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Mezzosangue: la recensione di “Musica Cicatrene”

  • Musica Cicatrene – Mezzosangue
  • 19 Luglio 2024
  • Sony Music Entertainment

Uno sguardo al passato con gli occhi futuri. Da un’idea, un progetto, un mixtape nato dodici anni fa, ad un album, il quarto di una già brillante carriera. L’atmosfera è la stessa, la maturità è diversa. I suoni, nonostante la volontà di rimanere fedeli all’originale, si sono evoluti in un nuovo riarrangiamento degno del Mezzosangue che apprezziamo oggi. Per chi lo conosceva dai suoi esordi sicuramente queste tracce non saranno una novità, per chi invece l’ha scoperto da poco o lo ascolta per la prima volta di certo comprenderà come tali parole, seppure vecchie più di una decade, sono tremendamente contemporanee. Ciò che cambia è la profondità data dalle nuove sonorità, con l’aiuto di DJ Shocca e il featuring di Gaia.

L’uscita di questo “ritorno al passato” è stata anticipata dalla riedizione del singolo “Capitan Presente”. Il testo è sempre lo stesso, quanto mai attuale, ma la musica è più intima, quasi in contrasto con la violenza delle parole, il tutto anticipato dall’ormai noto discorso fatto per il rap contest “Capitan Futuro”, dove tutto ha avuto inizio.

I pezzi non sono stati stravolti, ma aggiustati, rivisti e resi più moderni, a partire dall’intro, leggermente più lungo del precedente, con dei piccoli dettagli musicali che esaltano al meglio le parole. Ma è con “Esistenzialismo” che si evidenzia ancora di più questo cambio di passo: la base è completamente diversa, più moderna e strutturata, ed esalta al massimo le varie fasi del pezzo, anche durante gli intermezzi del discorso tratto dal film Matrix. Nessuna rivoluzione, ma un restyling ad hoc di un pezzo che già era storia.

Più “tradizionale” invece l’ottima “Still Proud”, ma anche qui i dettagli fanno la differenza, con l’intervento di DJ Shocca, che concede piccoli tocchi di dubstep ad una base già funzionante di suo. Una canzone che assume un carattere diverso, più forte e memorabile della precedente versione. Altro esame ampiamente superato.

Nel caso di “Soldierz” viene stravolta anche la durata, quasi dimezzata, togliendo una buona parte della coda finale ed aumentando leggermente i bpm. Ennesima prova di maturità del rapper romano. Con “Piano A” si arriva alla vera hit dell’album. In questo caso il pezzo funzionava molto bene già dodici anni fa e ha solo tratto beneficio dalle piccole rifiniture aggiunte nella traccia. Parafrasando il brano, a Mezzosangue non serve mai un piano B.

L’impatto della “vecchia” versione di “Mezzosangue” era sicuramente più forte e diretto, mentre all’interno dell’album l’irruenza, seppur mantenuta nel testo e nella voce, è stata attenuata a beneficio di una maggiore attenzione alla sonorità. Questo è forse l’unico pezzo in cui la prima versione, se non migliore, è al pari del suo re-edit.

Nevermind” ha mantenuto il suo sapore iniziale, dolce e amaro, come è giusto che sia. Un pezzo violento e poetico al contempo, collocabile in qualsiasi epoca senza sfigurare mai.

A poco meno di undici minuti dalla fine di questo “viaggio nel tempo” si arriva al vero capolavoro: “Secondo Medioevo” è un diretto in faccia, senza preavviso, dove si contrappone una voce urlata ad una musica più lieve e quasi orchestrale. Il balzo in avanti qui è clamoroso e la nuova produzione la rende perfetta, dall’inizio alla fine.

Quello che potrebbe essere definito una sorta di intermezzo per via della sua durata, risulta molto diverso nelle due versioni: più in linea col resto del mixtape prima, una piccola perla nella nuova opera. Meglio la prima “Shylock” o l’attuale? Ai posteri l’ardua sentenza, si parla semplicemente di gusti soggettivi.

L’intimità raggiunta nella penultima traccia di questo nuovo album toglie tutti i dubbi su quale sia la migliore versione: “Musica Cicatrene” viene esaltata da una produzione di mirabile fattura, che la rende quasi cinematografica.

Al posto di “Incazzato Nero (outro)”, dove veniva lasciato spazio ad un monologo favoloso tratto da Quinto Potere, Mezzosangue ha preferito un saluto più romantico e ottimista, con l’ausilio della splendida voce di Gaia. L’irruenza dei vent’anni viene sostituita dalla maggiore saggezza dei trenta e “Piove Musica” è un degno ringraziamento a quello che salva tutti i musicisti, nonché il giusto finale di un’opera più completa e importante della precedente.

