sembrano tornare agli spunti iniziali. È sicuramente quella che sottolinea in maniera più profonda l’incredibile lavoro negli arrangiamenti e nella produzione di questo disco. E se parliamo di arrangiamenti, il banger numero tre casca a pennello. “I love you”, ennesima canzone sull’Irlanda? Si. Condita con un titolo che dire Clichè è farle un complimento? Si. Con un arrangiamento incredibilmente ordinario? Nemmeno per sogno. Strofe e ritornelli si scambiano, creando per le prime, una struttura melodica facilmente riconoscibile, mentre per i secondi dei momenti più scarni. “Nabokov” è delirante. Nella chiusura del disco, il noise rock prende il sopravvento creando una vorticosa sensazione di irrequietezza che sfuma verso la fine con il termine della traccia. 

Per i Fontaines questo disco è il “terremoto scaturito dal battito d’ali della farfalla”, un resoconto di come anche la più (apparentemente) insignificante delle scelte, possa sfociare in momenti assurdi, nel bene e nel male. Skinty Fia è un disco potente, costernato da crescita, difficoltà e maturità. E tal volta dal qualche briciolo di ironia.

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Amiture: la recensione di “Mother Engine”

  • Mother Engine – Amiture
  • 9 Febbraio 2024
  • Dots Per Inch Music

Se è vero che il secondo album è proverbialmente il più difficile, Jack Whitescarver e Coco Goupil reinventano radicalmente la loro estetica e si smarcano dal problema del paragone con il primo disco. È uscito così “Mother Engine”, il secondo disco degli Amiture per Dots Per Inch.

La storia del disco comincia all’indomani della pubblicazione del primo LP della formazione. Si tratta di “The Beach”, un vorticoso album synth-pop. Whitescarver e Goupil si incontrano dopo la pubblicazione dell’album per lavorare sugli arrangiamenti dei pezzi tratti da “The Beach” da portare nelle esibizioni dal vivo, ma cominciano a riarrangiare in studio alcuni dei brani. Con rinnovata sensibilità, cambiano vestito ed escono dalle logiche di una produzione prevalentemente elettronica lasciando spazio al sampling analogico, alle chitarre distorte, alla batteria garage, ad atmosfere post-punk, gotiche e industrial. È da qui che viene fuori la palette di suoni di “Mother Engine”: nostalgica, cupa, fumosa, fredda come camminare nella New York di Whitescarver e Goupil sferzati dal vento invernale.

La produzione accompagna la vocalità di Whitescarver con pesanti riverberi che bene si abbinano a delle percussioni garage. Certo la scelta non aiuta a rendere perfettamente comprensibili i testi, a volte offuscati dallo stile del cantato. La tendenza ad utilizzare la voce come puro suono riesce però a risultare comunque molto comunicativa: i guaiti strazianti (“Collector”, “American Flag”, “Rattle”) e il conturbante ansimare nel microfono (“Baby”) sono perfettamente modulati e gestiti con consapevolezza. Verrebbe da chiedersi cosa si perde dei testi. “Cocaine” descrive in maniera molto emotiva una relazione tossica (“he is cocaine/I love him, just like my father”).

“Baby” teletrasporta l’ascoltatore a Berlino per 2 minuti e 16 con delle sferzate elettroniche incredibilmente minimali, mentre racconta nuovamente di un rapporto malsano. “Dirty” parla con una certa dose di violenza di un complicato rapporto queer (“But does she know who you are? / You’re just like me/You wanna be a lady”). Nel complesso non tutto è udibile, ma in qualche modo il senso di ciascun pezzo arriva immediato.

Mother Engine

Tutto il disco è caratterizzato da una certa sporcatura low-fidelity. Il tessuto di suoni che si trova sotto lo strato di voce-chitarra-batteria ha una trama noise-pop e industrial. A volte risulta un po’ slegata da ciò che si trova in primo piano (“Collector”), ma in generale si sposa benissimo con la neo-psichedelia proposta da Goupil alla chitarra (“Glory”, “Porte Sosie”). A livello di produzione, sarebbe stato bello sentire dei bassi più profondi che avrebbero forse conferito ancora più profondità ad alcuni dei brani (“Law+Order”). In ogni caso, ciò che viene fuori è comunque un suono pieno, stratificato, ricco di texture diverse.

