Prog Rock

The Pineapple Thief: la recensione di “It Leads To This”

  • It Leads To This – The Pineapple Thief
  • 9 Febbraio 2024
  • Kscope

Avete presente quando aspettate ardentemente qualcosa e poi, una volta tra le mani, rimanete con quel mezzo sorriso stampato sul volto? Questo è quanto accade mettendosi all’ascolto dell’ultima creatura partorita da Bruce Soord e soci. Sembra quasi di ascoltare una compilation di vecchi brani, per carità ben suonati, come sempre, ma niente che trasformi l’espressione in gioia pura. Un approccio conservativo, una terra già esplorata, un percorso sicuro, sono le frasi che meglio racchiudono la strada intrapresa dai Pineapple Thief nel comporre l’ultimo “It Leads To This”. Da musicisti di questo calibro è lecito aspettarsi ben altro che la semplice sufficienza, ma andiamo per ordine ed analizziamo l’album che segna i venticinque anni di carriera della band.

the pineapple thief

L’apertura affidata a “Put It Right” è tutt’altro che memorabile: cinque minuti e mezzo senza infamia e senza lode, che accompagnano l’ascoltatore verso lidi già percorsi e, forse, nemmeno troppo cari.

Con “Rubicon” ci si trova di fronte ad un approccio più deciso, una leggera svolta neo prog rock che ha da sempre accompagnato la band. Niente di trascendentale, ma comunque molti gradini sopra la precedente traccia.

“What you see is no surprise” recita una frase della canzone che ha dato il titolo all’album. Mai sentenza fu più azzeccata. Basterebbero queste poche parole per descrivere l’intera opera, così come questo pezzo. Già sentito, ben fatto ma niente di nuovo.

Si passa poi alla seguente “The Frost”, ma il canovaccio rimane invariato: addirittura qui torniamo più vicini alla banalità della traccia di apertura piuttosto che alle tre successive.

Giunti a metà troviamo i primi squilli, dove il supergruppo mette a segna una doppietta degna di nota. “All That’s Left” e “Now It’s Yours” portano sonorità nettamente più ricercate, mostrando l’estro della band.

L’apice però viene raggiunto con “Every Trace Of Us”, con i loro elementi tipici mescolati con grande sapienza. Questa canzone vince senza dubbio la palma di migliore dell’album, anche se la concorrenza era veramente bassa.

L’ultima “To Forget” sembra quasi un invito all’ascoltatore: piatta, con pochi sussulti degni di nota, quasi a riprendere l’incipit iniziale. Non un totale disastro, ma nemmeno lontanamente vicina al capolavoro.

Insomma, un disco senza né arte né parte, di cui si poteva fare sicuramente a meno ma che non grida nemmeno allo scandalo. Un passo indietro di una band di grandissimo valore, che non ne scalfisce l’immagine, ma sembra voglia fungere da transizione (si spera) verso nuove sonorità, non per forza migliori o peggiori, ma di certo diverse.

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From Flowers To Flies: la recensione di “We Built This Machine”

  • We Built This Machine – From Flowers To Flies
  • 19 Gennaio 2024
  • Broken Windmill Music

Oscurità nei testi, ecletticità ed eleganza nell’esecuzione strumentale, è ciò che emerge nella storia in dieci tracce, con l’aggiunta di un prologo e di un epilogo, raccontata dai From Flowers To Flies nel loro disco di debutto. L’intera opera è intrisa da una mistione di chamber pop e prog rock, sempre molto ben bilanciata ed eseguita alla perfezione.

L’album si apre con la vigorosa “Signs”, dove gli accenti degli ottoni si intrecciano con le vibranti melodie chitarristiche e il ritmo incalzante di basso e chitarra, evidenziando le abilità dinamiche della band. Il breve prologo lascia spazio subito ad un brano dalle due facce, più ritmata, quasi tribale, la prima parte, maggiormente riflessiva e cupa la seconda.

Il singolo di debutto, “Fog”, intriga con la sua sobria eleganza iniziale, sfociando poi in un crescendo climatico avvincente. Gli strumenti si fondono in un intreccio melodico coinvolgente, mentre le voci narrano un senso di immobilità, presto sovrastato da una distorsione graffiante che aggiunge nuova profondità alla traccia.

“Powerlines” irradia un’energia cupa e fragorosa, con un basso post-punk pulsante che si fonde con una pesante distorsione chitarristica e sprazzi di ottone, evocando suggestioni estetiche che richiamano alla mente un incrocio tra Madness e Black Midi. Dopo la poetica strumentale “We Are What We Pretend To Be”, si torna ad atmosfere più angosciose con “The Game”, con echi non troppo lontani dai Porcupine Tree. Qui i synth e il basso guidano in modo avvincente la sequenza vocale, con l’intervento preciso e perfetto della chitarra da metà traccia.