È anche la sua versione live, che ho potuto apprezzare al Superaurora Festival a Roma, non ha deluso le aspettative. Immerso nel suo pubblico, Mezzosangue ha dato il meglio di sé, come sempre.

mezzosangue

Chi conosce Mezzosangue sa che il suo percorso ha avuto un’evoluzione costante, ma l’occhio al passato ci ha fatto riscoprire un incipit che veramente pochi possono vantare. In attesa dei prossimi inediti, ci godiamo questi nuovi ricordi.

/ 5
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Wu-Tang Clan: La recensione di Enter The Wu-Tang (36 Chambers)

  • Wu-Tang Clan – Enter the Wu-Tang (36 Chambers)
  • 9 Novembre 1993
  • ℗ Sony Music Entertainment

Il debutto discografico del Wu-Tang Clan, Enter the Wu-Tang (36 Chambers), segna uno degli apici dell’Hip-Hop. Pubblicato nel novembre del 1993, il disco ha segnato un punto di svolta nel panorama musicale, con suoni grezzi e liriche crude, andando oltre i suoni di gran lunga più morbidi dell’epoca. Come visto su Illmatic di Nas, anche in questo caso, esiste un prima e dopo 36 Chambers. 

Il collettivo originario di Staten Island (Anche qui siamo sulla East Coast), era composto da nove membri: RZA, GZA, Raekwon, Ghostface Killa, Method Man, Masta Killa, Ol’ Dirty Bastard, Inspectah Deck e U-God. Una scelta insolita e piuttosto complicata da gestire. Spesso più un gruppo è grande, più è difficile far confluire tutte le influenze in un genere comune. Ovviamente non è il loro caso. Ogni membro del Wu-Tang è riuscito a portare elementi di valore, combinando le diverse personalità e gli stili lirici in uno dei progetti più importanti di sempre. 

Prima della loro formazione, alcuni dei membri erano già figure di spicco nella scena musicale newyorkese. Robert “RZA” Diggs e Gary “GZA” Grice avevano già portato avanti progetti da solisti, ricevendo scarso successo. Quando Diggs ebbe l’idea di fondare un collettivo che unisse i migliori rapper della zona, la musica cambiò (in tutti i sensi). Dal Wu-Tang Clan ognuno di loro sviluppò la propria carriera da solista, pur rimanendo uniti gli uni agli altri. 

L’idea del disco nacque nei primi anni ’90. RZA, che poi ricoprirà il ruolo di principale produttore di 36 Chambers, voleva un suono mai sentito. Il risultato fu un mix di campioni estrapolati da vecchi film di Kung-Fu (Da cui il disco prende il nome), beat esplosivi e testi crudi. Come già detto più su, più un gruppo e grande, più è complicato “accontentarne” tutti i membri, eppure in questo disco ognuno riesce a collaborare con l’altro in maniera incredibile. Tutto il disco è stato registrato in uno studio improvvisato nel seminterrato (complice del suono così sporco) di Diggs, che il collettivo aveva rinominato “The Wu Mansion”. 

I testi ricalcano quella vita di strada che, fino a quel momento, gli artisti evitavano di raccontare, o filtravano attraverso sonorità patinate. Loro no. Nei testi del Wu-Tang c’è sopravvivenza, violenza e lealtà, cuciti millimetricamente ai riferimenti culturali ad arti marziali e filosofia orientale. 

Enter The Wu-Tang (36 Chambers

Campionamenti e beatmaking passano dal cervello di RZA, trasformandosi in un beat aggressivo che stabilisce da subito il tono del disco. Bring Da Ruckus è scura e ripetitiva, mentre i rapper ci introducono l’ambiente dove ci siamo immersi. Su Shame on a Nigga i combattimenti di Kung-Fu si dissolvono con Ol’Dirty Bastard che entra da protagonista. Il Funky si sporca di campioni scricchiolanti facendo della traccia un mix di energia e eccentricità. La vivacità resta invariata anche su Clan in da Front dove, questa volta, a dominare il ring è GZA. Gli slide di basso sono la ciliegina sulla torta di una traccia minimalista che sperimenta per la prima volta il Beat-Switch. Wu-Tang: 7th Chamber si catapulta dentro la vita di strada. Il parlato dell’intro si trasforma in un beat cupo, in cui ogni membro da prova della coesione del gruppo, pur mantenendo integro ogni tratto distintivo. 

