Radiohead

Il Mellotron: Genesi del primo campionatore, dall’Avanguardia all’Età Moderna

Girando per i social, i blog del settore e seguendo alcune interviste sulle radio è sempre più evidente la spaccatura che si sta creando nell’industria musicale, fra chi è strettamente convinto che ad oggi il fare musica sta diventando un concetto mediocre (“Fanno tutti musica col computer”) e chi invece considera il progresso tecnologico nella musica, un buon mezzo per creare ottimi prodotti in un modo semplicemente diverso. Dati alla mano, non si può non sposare il secondo punto di vista. La storia del Mellotron è soltanto una delle tante conferme. 

Il Mellotron è uno strumento musicale elettro-meccanico che, dagli anni ’60, periodo in cui è stato messo in commercio, ha rivoluzionato il mondo della musica. Il suo punto forte non era solo quello di avere un suono unico, ma la sua capacità di poter riprodurre il suono di vari strumenti pre-registrati. Andando avanti in questo approfondimento, scopriremo l’evoluzione del Mellotron, dagli anni ’60 fino ai giorni nostri. 

Le Origini

Il Mellotron affonda le sue radici all’alba degli anni ’60, ed è un’evoluzione del Chamberlin, uno strumento elettro-meccanico sviluppato negli anni ’50 da Harry Chamberlin negli Stati Uniti. Una delle figure chiave nello sviluppo dello strumento è stata senza dubbio Robert Fripp (Il fondatore dei King Crimson), che acquistò da Chamberlin i diritti sulla produzione e fondò la Bradmatic Ltd. Fu così che, nel 1963, l’azienda lanciò il primo modello di Mellotron, il Mark I. 

Mellotron
Prima Versione del Mellotron

Lo strumento si basava sull’utilizzo di suoni pre-registrati di strumenti come archi, flauti e cori, che venivano incisi su nastri magnetici. Ogni tasto del Mellotron attivava un piccolo nastro su cui scorreva una testina in grado di riprodurre il suono desiderato. Fu un successo incredibile, poiché il Mark I era sinonimo di semplicità. Da quel momento in poi, ogni musicista poteva avere una gamma di suoni orchestrali in uno spazio relativamente ridotto, senza dover scomodare un’intera orchestra.

L’Età d’Oro: Gli Anni ’60 e ‘70

Complice le rivoluzioni musicali sul finire degli anni ’60, la psichedelia e il rock progressivo, il Mellotron divenne il fiore all’occhiello delle più importanti band dell’epoca. I Moody Blues, i King Crimson e più tardi i Rolling Stones adottarono lo strumento, contribuendo a definirne il suono caratteristico. C’è però forse un punto di svolta più visibile, ed è quello di “Strawberry Fields Forever” dei Beatles. Il flauto riprodotto dal Mark I nell’intro della canzone, fu uno degli esempi più celebri dell’utilizzo di questo strumento. 

John Lennon suona il Mark I (anni 60′)

Influenze del Mellotron nel Rock Progressivo

Il Mellotron divenne un elemento chiave del rock progressivo, un genere musicale che cercava di espandere i confini del rock tradizionale incorporando elementi della musica classica, jazz e avanguardia. Band come i Genesis, gli Yes e più tardi i Pink Floyd sfruttarono le capacità dello strumento per creare strutture sonore complesse e stratificate. Nel caso dei Genesis, ad esempio, Tony Banks utilizzava il Mellotron per dare profondità e atmosfere alle composizioni. Per gli Yes invece, ricopriva una carica molto più importante all’interno degli arrangiamenti. 

Declino e Riscoperta

Con la digitalizzazione, l’evoluzione del modo di fare musica e i sintetizzatori negli anni ’80, il Mellotron perse gradualmente il suo posto di rilievo. I nuovi strumenti digitali offrivano una maggiore versatilità, oltre che un’elevata facilità d’uso, portando i musicisti a preferirli al Mellotron. Nonostante tutto, la nostalgia per il suono dello strumento non si è mai veramente spenta. Gli anni ’80 fecero salire alla ribalta synths come il Fairlight CMI e il Synclavier, che offrivano una gamma più alta di suoni e una precisione maggiore nel campionamento. Questi strumenti permisero ai musicisti di esplorare nuove sonorità, di ridurre la dipendenza di strumenti elettro-meccanici complessi e di gran lunga più costosi. Nonostante tutto, il calore, l’imperfezione e il fascino del Mellotron rimasero profondamente radicati nel modo di fare musica di alcuni musicisti.

Revival

Tra gli anni ’90 e 2000, lo strumento tornò nuovamente sotto gli occhi degli addetti ai lavori in campo musicale. Il Mellotron venne aggiornato, furono inseriti nuovi suoni e, piano piano, ci fu una digitalizzazione dello strumento stesso. In Inghilterra, durante il movimento ‘Cool Britannia’, negli anni ’90, band come Oasis e Radiohead, portarono nuovamente il Mellotron alla ribalta, in contemporanea alla rinascita di strumenti analogici e del vinile. 