L’intermezzo di poco più di due minuti della quasi totalmente strumentale “38.9°N, 77.0°W” apre la strada in modo

“Glide” presenta un approccio rock più groove e funky, evitando la foga distorsiva a favore di un coinvolgimento, esaltato dalla splendida voce femminile della band. Le liriche approfondiscono i temi dell’ansia e del tumulto moderno, mentre “Contagion” si fa eco di un futuro incerto, dove ci si interroga su quanti danni si possano infliggere, in un prog rock di stampo seventies, con arpeggi di chitarra e organi che si rispondono in un dialogo continuo.

La successiva “Not The Way You Want” è sicuramente la più scanzonata dell’intera opera, con melodie aperte e cori armoniosi.

Dopo la lunga strumentale e atmosferica “Vamp Until Cue… Then Fade”, con giochi di chitarra e ottoni, l’album si chiude con il consumante epilogo, che abbraccia un nostalgico synth-pop e un senso di inquieto idealismo new-wave.

Il finale è un trionfo dirompente, che conclude in modo impeccabile un album d’esordio che fa ben sperare e aumenta la curiosità nei confronti di una band ancora a tratti acerba, ma pronta a sbocciare con un percorso inverso rispetto al loro nome.

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Glass Beach: la recensione di “plastic death”

A cinque anni dal debutto, i glass beach ritornano con il loro secondo album “plastic death”. Il quartetto di Los Angeles mantiene l’attitudine midwest-emo e i suoni math, art rock, progressive, elettronici e psichedelici che già distinguevano il loro primo disco, ma arricchiscono il proprio stile in senso ancora più massimalista, jazz e prog.

L’esperienza di ascolto dell’lp nella sua interezza ha il sapore di un giro sulle montagne russe: un percorso colmo di scossoni in cui però ci si imbarca senza il rischio di farsi male. Dinamismo, ecletticità e sonorità a volte angoscianti (“whalefall”, “slip under the door”, “abyss angel”) sono gestiti con una composizione attenta e controllata che non lascia mai l’ascoltatore in balìa del turbinio di suoni. I testi, a tratti quasi mitigati dalla musica, risentono dell’influenza di Carl Jung, autore che sembra aver solleticato l’immaginazione di McClendon.

Non mancano infatti momenti di accettazione estetica ed esistenziale del brutto e del degradato, presente tanto nel mondo esterno quanto nella dimensione interiore di chi parla (“all the burned meat/all the blood in the trees/i am burning with the blood in the trees” – “abyss angel”). Con queste accortezze, i glass beach consegnano al pubblico un immaginario composto di enigmatiche visioni di decadenza, riferimenti culturali disparati e pensieri cristallini in cui potersi ritrovare.

Il disco ha un forte debito nei confronti della scena midwest-emo – dagli American Football agli Origami Angel – ma anche nei confronti di Thom Yorke (“the killer”) e dei Radiohead di “In Rainbows”, così come Yes, Rush e altri grandi nomi del rock progressivo.

Ciò che sorprende all’ascolto è la coerenza con cui generi e influenze vengono combinati. Frutto di tre anni di preparazione, “plastic death” riporta elementi math pop ma vi ricama sopra con intelligenza e creatività. Si pensi a “whalefall”, che si avvale del suono della marimba impiantato su una ritmica molto dinamica e suoni elettronici per condurre con grande immediatezza in un ambiente subacqueo e vagamente inquietante. Si pensi a “coelacanth”, l’opening track dall’inconsueta durata di 6 minuti: un incalzante valzer in 12/8 al pianoforte dalle tinte dolcissime e melanconiche a cui viene progressivamente aggiunta complessità e tensione, fino al vorticoso crescendo post hardcore in cui si stratificano percussioni sempre più presenti, fraseggi math alla chitarra, suoni elettronici e la voce emotivamente intensa di J. McClendon.

La palette di generi di riferimento del gruppo viene arricchita da inediti elementi metal nell’arrangiamento della più dura “slip under the door”, brano che però evolve verso la psichedelia grazie ai riverberi e alla melodia ipnotica. In generale, la gestione della ritmica è oggetto di grande attenzione compositiva e riesce a dare carattere e colore a ciascuna delle tracce. Del resto, il ritmo sincopato nei primi secondi di “commatose”, quasi in chiusura del disco, arriva di sorpresa e rappresenta una sottotrama che contribuisce a definire nitidamente l’identità del pezzo, prima che questo venga stravolto da un potente ed epico outro.