Con Can It Be All So Simple il disco si ammorbidisce, almeno per quanto riguarda le produzioni. Malinconia e riflessioni sono i due punti chiave della traccia, con Ghostface Killah e Raekwon che riflettono sulla loro gioventù e sulle difficoltà che hanno dovuto attraversare, per poi passare nuovamente ai campionamenti dei film di Kung-fu in Da Mystert of Chessboxin’. La grande dote a livello di arrangiamento si capisce proprio qui. Poco oltre la metà del disco. I momenti in cui vengono schierati tutti i membri del collettivo, vengono selezionati minuziosamente, per non appesantire il disco e per mantenere un filo conduttore ben definito.

Aggressività e potenza combattono al fianco del supergruppo in Wu-Tang Clan Ain’t Nuthing ta F’ Wit. Il beat martellante fa da trampolino di lancio per il singolo che ha definito un genere: Cash Rules Everything Around Me. C.R.E.A.M. è una riflessione della dura realtà della vita di strada e di quanto il denaro sia importante. Raekwon e Inspectah Deck offrono una delle loro migliori performance – versi introspettivi su una produzione di RZA a metà fra soul e rap.

Method Man risplende nella traccia omonima, su una produzione tanto semplice quanto efficace, mentre su Protect Ya Neck, tornano ancora una volta tutti insieme su beat scricchiolanti a parlare di lealtà e sopravvivenza. Tearz si ammorbidisce, e fa spazio a perdita e dolore, prima di entrare all’ultimo giro di questo disco. Wu-Tang: 7th Chamber – Part II riprende 7th Chamber mentre il collettivo ci disegna nuove strofe, chiudendo il disco con la stessa energia con cui era stato introdotto.

/ 5
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Tuesday Music Revival: Nas – Illmatic

  • Nas – Illmatic
  • 19 Aprile 1994
  • ℗ Columbia Records / Sony Music Entertainment

Ya’ll Know My Steelo

NAS – N.Y. State Of Mind

Stai camminando per le strade di Queensbridge Houses, in un ambiente piuttosto particolare. Non è ricco di attrazioni turistiche, e sicuramente non è il posto in cui vorresti trovarti di solito. Certo è cambiato parecchio nel tempo, non è più un posto di cui avere paura e anche le persone non sono più quelle di quarant’anni fa. Eppure, i muri di mattoni delle palazzine sembrano raccontare delle storie incredibili. E in effetti è proprio così. La 21esima strada conserva, tra atmosfere maleodoranti e industrializzazione, uno dei momenti più floridi nella storia dell’Hip-Hop. 

Nasir bin Olu Dara Jones, conosciuto da tutti come Nas, quel posto lo conosce bene, talmente bene da esser riuscito a disegnarlo in maniera impeccabile nel suo disco di debutto. “Illmatic” non è solo il disco d’oro della East Coast. “Illmatic” è una pietra miliare del Rap, che oggi, a esattamente trent’anni dalla sua uscita, resta di ispirazione per chiunque cerchi di intraprendere questa strada. C’è un momento, nell’evoluzione dei generi musicali, in cui avviene la magia. È come il passaggio di una cometa, o quell’eclissi che capita una volta ogni cinquant’anni. Per l’hip-hop quel momento arriva il 19 arpile del 1994, quando nei negozi di dischi inizia a comparire una copertina ritraente un bambino riccio di fronte ad alte palazzine in mattoni grigi. Nessuno sa cosa sta per succedere. Nessuno sa che quello è il giorno in cui il rap game cambierà per sempre. 

In questo disco tutto è perfetto, ogni rima è scolpita alla perfezione sopra strumentali magistrali. Jones si è rivolto a Q-Tip, dei “A Tribe Called Quest”, che mette anche la sua voce in “One Love”, L.E.S., Pete Rock, Large Professor e Dj premier. Una squadra perfetta tagliuzza e ricompone un collage che ben presto si trasforma in una dedica a cuore aperto alla black music. Il background “Jazzistico” di Nasir è conosciuto. È una passione trasmessa da suo padre Olu Dara, che fa la sua comparsa nel disco, nella chiusura di “Life’s a Bitch”. Ma non c’è solo jazz.

Illmatic
Nas cammina per le strade del Queens

I campioni di trombe, bassi corposi e arpeggi di piano, si insinuano in contaminazioni che vanno fino al pop, rendendo le sonorità di Illmatic delle imponenti colonne a sostegno di un disco mastodontico. Ne è un esempio lampante l’interpolazione di Smooth Criminal di Michael Jackson, in “N.Y. State of Mind”, una delle tracce più evocative di questo disco. 