“Mother Engine” trasporta in uno spazio sotterraneo dove si fa festa, ma dove tutto è in bianco e nero. Al di là di gusti e considerazioni di qualunque tipo, è sempre bello assistere all’evoluzione artistica di un progetto quando questa è sentita e ponderata. Gli Amiture coltivano un’estetica precisa e personale e, forse, questo è l’importante.

/ 5
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Ty Segall: la recensione di “Three Bells”

  • Three Bells – Ty Segall
  • 26 Gennaio 2024
  • Drag City Inc.

Sembrano ormai lontani anni luce gli esordi garage, con lunghe e ripetute schitarrate rumorose. L’evoluzione verso un rock alternativo sofisticato, notevolmente influenzato dalla psichedelia di beatlesiana memoria, trova pieno compimento in “Three Bells”, un album maturo, completo che consacra una carriera già lunga di un artista non propriamente veterano, ma ormai tra i più influenti della scena alternative. Ty Segall è l’emblema di come un artista possa progredire nel tempo continuando a divertirsi: il suo essere scanzonato dei primi album non si è perso, ha subito una trasformazione, elevandosi ad un livello più alto, non per forza migliore, ma di certo a più ampio spettro.

Se già con i precedenti “Hello, Hi” e “Harmonizer” era facile notare una svolta sonora, quest’ultima opera segna un confine netto con ciò che è venuto prima, alzando notevolmente l’asticella per le produzioni future. Già con i tre singoli “Void”, con un’apertura degna di Steven Wilson, delle dissonanze alla Primus ed una totale rottura intorno alla metà, con echi alla Jethro Tull, l’acida “Eggman” e la beatlesiana “My Room”, si capisce la complessità dell’album e lo stravolgimento del sound precedente.

Sono ben quindici i brani per più di un’ora di musica, aperti dalla dolcezza iniziale di “The Bell” e conclusi dalla più enigmatica “What We Can Do”, dove l’eco psych sixties è veramente preponderante.

Veramente molte le perle di quest’album, a partire dalla più acida “I Hear”, con schitarrate dissonanti che si amalgamano al ritmo cadenzato si fondo, quasi un omaggio a Bowie, così come “My Best Friend”, dove il falsetto del poliedrico artista statunitense si frappone alla durezza delle chitarre. Degna di nota anche “Reflections”, la più ancorata al precedente post-punk, con un cantato influenzato nuovamente da McCartney e soci.

Circa a metà si arriva però al capolavoro, che si distacca da tutti gli altri pezzi, con una struttura blues, sempre di stampo psichedelico, che però sfocia nel new prog, dove emerge la splendida voce di Denée, consorte del musicista. Poco più di tre minuti sperimentali, ma in nessun tratto noiosi. L’album varrebbe l’ascolto anche solo per questo brano.

Più intricata e cupa, ma altrettanto armoniosa, “Watcher”, nella quale Ty Segall si erge a “osservatore, assassino della memoria”. Ma le vette più alte vengono toccate nuovamente con “Repetition”, ossessiva nella musica e nel testo quanto mai “ripetitivo”, e dalla successiva “To You”, dove la psichedelia raggiunge l’apice e tocca nuovamente il progressive rock, accompagnata da un testo teoricamente semplice, ma contorto nella pratica. Altro passaggio perfetto di un album che sfiora l’eccellenza.

Più semplice “Wait”, calma e distesa fino al primo minuto per poi lasciar spazio nuovamente ad un post-punk, che strizza l’occhio nuovamente al Duca Bianco.

La semplicità del testo della canzone dedicata alla moglie (con la semplice ripetizione del titolo, nonché nome della donna, per tutta la durata della traccia) non trova conferma nella musica e nella struttura, composta per gran parte del tempo da una jam di pregevole fattura. Una lettera d’amore quanto meno atipica, ma di sicuro apprezzata.

Si apre quindi definitivamente un nuovo capitolo della carriera del quasi quarantenne americano, in un percorso costellato da molti alti e pochi scivoloni. Ad un passo dalla perfezione, nella speranza che il prossimo step ci stupirà ancora di più.

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Sprints: La recensione di “Letter To Self”

  • Sprints – Letter To Self
  • 5 Gennaio 2024
  • ℗ City Slang

L’ondata di revival Post-Punk, che sembrava aver raggiunto il picco nel 2022, con artisti del calibro dei Fontaines D.C. non ha alcuna intenzione di eclissarsi. La dimostrazione è “Letter To Self”, il perfetto album di debutto degli “Sprints”. Con 11 tracce esplosive, il quartetto di Dublino, corona un percorso, segnato da ottimi EP e incredibili capacità nelle esibizioni dal vivo.