Con lo spirito che spesso contraddistingue gli esordienti più interessanti, J McClendon, Layne Smith, Jonas Newhouse e William White sembrano prima di tutto ascoltatori avidi e onnivori, e solo dopo compositori. Il processo creativo dietro al disco è durato tre anni fatti di ascolti, jam session, registrazioni DIY e continui ritocchi delle tracce. Il sound un po’ grezzo e casalingo che emerge di tanto in tanto – tutte le tracce sono state registrate nella casa in cui il gruppo ha convissuto nell’immediato post-Covid – risulta assolutamente perdonabile grazie all’effetto finale lievemente patinato e analogico, ma soprattutto grazie alle rifiniture di Will Yip in fase di masterizzazione e al successivo remix di tutti i brani svolto da un Classic J ai limiti del perfezionismo.

“plastic death” è un album da ascoltare, McClendon è un compositore da tenere d’occhio, glass beach è un progetto che ha futuro. Dopo un primo lp introspettivo e un secondo teso alla riflessione culturale collegata all’immaginario di una “morte di plastica”, viene da chiedersi quale direzione prenderà il prossimo e quali (nuovi?) suoni verranno selezionati.

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Tuesday Music Revival: Pink Floyd – “The Dark Side of The Moon”

  • Pink Floyd – The Dark Side of The Moon
  • 1 Marzo 1973
  • ℗ Parlophone Records Ltd. / Warner Music Group Company

Enigmaticità, abbandono alla pazzia, lo scorrere inesorabile del tempo. Vita, crescita e morte di uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi. “Dark Side” è stato l’ottavo album in studio del gruppo britannico ed il loro primo concept album, unico sotto tutti i punti di vista, a partire dalla raffigurazione del prisma che frammenta il fascio di luce che lo attraversa dividendolo in tutti i colori dell’arcobaleno, passando per le sperimentazioni sonore, fino ad arrivare agli argomenti trattati. Uno dei punti forse che rende questo disco così affascinante per le persone vive proprio dentro gli argomenti che i Pink Floyd vi hanno lasciato incisi sopra: Lo scorrere della vita, il percorso fisico e mentale di ogni individuo, l’essere parte di una società che corre troppo rispetto alle persone, la paura di impazzire ed infine, la morte. Quest’ultima viene descritta come una cosa positiva, contrariamente a quello che si può pensare. Lo scorrere del tempo, con tutti i suoi lati negativi e positivi (forse), ha anche un’altra incidenza su questo album, ne modella il significato in base all’età dell’ascoltatore. Ogni persona percepisce delle differenze nelle canzoni di questo disco, perché esso non è nient’altro che lo specchio del tempo che ognuno di noi ha passato su questo pianeta e le esperienze che ha vissuto.   

Dal punto di vista musicale, “The Dark Side Of The Moon” è molto più fruibile, ad eccezione di “On The Run” probabilmente, rispetto a gran parte dei loro lavori precedenti, come “Atom Heart Mother” o “Meddle”. Il quartetto di Londra abbandona gli arrangiamenti infiniti, concentrandosi su tracce più corte e tipi diversi di sperimentazioni sonore, generando un tipo di musica che fa vivere ad ogni ascoltatore il suo viaggio dentro la propria mente, fra le incertezze del futuro e la nostra inevitabile morte, unica cosa che accomuna davvero tutti gli esseri umani. Le sessioni di registrazione si sono tenute agli Abbey Road Studios tra Maggio 1972 e Febbraio 1973. Il disco venne prodotto da loro quattro, con l’aiuto di Alan Parsons, che diede degli spunti per alcune tracce. 

“Speak To Me” getta le basi per tutto ciò che verrà dopo. La dissolvenza in ingresso introduce un battito cardiaco, seguito da un insieme di effetti sovrapposti: urla, risate isteriche tratti di discorsi riguardanti la pazzia. L’apice della traccia arriva un attimo prima della sua fine, con la strillante voce di Clare Torry, che avrà un significato più forte in “The Great Gig In the Sky”. “Breath” è una canzone più leggera, costituita da morbide linee di basso e sezioni ritmiche, che lasciano lo spazio alle sperimentazioni di Gilmour, tra chitarre stracolme di effetti e lap steel. Gilmour da anche la voce a questa traccia, nel testo sono contenuti tutti i concetti che verranno approfonditi nelle tracce successive. Quello sicuramente che colpisce di più riguarda la metafora del coniglio che a ritmi frenetici scava un buco e, una volta terminato, si precipita a scavarne un secondo e così via per il resto della sua vita. “On The Run” comincia con ticchettii frenetici, e un suono che ricorda vagamente quello di un treno a vapore, una voce, sembra quella di un’operatrice di un aeroporto recita “Vivi per oggi / il domani è andato”, la tensione crescente culmina con il suono di un aereo che si schianta.