Ma il fiore all’occhiello sono i testi. Con questo disco, Jones ha introdotto un livello di profondità mai toccato fino a quel momento. Illmatic è una di quelle palazzine in mattoni grigi. Ogni canzone è una finestra sulla vita nel ghetto, o sulle strade in cui Nas viveva e respirava. E tutto così dettagliato che per i 39 minuti ti sembra quasi di aver viaggiato nel tempo. 

Il campionamento del film “Wild Style” del 1983, crea l’introduzione perfetta per l’album. Ti introduce all’ambiente di Queensbridge. Puoi sentire lo sferragliare della metropolitana, le voci delle persone, il suono della vita che va avanti come tutti i giorni. In poco meno di due minuti sei nel Queens, a New York, e stai vivendo ciò che Nas stesso vive. In “N.Y. State of Mind” capisci subito che però l’ambiente non è la cosa migliore che vorresti ti capitasse. La penna di Jones sferra alcune delle liriche più crude mai sentite. Raccontano le strade della Grande Mela con gli occhi di un ragazzo del ghetto.

Violenza, disperazione e sopravvivenza si intrecciano nei samples del beat di Premier, che con gli scratch della coda ammorbidisce i suoni e ci introduce a “Life’s a Bitch”. C’è mortalità, voglia di emergere e una ricerca di una vita migliore. È il sogno americano dopo tutto, semplicemente visto da un’angolazione diversa. La luccicante tromba di Olu Dara, si dissolve in uno dei beat più belli che abbia mai sentito. “The World is Yours” è la punta di diamante di questo disco. Il rapper Newyorkese alle prese con un ambiente avverso su un campo minato di scratch, sample di piano e una sezione ritmica tanto semplice quanto incredibile. “Halftime” rimane sulla scia dei concetti espressi nelle tracce precedenti. A dirla tutta questa visione del Sogno Americano aleggia per tutto il disco. 

“Memory Lane (Sittin’ in da Park)” è un viaggio nei ricordi d’infanzia e dell’adolescenza, sulle ali della nostalgia, mentre in “One Love”, Nas analizza la situazione delle strutture detentive americane. “One Time 4 Your Mind” è uno spaccato di vita quotidiana. C’è un costante contrasto tra monotonia e spiragli di situazioni interessanti. Anche il beat, prodotto da Large Professor, rallenta il ritmo rispetto alle tracce precedenti. “Represent” torna con energia e rabbia alle atmosfere viste all’inizio del disco. Sono i 10 comandamenti del Ghetto, in una storia fatta di lealtà, vita di strada e senso di appartenenza. Il disco si chiude con “It Ain’t Hard to Tell”, l’epilogo perfetto di un disco leggendario. Costruita sui campioni di “Human Nature” di Michael Jackson è l’ennesimo incredibile esercizio di stile di Illmatic. 

Siamo di nuovo all’inizio del disco. Sentiamo di nuovo quel rumore di ferraglia. È solo un’altra metropolitana. C’è stato un giorno in cui quel treno ha aperto le porte a Nasir Jones e quello che c’era dentro non erano ratti, cattivi odori e barboni. Era la possibilità di cambiare la storia. Purtroppo certi treni passano una sola volta, fanno la sua corsa e ti lasciano in una fermata a caso ad aspettare il prossimo, che nella maggior parte dei casi non arriverà mai. Puoi sempre dire di aver scritto una pagina importante nella storia dell’Hip-Hop però. 


/ 5
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Kendrick Lamar: La recensione di “Mr.Morale & The Big Steppers”

  • Kendrick Lamar – Mr. Morale & The Big Steppers
  • 13 Maggio 2022
  • ℗ pgLang/Top Dawg Entertainment/Aftermath/Interscope Records

“Ho scelto me, mi dispiace”

Tutti i dischi di Lamar sono sempre stati collegati da un filo indistruttibile: un concetto. Ogni album raccontava una storia a sé stante, che si apriva e chiudeva tra l’inizio e la fine. In “Section.80” il rapper affrontava il razzismo. “good kid, m.A.A.d city” era un’istantanea della sua infanzia. “To Pimp A Butterfly” era il canto della rivolta delle comunità oppresse. E “DAMN”, un’analisi interiore fra battaglie con sé stesso e con gli altri. Il concetto dietro “Mr. Morale & The Big Steppers”, non si distacca totalmente da quello espresso nel disco precedente. Abbiamo ancora a che fare con un Lamar intento a fare luce su chi è veramente. 

