Progressive Rock

The Smile: la recensione di “Wall of Eyes”

  • Wall of Eyes – The Smile
  • 26 Gennaio 2024
  • XL Recordings Ltd

Dove Thom Yorke mette mano, difficilmente fuoriesce qualcosa di anonimo. Il suo estro non lascia indifferente neppure l’ascoltatore più distratto. Risulta pertanto inevitabile il confronto e l’eco dei Radiohead, anche per la presenza all’interno del gruppo di Jonny Greenwood, ma l’eleganza nel tocco di Tom Skinner conferisce ai The Smile una sonorità più personale. Ed ecco che da questo connubio nasce un progetto a più ampio respiro, che trova un ulteriore step di crescita in “Wall of Eyes”, dopo un esordio interessante ma al contempo incompiuto. Possiamo anticipare che dall’infanzia iniziale di “A Light for Attracting Attention” siamo giunti ad una piena adolescenza, con un carattere in via di definizione, ma ancora non completo.

L’album si apre con una accoppiata rilassata e sospesa, formata dal brano eponimo e da “Teleharmonic”, per poi passare a due delle gemme di questo scrigno psichedelico: “Read The Room” e “Under Our Pillows” introducono il prog in una band capace di districarsi nei generi musicali con pregevole disinvoltura.

La successiva “Friend of a Friend” è una ballata che rimanda molto allo storico gruppo di Yorke e soci, come sonorità e struttura, così come la seguente “I Quit”, troppo piatta e prevedibile, quasi un passo indietro rispetto al resto delle tracce.

Le due facce di “Bending Hectic” catturano maggiormente l’attenzione: dolce, poetica ed eterea per poco più di cinque minuti; stridula, dura e oscura fino alla fine. “Stiamo arrivando a una curva, sbandando al tornante, una discesa a picco sul fianco di una montagna italiana […] Nonostante questi fendenti, nonostante queste frecce, mi costringo a girare, girare!” con queste parole viene spiegato al meglio il “cambio di direzione” del brano, probabilmente il più rappresentativo e meglio riuscito dell’attuale carriera della band.

La conclusione è riservata ad un altro pezzo lento, dilatato, ma senza particolari picchi. Non un ulteriore passo falso, ma nemmeno memorabile.

Ciò che emerge da questo lavoro è la ricerca di un proprio sound definito e definitivo, per superare la sopra citata adolescenza e giungere ad una piena maturazione.

Comunque, nonostante una fatica generale nel decollo, il volo risulta gradevole, senza scossoni, con un atterraggio lieve. Ma con un pilota di questo calibro ci aspettiamo un volo stellare, capace di regalarci emozioni nuove ad ogni passaggio.

/ 5
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Psychedelic Porn Crumpets: la recensione di “Fronzoli”

  • Fronzoli – Psychedelic Porn Crumpets
  • 10 Novembre 2023
  • What Reality? Records

Avete presente gli Arctic Monkeys, soprattutto negli scanzonati esordi? Aggiungete una ricca dose di follia, un abbondante manciata di psichedelia, un pizzico di prog rock, il tutto condito con un ricco fuzz, ed otterrete l’ultima fatica del collettivo australiano. “Fronzoli” tende a maturare ancora di più il sound dei Psychedelic Porn Crumpets, riuscendo a confermare e migliorare quanto di buono fatto negli ormai dieci anni di carriera.

In questo seppur breve periodo il quintetto ha mostrato una certa prolificità, confermata dai sei album sfornati, con una media di più di uno ogni due anni. Tale abbondanza è rafforzata e avvalorata di lavori non mainstream provenienti dal continente Oceanico, a partire da Tame Impala, ma ancor più con gli eclettici King Gizzard & the Lizard Wizard, i quali hanno sublimato tale concetto raggiungendo quota ventincinque dal 2010. Queste ultime due band, insieme ai già citati indie britannici, hanno sicuramente influenzato il sound delle Focaccine Psichedeliche Porno, senza mai urlare al plagio.

La prima “Nootmare (K.I.L.L.I.N.G) Meow”, con un intro progressivo, introduce la voce di McEwan, esageratamente di Turner memoria, in alcuni passaggi quasi a volerla scimmiottare. Il brano risulta molto godibile, nei suoi intrecci barocchi, con una conclusione inaspettata negli ultimi dieci secondi (ascoltare per credere). La successiva “(I’m A Kadaver) Alakazam” segue la falsariga precedente, abituando l’ascoltatore a tali sonorità, con suoni di pregevole fattura.

Più cadenzata, con note acide e psichedeliche provenienti dai lontani anni Sessanta (un omaggio ai Beatles?), la traccia “Dilemma Us From Evil”, con i suoi tre minuti che scorrono senza intoppi. La “rilassatezza” prosegue ed aumenta con la seguente “Cpt. Gravity Mouse Welcome”, ulteriore eco dei mai dimenticati Sixties.

Si passa senza preavviso ad un hard rock eseguito magistralmente in “All Aboard The S.S. Sinker”, introdotto e concluso da spezzoni di dirette radiofoniche vintage.