Sulla matrice alt-rock che traccia il profilo del disco, la band trova ampio spazio per sperimentare suoni che spaziano dal Garage-Punk al Noise-Rock, strizzando l’occhio a tratti distintivi della prima ondata Grunge. Questo uragano di suoni profondamente energici crea l’involucro perfetto per un LP che naviga a fondo in insicurezze e interrogativi esistenziali (Forse vivere è facile / Forse lo è anche morire). È come se, nel caos generato da suoni graffianti e atmosfere cupe, la band trovasse un luogo di pace per risolvere i propri problemi.

L’intero disco è nato dalle sole menti dei membri della band. O’Reilly, Callan, Chubb e McCann, si sono poi affidati al produttore Daniel Fox (Ryan Beatty, Gilla Band, Slow Hollows). 

Sprints – 'A Modern Job' EP review: Irish rockers grow their sound

Il sipario si apre con un susseguirsi di colpi di batteria, che scandiscono suoni ripetitivi di chitarra e voci cupe, inghiottite da atmosfere caotiche. “Ticking” non mostra il lato esplosivo della band per quasi tutta la sua durata, finche sul finale non emergono pattern pirotecnici a supporto di chitarre graffianti e linee di basso corpose. 

“Heavy”, uscita come singolo due giorni prima del disco, è ansiogena. “Non riesco a dormire / Riesco a malapena a respirare”, canta Karla, mentre le chitarre filtrate sferrano strumming incredibili. 

In “Cathedral” l’inquietudine prende forma in urla disperate della Chubb, mentre gli arrangiamenti virano verso connotazioni punk. In “Shaking Their Hands” i suoni si puliscono, e le voci si assottigliano. Sulle sfaccettature grunge di questa traccia, a dare la meglio è la sezione ritmica che guida passo per passo il resto della strumentazione, abbandonando i pattern delle tracce precedenti. “Mi aiuteresti a fermare le urla” urla Chubb, tra i tichettii generati dalle corde mutate delle chitarre in “Shadow of a Doubt”. L’intera traccia è un crescendo emotivo che sfocia in distorsioni e disperazione, prima di chiudersi come è iniziata. 

Ecco nuovamente sentori grunge, nella scelta dei suoni delle chitarre acustiche di “Can’t Get Enough of It”. Durano poco, appena il tempo di far entrare il resto della band. Nello strumming ripetitivo, ritornano alcuni concetti che la frontwoman aveva già esplorato nelle tracce precedenti. Se la strumentale placa, almeno per poco, quella sensazione di ansia che pervade l’intero disco, il testo fa l’opposto. “Non riesco a sognare / Non riesco a dormire / E non posso andare via” canta Karla. 

“Literary Mind” è più leggera, mentre “A Wreck (A Mess)”, torna potente come non mai, come se i quattro minuti e mezzo non fossero mai esistiti. Quello che emerge però, è che in quest’ultima parte del disco le atmosfere cupe iniziano a svanire lentamente lasciando spazio a melodie sgargianti e chitarre squillanti. 

Il disco si chiude con la title-track, che ritorna ad atmosfere iniziali, con voci a metà fra post-punk e spoken-word.

Non si può dire con esattezza che ruolo andrà a ricoprire fra i migliori dischi del 2024. Quello che si può però dire è che “Letter To Self” ha tutte le carte in regola per competere con le grandi uscite previste per quest’anno.

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Bar Italia: La recensione di “The Twits”

  • The Twits – Bar Italia
  • 3 Novembre 2023
  • ℗ Bar Italia / Matador Records

Il terzetto londinese è passato da schivare i riflettori ad attirare qualsiasi tipo di luce attorno a sé, nel giro di neanche un anno. A sei mesi dall’ultimo disco “Tracey Denim”, i Bar Italia ritornano con un altro disco, dal titolo “The Twits”, continuando a consolidare il successo in cui sono “incappati”. Ad oggi, il trio composto da Nina Cristante, Jezmi Tarik Fehmi e Sam Fenton, non è più un nome nel calderone del post-punk britannico. Oggi il gruppo ricopre un ruolo importante nella scena, e non solo in Inghilterra. Con il disco precedente, i Bar Italia, sono riusciti ad affermarsi anche oltre oceano, in particolare Los Angeles e New York, i due pilastri dell’alt-rock americano. Anche in Europa hanno riscosso un notevole successo e, strano ma vero, anche in Italia.