C’è contraddizione, durezza rifiuto e accettazione. Il rifiuto per il ruolo di importanza nell’Hip-Hop che, complice la vittoria del Pulitzer, il mondo gli ha conferito. L’accettazione del non essere in grado di risolvere i problemi del mondo (e chi lo è). Ci sono confessioni e litigi, incorniciati da un contesto sociale segnato dalla pandemia. Al centro del quadro c’è Kendrick Lamar, che cerca di mettere a fuoco il personaggio sfuggente contro cui sta combattendo: sé stesso. 

Mr. Morale & The Big Steppers

Lungo tutta la durata di questo doppio LP, il rapper resetta completamente la struttura delle tracce, abbandonando qualsiasi tipo di forma-canzone utilizzato fino a quel momento. Le atmosfere Funk, Jazz e R&B, si mescolano squisitamente fra loro e vengono cucite alla perfezione alle rime di Kendrick, creando una nuova struttura, in cui testo e melodia non possono funzionare se non insieme. Il tutto è caotico. Versi disordinati duellano con accordi di piano apparentemente suonati a casaccio. È uno spettacolo di free-jazz in cui tanto più cresce il caos, tanto più il disco si solidifica. 

Per tutto il viaggio di Mr. Morale & The Big Steppers, Lamar si circonda di alcune fra le più eclettiche personalità nel mondo musicale, ma, tra Sampha e Beth Gibbons dei Portishead, o Thundercat e Kodak Black, la personalità più importante dentro questo disco è quella della sua compagna dai tempi della scuola, Whitney Alford. Sarà lei a guidarlo attraverso il percorso introspettivo dell’album. 

Prima di andare oltre, è necessario fare una precisazione sul modo in cui “Mr. Morale” è strutturato, perché c’è un motivo se il disco è diviso in due parti. Nella prima parte, siamo davanti al Kendrick che conosciamo, quello che si scaglia contro le ingiustizie del mondo, sempre dalla parte degli oppressi. È nella seconda parte che tutto cambia, dove Mr. Morale diventa protagonista della scena. 

Ad aprire la prima parte del disco è “United In Grief”, con un intro che diventerà in seguito uno degli “anthem” principali dell’album. Ci scontriamo con un Kendrick che riversa tutti i problemi della società nei beni materiali che ognuno di noi possiede. Compri orologi che indossi una sola volta, hai un’enorme piscina in cui non hai mai nuotato, eppure tutto questo non è servito a niente. La traccia defluisce su una sostenuta progressione di accordi di piano. Il piano sarà uno dei punti principali nelle 18 tracce di questo disco.

“N95” è liberatoria, sotto tutti i punti di vista. La produzione minimale, esplode in stratificazioni di sintetizzatore, mentre Kendrick si spoglia di tutto ciò che reputa superfluo. [Togli la caccia al prestigio / Togli il Wi-Fi / Togli le rate dell’auto]. Nei viscidi sintetizzatori di “Worldwide Steppers” mette a nudo in maniera più completa la sua dipendenza dal sesso. Sebbene non sia la prima volta (ne aveva già parlato ai tempi di “To Pimp a Butterfly”), questa volta scende nel profondo dell’utilizzo del sesso come vendetta. 

Con “Die Hard” e “Father Time” entriamo in uno dei punti più alti di questo disco. Ciò che avviene nelle due canzoni è una “conversazione” tra il rapper e la sua compagna. Durante la prima traccia, featuring con Amanda Reifer e Blxst, unico punto dai sentori vagamente pop, Lamar si interroga su ciò che potrebbe succedere nel momento in dovesse tradire Whitney. La risposta arriva nel Banger numero uno del disco. Fra archi e arpeggi di piano, la Alford invita il rapper ad iniziare un percorso terapeutico. Risposta? Un capolavoro di beatmaking, fa da collante tra il ritornello di Sampha e un Kendrick che prende coscienza dei suoi problemi e cerca un modo per risolverli. L’interludio “Rich” evidenzia nel modo più crudo possibile il fatto che la comunità afroamericana ha anche delle sfaccettature di violenza, di cui bisogna tener conto. 