A confermare ulteriormente l’ecletticità della band ci pensa “Hot! Heat! Hot! Heat!”, una più moderna punk song, piuttosto “storta” nella sua composizione. Di certo il pezzo maggiormente d’impatto nei live e probabilmente il più riuscito dell’intero album.

Con “Sierra Nevada” si sale su un ottovolante musicale, che a tratti rimanda agli Smashing Pumpkins di “Zero”, con echi dei più moderni, ma non per sonorità, Claypool Lennon Delirium. Una traccia granitica, solida e acida al contempo, che precede l’acustica breve, dolce ed intima “Illusions of Grandeur”, in cui si può apprezzare maggiormente la splendida voce di McEwan.

Dopo i primi trenta secondi senza senso, “Pillhouse (Papa Moonshine)” irrompe con un giro che rimanda molto a Bellamy e soci, completando il giro di citazioni e di generi toccati in questo mastodontico lavoro. L’ultima e più scanzonata “Mr. & Mrs Misanthrope” ci riporta invece ad un easy listening, soprattutto nella parte iniziale, con punte eccelse di prog e psichedelia ed un testo incalzante per metà brano ed enigmatico e sospeso sul finire.

Insomma, un’evoluzione quella dei cinque ragazzi provenienti dal più lontano luogo rispetto a noi europei. Un’evoluzione costante. Mai semplice, mai banale. Forse a tratti già sentita, ma mai copiata. Lunga vita all’alternative australiano.

/ 5
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The Mercury Tree: La recensione di “Self Similar”

  • Self Similar – The Mercury Tree
  • 7 Settembre 2023
  • ℗ Self Published

Alieno è tutto ciò che risulta estraneo allo standard. Spesso può spaventare, risultare troppo distante da ciò al quale siamo abituati. Nella musica tale aggettivo viene spesso associato alla sperimentazione e all’innovazione, in alcuni casi portata anche all’estremo. Nello specifico, ultimamente molte band occidentali hanno approcciato alla xenarmonia, un’accordatura diversa rispetto alle canoniche dodici note.

In questo universo i Mercury Tree hanno trovato il loro sound: gli strumenti raggiungono così molte più suddivisioni rispetto ai dodici semitoni che collegano un DO all’ottava successiva. Senza entrare troppo in tecnicismi inutili, il suono che fuoriesce è pertanto alieno, enigmatico, talvolta di difficile ascolto, ma raggiunge un’armonia inaspettata che ingloba l’ascoltatore in una spirale dolcemente contorta.

A partire dalla voce, che spesso ricorda Geddy Lee dei Rush a tratti posseduto, dalle prime note di “Grown Apart” sono chiari i riferimenti al Re Cremisi, seppur più astrusi, così come gli eco non troppo lontani di altri capisaldi, quali Tool, in particolar modo in “Similar Self”.

Proseguendo, si ritrova Steven Wilson e soci in “Binary”, i dimenticati ai più Oceansize nella title track, dove subentra prepotentemente la voce dell’ospite di eccezione Gabriel Lucas Riccio. Si arriva poi alla dura e granitica “Stay The Corpse”, dove la psichedelia, il grunge e il metal si fondono in un unico sontuoso brano.

L’album si conclude con la coppia formata da “Dark Triad” e “After The Incident”, che consacrano l’album, portando l’ascoltatore in poco meno di diciassette minuti tra accenni iniziali ai Genesis, a nuovi intrecci di Frippiana memoria, fino ad una conclusione che strizza l’occhio ad un genio come Tom Yorke. Il tutto condito da tempi dispari e poliritmie, come nella splendida “Recursed Images” impreziosita da strumenti meno usuali rispetto a quelli suonati dal terzetto di Portland, quali dulcimer, salterio e tongue drum, pregevolmente eseguiti dall’eclettico Damon Waitkus dei Jack O’ The Clock. Rimandi, ma mai troppo accentuati, che permettono di godere di sonorità familiari senza scadere in banali plagi.

Un caleidoscopio di suoni che trova nel math rock la base di partenza, ma si arricchisce di sonorità psichedeliche, tribali e, perché no, progressive metal. Queste musiche variopinte sono accompagnate da testi criptici, che parlano di trasformazione, sogni, “morti viventi”, alternative al binarismo della vita, con un conclusivo “Sono sveglio” che lascia ben sperare.

Chi conosce la band non può non trovare un’evoluzione negli anni, a partire dagli albori dell’omonimo “The Mercury Tree”, più oscuro ma al contempo fruibile, passando per “Pterodactyls”, dove si inizia ad ascoltare un primo avvicinamento alla sperimentazione, accentuata nei successivi “Freeze In Phantom Form” e “Countenance”, ed infine sublimata con le due perle antecedenti quest’ultimo lavoro, ovvero “Permutations” e “Spidermilk”. Con “Self Similar” il trio statunitense ha alzato ulteriormente l’asticella, permettendoci di gustare un’altra sfaccettatura del loro mondo alieno, ma magnificamente armonico.

/ 5
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