Johnny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, in studio con una delle prime versioni dello strumento

Il Mellotron Oggi

Oggi, il Mellotron è considerato un pezzo di storia della musica e continua ad essere utilizzato in studio e dal vivo. La Streetly Electronics, una delle aziende originali produttrici del Mellotron, continua a fabbricare e restaurare questi strumenti. Inoltre, sono disponibili versioni digitali del Mellotron, che offrono la possibilità di riprodurre i suoni iconici dell’originale con la comodità della tecnologia moderna.

Le versioni digitali del Mellotron, come il M4000D, mantengono il carattere sonoro distintivo dell’originale, ma eliminano le problematiche legate alla manutenzione dei nastri e delle componenti meccaniche. Questi strumenti moderni sono dotati di una libreria di suoni che include tutte le registrazioni originali del Mellotron, offrendo ai musicisti una vasta gamma di possibilità creative. Inoltre, i plug-in software per computer permettono di emulare il suono del Mellotron, rendendolo accessibile a un pubblico ancora più ampio.

L’Eredità del Mellotron

L’influenza del Mellotron si estende anche oltre la musica. Il suo suono distintivo ha segnato colonne sonore di film, spot pubblicitari e videogiochi, contribuendo a creare ambientazioni suggestive e coinvolgenti. La sua capacità di evocare emozioni e di creare atmosfere uniche lo rende ancora oggi uno strumento prezioso per molti musicisti e produttori. Il Mellotron è stato utilizzato in una vasta gamma di generi musicali, dal rock progressivo alla musica elettronica, dal pop al metal, dimostrando la sua versatilità e il suo fascino duraturo.

La storia del Mellotron è un viaggio affascinante attraverso l’evoluzione della musica e della tecnologia. Forse è lo strumento musicale che più incarna la definizione di evoluzione nell’ambito del fare musica. Dal suo debutto negli anni ’60, attraverso il declino con l’avvento dei sintetizzatori digitali, fino alla riscoperta e alla celebrazione moderna, il Mellotron ha dimostrato di essere un simbolo di innovazione e creatività. La sua eredità continua a vivere, influenzando nuove generazioni di musicisti e affascinando gli appassionati di musica di tutto il mondo. La sua storia è un tributo all’innovazione, alla passione e alla creatività che caratterizzano il mondo della musica.

Il Mellotron è più di un semplice strumento; è un simbolo di un’epoca e di un modo di fare musica che continua a ispirare e a emozionare, dimostrando che il vero valore dell’arte risiede nella sua capacità di evolversi, adattarsi e sopravvivere al passare del tempo. La sua storia dovrebbe essere una lezione, per chi oggi, non concepisce le nuove modalità del fare musica.

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Tuesday Music Revival: Radiohead – In Rainbows

  • Radiohead – In Rainbows
  • 10 Ottobre 2007
  • ℗ LLLP LLP / XL Recordings Ltd.

Più attuale che mai è il dilemma dell’importanza che riconosciamo alla musica. Ad oggi, per esempio, è sempre più sicuro che Spotify alzerà il prezzo dell’abbonamento per poter usufruire del suo catalogo musicale. È l’ennesimo rialzo degli ultimi due anni e, tra lo scontento generale, viene da farsi una domanda. Al di là delle piattaforme di streaming, qual è il valore della musica dal punto di vista degli ascoltatori?

Questa è una domanda vecchia, risalente forse al momento in cui al centro del ring, non c’erano Spotify e gli artisti, ma le etichette discografiche e i download illegali da PirateBay. Già allora le persone tentavano di poter avere la maggior quantità di musica possibile, spendendo il meno possibile. Nella maggior parte dei casi scaricandola illegalmente. Anche li qualcuno iniziò a porsi la medesima domanda. I Radiohead cercarono di arrivare ad una risposta. Il 10 ottobre del 2007, la band della contea di Oxford, pubblicò “In Rainbows” sul web, senza etichetta e dando agli utenti la possibilità di scegliere quanto pagare il disco (anche zero). Il risultato? Una buona parte degli utenti (circa il 60% stando a quanto riportato dalla società di monitoraggio dati ComScore) ha deciso di scaricare l’album gratis. 

In Rainbows
Foto di Gie Knaeps

Non erano certo i primi ad aver preso in considerazione questa scelta, che nel loro caso si è dimostrata una manovra di marketing eccellente, ma sono stati sicuramente quelli che hanno influito di più, complice la loro grande copertura mediatica. Parlando di musica però, ciò che colpisce in “In Rainbows” è il ritorno della band di Tom Yorke, alle proprie sonorità iniziali. Dopo “The Bends”, dal 1995 in poi, il gruppo aveva messo da parte le gran parte dei suoni che avevano forgiato i primi due dischi, in favore di sperimentazioni elettroniche. Sempre in maniera magistrale, ogni lavoro, da “Ok Computer” fino a “Hail to the Thief”, sembrava essere concepito per superare i confini raggiunti in ogni disco precedente. Ha funzionato divinamente in tutti gli album, sparando la band in universi post-apocalittici, fatti di sonorità sci-fi.