“Rich Spirit” porta avanti quel concetto di produzione minimale sviluppato all’inizio del disco, con Lamar intento a espiare i suoi peccati addentrandosi nella relazione tossica di “We Cry Together”. Le armonie vocali si frantumano nel momento in cui il beat prende il controllo della traccia. Ancora una volta testi e metriche sono cuciti magistralmente all’arrangiamento mentre il rapper e l’attrice Taylour Paige mettono in scena un litigio tra lui e la compagna. Il litigio si dissolve in “Purple Hearts”, con Ghostface Killah e Summer Walker. La traccia che chiude il primo disco è leggera e meditativa. Un attimo per prendere una boccata d’aria prima di tornare a lavorare su sé stesso. 

Torna l’anthem di “United in Grief”, ma con una variazione nel testo, per l’apertura della seconda parte del disco. In “Count Me Out” la consapevolezza è l’argomento centrale, concetto che si estende anche su “Crown”, in cui il rapper losangelino fa i conti con ciò che rappresenta per il mondo. Da “To Pimp a Butterfly” è stato visto come il salvatore dell’Hip-Hop, un messia. Lui stesso si è comportato come se lo fosse. Almeno fino a Mr. Morale. “Crown” è la traccia che manda in frantumi quello status. La verità è che è stata tutta un’illusione, non può salvare sé stesso, figuriamoci qualcun altro. Il sogno è finito. Torna con Kodak Black in “Silent Hill” in un’altra traccia più leggera, in cui danza fra ipocrisia e serpi.

Nell’interludio “Savior”, la traccia si apre con un monologo di Eckhart Tolle sui traumi infantili. Mentre, questa volta il cugino di Lamar, Baby Keem, fornisce all’ascoltatore un’ulteriore prospettiva sull’ambiente familiare in cui sono cresciuti, sopra una produzione ai confini della tensione. Sul tiptap di “Savior”, Kendrick cala la pietra tombale sul suo ruolo di salvatore del Rap. Il punto più importante arriva quando lui stesso abbandona il suo modello. [Tupac è morto, devi arrangiarti]. Mentre analizza la transizione di genere di sua zia in “Auntie Diaries” si rende conto di non essere stato poi così diverso da tutti gli altri. Mentre cerca redenzione dal suo lato discriminatorio, mette in discussione la sua fede nei confronti della chiesa. 

“Mr. Morale” è cupa, gli ottoni gracchiano mentre Lamar tira sospiri rabbiosi prima di sputare traumi generazionali e sofferenza. Come un ex-alcolista che riesce finalmente a vedere il mondo con gli occhi di un sobrio, in “Mother I Sober”, con Beth Gibbons dei Portishead, Kendrick Lamar sembra aver ottenuto il suo gettone dei 100 passi. Si accorge di come, se non trattati, i traumi subiti da piccoli si possano riflettere sulle generazioni successive e sono essi stessi figli di traumi delle generazioni precedenti.

È probabilmente una delle tracce più importanti del disco, perché oggi Kendrick è padre, e sa che tutto ciò che farà si rifletterà sulla sua famiglia. E deve essere un buon padre. Sui violini del finale, arriva alla totale comprensione. Lui, Whitney e i loro figli possono vivere felici. L’emozione più forte arriva quando la canzone è finita e tutto ciò che resta è la cosa più importante. La voce di sua figlia che lo ringrazia. 

Il disco arriva a compimento con “Mirror”. Ora Kendrick è libero. Ha lasciato andare il suo personaggio, lui non è dio, non è il paladino di nulla. Lui è solo un artista e una persona. Quello su cui vuole concentrarsi ora è solo la sua famiglia. Nudo fino all’osso, vulnerabile e ancora una volta autore di un disco generazionale, Kendrick Lamar questa volta ha scelto sé stesso. 

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/ 5
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Little Simz: La recensione di “Drop 7”

  • Little Simz – Drop 7
  • 9 Febbraio 2024
  • ℗ Forever Living Originals / AWAL Recordings Ltd

Kendrick Lamar si era pronunciato piuttosto chiaramente su Little Simz. E come potremmo, noi umili esseri umani, dar torto ad uno dei migliori rapper odierni che fa props su una delle migliori rapper odierne? D’altronde, se un unodue micidiale come quello messo in atto da “Sometimes I Might Be Introvert” (2021) e “NO THANK YOU”(2022), sbocciato nell’arco di poco più di un anno (!), non vi avesse ancora convinto pienamente sulla grandezza dell’artista di Islington, bhe.. suggeriamo un bel ritiro spirituale per purificare i canali acustici.