“Time” vede il contributo di Alan Parsons nei suoni di orologi e allarmi iniziali, d’altronde, come può una canzone che si chiama Time non avere dei suoni di orologio. L’atmosfera di questa canzone è cupa, anche in questo caso c’è una tensione crescente che culmina in due parti, la prima con l’allarme e il suono delle sveglie, la seconda con l’ingresso in scena di tutti gli strumenti, preceduto da una serie di fill di rototom di Nick Mason. Pattern di chitarra blues nascondono un testo sullo scorrere inevitabile del tempo. Il tempo viene paragonato ad una canzone, che ha un inizio ed una fine. Un altro concetto, che diventerà poi molto ridondante nella discografia dei Pink Floyd riguarda la “Quiet Desperation”. In questa canzone è come se Gilmour dicesse che l’unico modo che conosce per sopravvivere all’accorciarsi del tempo a disposizione man mano che invecchiamo, senza diventare pazzi è “aggrapparsi alla quiete della disperazione”.  “Time” torna cupa verso la fine, per andare ad incontrare la traccia successiva in una leggera melodia di pianoforte. “The Great Gig In The Sky” è sicuramente una delle canzoni più criptiche della band. Nasce da una progressione di accordi di Richard Wright, la sezione strumentale è piuttosto semplice, per lasciar spazio alla voce di Clare Torry, che cantando solamente una specie di lamento, trasforma la canzone in una montagna russa emotiva che viaggia attraverso la vita e la salute mentale umana. Il principale significato della canzone riguarda principalmente il rapporto delle persone con la morte, descritta quasi come una cosa buona. “Non sono spaventato di morire / non mi dispiace / Perché dovrei essere spaventato di morire? / Non c’è nessun motivo, devi andartene prima o poi”. “Money” affronta il modo in cui il denaro, che permette al mondo di andare avanti, ma al tempo stesso crea non poche problematiche, cambia il modo di essere delle persone, rendendole più ricche, più povere (moralmente), rendendole migliori o peggiori, dare la capacitò di fare cose inimmaginabili, sia in senso positivo che negativo. Uno dei punti fondamentali di questo testo è: “Money, get away! […] Money, get back!”. È un principio legato al fatto che, chi ha molti soldi tende a spenderli, come se volesse allontanarli, ma quando poi quei soldi non ci sono più si aspetta con ansia che ritornino da noi. Money è la prima canzone della seconda metà di “Dark Side”, galleggia su linee melodiche blues, partendo dall’inconfondibile giro di basso fino ad arrivare alla scintillante chitarra di Gilmour, che qui crea uno degli assoli più conosciuti della storia del rock, fino poi al Sax di Dick Parry.

“Us and Them” è probabilmente la canzone migliore dell’album. Il tema principale è la guerra, che diventerà sempre presente nella discografia futura della band. C’è anche l’incapacità dell’uomo di altre prospettive, diverse dal tutto bianco o tutto nero. Il ritmo lento di piano e batteria lascia posto a una malinconica linea di sassofono, voci echeggianti e arpeggi di chitarra. La tensione aumenta ad ogni ritornello, fino a scaricarsi in uno straziante assolo di sax. “Any Colour You Like” è completamente strumentale, inizia con un synth psichedelico, proseguendo in pattern di chitarra funky e l’eco di un organo.  Dopo l’allontanamento di Syd Barret, vecchio frontman, a causa delle problematiche legate alla sua salute mentale, il gruppo ha dovuto fare i conti con la sua figura che comunque non riuscivano ad allontanare dalle canzoni. Riusciranno a “dire addio” a Syd nell’album successivo, “Whish You Were Here”. A Syd è ispirata la penultima traccia di questo disco. “Brain Damage” vede la luce per la prima volta durante le sessioni di registrazione di Meddle. Nella canzone sono contenuti principalmente ricordi di infanzia di Roger Waters e momenti riguardanti l’ultimo periodo di Syd nei Pink Floyd. In questa canzone compare per la prima volta, fra i potenti vocalizzi di Clare Torry e un mix di tutti gli strumenti precedentemente usati, il titolo dell’album. Waters e Gilmour, che cantano all’unisono, confidano a quello che potrebbe essere Syd, che un giorno si incontreranno nuovamente e succederà nella parte scura della luna, quella impossibile da vedere, per noi sulla terra.

L’album si chiude con “Eclipse”. La canzone è un elenco di tutto quello che ogni persona può vedere, amare, comprare, dire, creare, odiare… e come in realtà tutto ciò, così come le persone stesse, sia piccolo ed insignificante. La metafora del sole eclissato dalla luna è geniale. (Tutte le cose elencate in precedenza passerebbero in ultimo piano nel momento in cui la luce del sole dovesse smettere di illuminare la terra, poiché la vita stessa smetterebbe di esistere). La canzone si conclude con una frase che richiama la traccia precedente: “Non c’è nessun lato oscuro della luna”. Poi un battito cardiaco che si dissolve, ed infine, la morte.

Voto: 10/10

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