“The Twits” ingloba al suo interno una vasta quantità di concetti, idee e suoni. Il gruppo ha volutamente lasciato fuori soggetti esterni e, come per “Tracey Denim”, curano l’intero processo creativo del disco, dalla scrittura alla produzione, scegliendo di affiancarsi, come per il precedente disco, solo a Marta Salogni (Black Midi, Depeche Mode, Bjork), per la post produzione.

La band crea una miscela che va ben oltre il post-punk. Parte da suoni sporchi anni ’90, per poi virare su sonorità più squillanti, sezioni ritmiche velocizzate, alt-country e addirittura contaminazioni shoegaze. La palette sonora perfetta per un disco spettrale, cupo e rugginoso, che vaga in bilico fra frustrazioni e rimpianti. 

Ciò che è più incredibile in questo disco non è la vastità della palette sonora, ma il modo in cui ogni contaminazione riesce a trovare il suo spazio lungo le tredici tracce, senza mai apparire, salvo alcuni particolari, fuori luogo o “scollegato”.

/ 5
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A Certain Ratio: La Recensione di “1982”

  • A Certain Ratio – 1982
  • 31 Marzo 2023
  • ℗ A Certain Ratio / Mute Artist

La band post-punk di Manchester torna con “1982”, tredicesimo lavoro in studio, che fa capire subito la sua struttura. E si, perché 1982 non è solo il titolo del disco. Lungo le 10 tracce di questo LP ci ritroviamo in ambienti Funk con sprazzi di Disco parecchio retrò. 

La produzione e il songwriting di questo disco sono curati da tutti i componenti.

L’album ha un bel suono, è brillante, estremamente ritmato, mescola i pattern di chitarra funk a imponenti sezioni di tromba, ma la band pioniera del funk-punk non riesce ad ottenere un buon risultato, non quello sperato almeno.

Un groove di charleston e basso introduce la chitarra funky e i synth sporchi di “Samo”, prima traccia di questo disco scritta da Donald Johnson e Jeremy Kerr. “Jean Mitchell e Andy avevano ragione, voi madri eravate troppo tese”. “Waiting on a Train”, che vede il featuring con Ellen Beth Abdi e Chunky è più promettente rispetto alla traccia precedente. La canzone mette su un caldo groove di basso e batteria, i suoni freddi del Fender Rhodes e rumori di synth, vagando fuori dai confini del funk dentro quelli dell’Hip/Hop. Il rap è un elemento ridondante in questo disco. Compare anche nella title track “1982” nella scelta dei suoni e dei pattern di batteria. La traccia non presenta un testo chiaro e le uniche voci che compaiono o sono costituite da vocalizzi o sono sviluppate attraverso un vocoder. 

Per la stessa legge delle due tracce precedenti, il break iniziale di batteria di “A Trip in Hulme”, ricorda vagamente il campione di una famosa canzone dei Run DMC, arricchito da una sezione di percussioni esotiche e da pattern di basso funk. Il testo non è complesso, ed è principalmente costituito da una serie di frasi ripetute “Ho visto te / Ho visto me”. “Tombo in M3” è la canzone più sperimentale. Introduce suoni al limite fra uno stile horror alla Carpenter e uno stile gotico alla Hitchcock, che si fondono a percussioni della world music.

La chitarra di Martin Moscrop suona un pattrn funk da manuale in “Constant Curve”, che vede il secondo featuring del disco, ancora una volta con Ellen Beth Abdi, che compare tre volte nella tracklist e Empereor Machine. È forse la traccia più sviluppata a livello di scrittura, ma non porta da nessuna parte e suona vecchia già dai primi secondi.

“Afro Dizzy”, ultimo feat. Con la Abdi prende dei colori R&B, su ritmiche Afro. “Puoi vedere come mi muovo?” canta la Abdi, mentre le linee melodiche di clarinetto preparano la traccia a piccoli assolo di tromba. “Holy Smoke” riesce a suonare ancora più vecchia di Constant Curve, mentre in Tier3 ci troviamo in bilico fra i sample percussivi di una 808 e una sezione ritmica più morbida del batterista, il piano elettrico prende quasi le sembianze di un organo. Nella traccia, completamente strumentale, si mescolano flauti, trombe e micro assolo di sintetizzatore. 

L’album si chiude con “Ballad od ACR”. La chitarra cruncy di Moscrop sfuma in una morbida sezione jazz, per poi tornare senza mai togliere nulla agli strati di ottoni, mentre la band affronta una grossa crisi.

Voto: 6/10

/ 5
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