London-based, cuore nigeriano che getta sangue sulle rime, Little Simz – all’anagrafe Simbiatu Ajikawo – ha sempre vincolato saldamente la sua musica ad una fortissima esigenza di espressione, il bisogno di sputare sul beat il frutto di un carattere piuttosto chiuso, trattenuto a braccia strettissime per troppo tempo. Un talento smisurato che pare essersi espanso definitivamente ed in maniera vigorosa, sia nella doppietta succitata, tecnicamente mostruosa, sia tramite altre vie artistiche – vedasi i suoi ruoli come attrice.

E parallelamente ad una carriera in ascesa, mattoncino su mattoncino, c’è quella scaletta a pioli leggermente nascosta, una sorta di piano b, di percorso evasivo che giunge al suo settimo gradino, forse il più stuzzichevole e “laterale” di tutti.

“Drop 7” si trascina dietro proprio quel sentore di side-project, pur trovando su di sé la medesima firma: necessità di esplorare, reinventarsi, sviare gli standard, andare oltre. Scema, infatti, quell’impegno “fisiologico”, quel bisogno forte alla base dei full-length della discografia principale, esce fuori, invece, il desiderio di scavalcare il già ampio confine tratteggiato in questi anni, spingendo molto di più sulla ricerca del suono e su nuove ambientazioni in cui farlo riecheggiare.

Un EP dai bpm sotto taurina, devoto come non mai all’elettronica da club e ad un certo tipo di pop che svernicia le classifiche di oggi: dall’ibrido inglese/portoghese di “Fever”, pulsante di radici reggaeton e scossoni amapiano su un esoscheletro trap – Rosalía risuona forte – ai sussulti techno e afro-beat di “Mood Swings”, che traslano l’ascoltatore su un dancefloor attrezzato nel bel mezzo di un deserto notturno, l’extended play preme sui bassi, si insinua tra le radici di popolazioni diverse, acciuffa le tradizioni e le sbatte sui beat, lavorati e cesellati da Jakwob, innesto che si fa sentire proprio nello stacco (stilistico) netto coi predecessori.

Gorgheggi elettronici e tribali invocano lo sciamanico ballo di “SOS”, mentre la drakeiana “I Ain’t Feelin It” ci fa capire che, anche in ambito trap, la Simz sormonta molti suoi colleghi più blasonati. Se non bastasse, l’adrenalinica “Power” scastra di prepotenza il riflettore e lo punta su una drum’n’bass più accessibile, tra qualche timido richiamo ai Chase & Status e grosse similitudini con tutto quello che gira sui piatti di Nia Archives. D’n’b che pare voler scardinare anche le placide atmosfere della conclusiva “Far Away”, arrendendosi però ad un guinzaglio hip-hop più classico, edulcorato da rivoli sassofonistici e adagiati su cuscinetti pianistici da singolone dance pop.

Una sorpresa continua: Little Simz è un’artista pazzesca, capace di eccellere in tutto, anche nei suoi piccoli “capricci” musicali, che rimangono comunque di assoluto spessore: “Drop 7” respira (e fa respirare) aria nuova, mischia le carte e le gioca diversamente, non allontanandosi troppo dai risultati precedenti. Un disco che, per forza di cose, non può essere accostato ai suoi fratelli maggiori, vuoi per la sua durata, vuoi per la sua spiccata anima “parallela”, ma che riconferma in toto le qualità ingiocabili della rapper di North London.

/ 5
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Tuesday Music Revival: My Beautiful Dark Twisted Fantasy – Kanye West

  • Kanye West – My Beautiful Dark Twisted Fantasy
  • 22 Novembre 2010
  • ℗ Def Jam / Rock-A-Fella / UMG Recordings, Inc.

“Ogni Supereroe ha bisogno del suo tema musicale”

Nel novembre 2010, al culmine di crisi economiche, scompigli sociali e scandali mediatici, Kanye West esce dalla sua bolla artistica, con il suo disco migliore e probabilmente il più ambizioso nella storia della musica Hip-Hop. 

Prima di arrivare a parlare del disco occorre, fare un piccolo passo indietro. Fino a quel momento, il ragazzo d’oro di Atlanta era riuscito a cambiare i connotati ad un genere strettamente incatenato a precisi paradigmi. Da “College Dropout” a “808s & Heartbreak” Ye aveva introdotto l’importanza della melodia nell’Hip-Hop, uno stile diverso nel sampling, un utilizzo massiccio dell’autotune è un nuovo modo di lavorare un certo tipo di batterie elettroniche.