Arrivati al 2007, però i Radiohead sembrano ormai stanchi per le sperimentazioni. Con In Rainbows, è ora di tornare dove tutto è iniziato. Più o meno. E dico ciò perché nonostante tutto, l’utilizzo delle componenti elettroniche non abbandonerà mai più la band, ricavandosi il suo posto perfetto, in un progetto inciso profondamente nella storia della musica. Liberati dal fardello dell’innovazione, complice anche il percorso da solista di Tom Yorke, tornano a suonare, recuperano il senso della melodia e una forma-canzone più chiara, pur mantenendo la loro natura eclettica, che farà da vero e proprio collante per le 10 tracce del disco. 

Il cambio di direzione non è immediato. Il primo minuto di “15 Step” suona come se la traccia fosse appena uscita da una delle sessions di “Kid A”. Gli scrosci e le drum machine sembrano i padroni incontrastati della traccia, ma quando il basso e la chitarra dei fratelli Greenwood fanno capolino, la band cambia volto immediatamente. Sembrano suonare nuovamente come un quintetto. Questa sensazione si assapora ancora di più nei suoni sporchi di “Bodysnatchers”, dove la potente rappresentazione della monotonia, si scontra con un arrangiamento fuori da ogni schema. Non sentiremo mai un alternarsi di versi/ritornelli. Tutto si svilupperà su un crescente stato di tensione. Al culmine, un assolo esplosivo, prima che la traccia si dissolva nel nulla.

Loop in reverse, vocalizzi e strati di Synth, creano un’atmosfera strappa-cuore in “Nude”. Torniamo ad alcune soluzioni sonore lasciate indietro ai tempi di “Pablo Honey, ma se una volta sarebbero spuntati, prima o poi, dei powerchords graffianti, qui è tutta un’altra storia. I suoni sono soffici e le voci di Yorke, talmente leggere da sembrare quasi sussurrate. Gli swing di batteria crescono appoggiati ai cambi di ottava sugli arpeggi di chitarra di “Weird Fishes / Arpeggi”, confluendo nel post-rock di “All I Need”. La conclusione del primo lato di questo disco è qualcosa di incredibile. Il vero protagonista della traccia è il rumore. Esso aumenta e diminuisce ripetutamente, mentre le melodie, il piano e i suoni di Glockenspiel, danzano insieme alle voci di Tom. Ma il rumore resta li, intrappolato fra riverberi e synth acidi, pronto a tornare protagonista, ogni volta che smetti di prestargli attenzione.

“Faust Arp” elimina ogni accenno di componenti elettronici. Gli arpeggi di chitarra giocano dolcemente con orchestrazioni maestose, in una traccia che mai ti saresti aspettato in questo disco, in cui la cupezza delle strofe si apre in intermezzi colmi di brillantezza. Negli spunti jazz della sezione ritmica di “Reckoner”, Yorke crea delle intricate linee vocali, mentre parla a cuore aperto al mondo. Sulla morte, sulla ricchezza, su tutto ciò che non si può evitare. Sono sfaccettature, trattate anche in “Weird Fishes” e “15 Step” che in un certo senso contribuiscono a legare il disco. La sporcizia e la dolcezza si equivalgono negli accordi di “House of Cards”. Tra lunghi riverberi e vocalizzi, la traccia disegna uno spiraglio di dolcezza che ancora non si era visto su “In Rainbows”, prima di scomparire nelle profondità riverberate del disco.

In “Jingsaw Falling Into Place”, il cielo si scurisce mentre la band affonda il piede sull’acceleratore. Entriamo in contatto ancora una volta con una struttura d’arrangiamento che è ormai diventata lo standard del disco. Un crescente stato di tensione su una traccia priva di ritornelli e in costante sviluppo. Tornano a farsi sentire anche i sintetizzatori…e sono più forti che mai. E poi, Click. Tutto si spegne. Gli ampi ambienti si restringono.

Ci sono solo Tom Yorke e un piano. A poco a poco entreranno anche tutti gli altri componenti, ma il primo momento di “Videotape” è un qualcosa che non si sentiva dai tempi di “The Bends”. È un momento di autoanalisi. Yorke sa che quando tutto si spegnerà, quando anche lui dovrà morire, ciò che resterà sulla terra non sarà altro che una videocassetta (e una sfilza di capolavori). Mentre la sua voce si allontana, la sezione ritmica prende il sopravvento, conducendo la traccia, e il disco, verso la fine. 


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