Con alle spalle un divorzio, la morte di sua madre, un 808s che aveva spaccato l’opinione pubblica e la sua fanbase e lo scandalo dei VMA’s, Mr. West si ritrova in un vortice di hating. Questo vortice porta ad un disco che non trova spazio per i mezzi termini e non accetta margini di errore. Ogni tassello deve essere al posto giusto nel momento giusto, perché chiunque, anche il suo hater più grande dovrà riconoscere l’importanza di Kanye. “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” comincia qui.

Prenotati gli interi Avex Recording Studios di Honolulu, alle Hawaii, cominciano i sei mesi di lavorazione al disco. Saranno sei mesi parecchio pesanti per West, che in balia delle sue insicurezze si circonderà di una schiera infinita di collaboratori. Dalla produzione (MIKE DEAN, RZA, Andrew Dawson), agli autori fino ad arrivare ai featuring, tra i più importanti spiccano Beyoncé, JAY-Z, John Legend, Pusha-T e Bon Iver, che sarà presente, in un modo o nell’altro, in gran parte del disco.

Ogni ruolo è studiato nei minimi dettagli e ancora una volta il rapper esce fuori dai canoni, inserendo artisti fuori dal panorama hip-hop, tra cui anche Elton John. Ancora una volta l’utilizzo dell’autotune supera ogni tipo di aspettativa, dai falsetti di Bon Iver, alle voci robotiche di Monster, così come i campionamenti. Ogni Sample è lì per un motivo, non solo per le sue sonorità, ma per raccontare le tematiche del disco e il personaggio di Kanye West. “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” è un viaggio introspettivo nel rapporto di YE con la fama e con il suo ego.

Il disco si apre proprio con i falsetti di Justin Vernon, sostenuti dalla voce di Nicki Minaj. All’interno della traccia spuntano campionamenti di musica classica (Mozart) e di Wandering Ginza Butterfly di Meiko Kaji. Le orchestrazioni e gli strati vocali culminano su un beat corposo prodotto da SZA. Con “Darkest Fantasy”, Kanye scava a fondo nel lato oscuro della fama, partendo dallo scandalo dei VMAs. 

In “Gorgeous”, la voce cavernosa di Kid Cudi aiuta YE a mettere in fila una serie di colpi contro l’ingustizia sociale dilagante in America. Ancora una volta il campionamento, in questo caso di “You Showed Me”, traccia del 1968 dei Turtles, ha un ruolo fondamentale nel racconto dei temi di questo disco. 

Il primo banger di “Twisted Fantasy” arriva alla terza traccia. I vocalizzi di “Afroamerica” dei Continent Number 6 e le voci filtrate estrapolate da 21st Century Schizoid Man dei King Crimson sono la ciliegina sulla torta per una traccia che ha richiesto cinquemila ore di lavorazione. Così come i King Crimson attaccavano il potere della classe dirigente durante la guerra del Vietnam, Kanye si scaglia verso il rapporto tra Fan e Celebrità, raccontando come però il potere possa essere un qualcosa di cui è quasi impossibile fare a meno dopo averlo ottenuto.

L’interludio orchestrale di “All of the lights”, composto da Elton John, conduce dolcemente verso una delle intro più facilmente riconoscibili nella storia della musica. Estratto come quarto singolo di “Twisted Fantasy” è il racconto dei problemi della fama visti da una situazione familiare sgradevole, tra abusi domestici e divorzi. Il feat. Con Rihanna, nasconde in realtà tanti altri artisti, da Drake a John Legend, passando per Alicia Keys. La cupa “Monster”, con Rick Ross, Jay-Z e Nicki Minaj è la traccia in cui l’ego di Kanye prende il sopravvento, affermando quasi di essere il migliore in quello che fa (E come dargli torto). 

In So Appalled, con Pusha T, Jay-Z, Prynce Cy Hi, Swizz Beatz e RZA, emergono sonorità più vicine all’ambiente Hip-Hop, rispetto al resto del disco, di cui Kanye in prima persona aveva parlato come di un progetto scollegato dai canoni della Rap Music. Questa volta sotto la lente di ingrandimento di YE passano i critici e la pop culture. 

“Devil In a New Dress” torna su sonorità morbide, con i campioni di Smokey Robinson lavorati come solo Kanye sa fare. Tra le chitarre, anche loro colme di autotune, di MIKE DEAN e la voce roca di Rick Ross, West, mette insieme religione e famiglia su una traccia probabilmente dedicata a Amber Rose, ex fidanzata. Una menzione d’onore va fatta a Rick Ross, che crea una delle strofe più belle di questo disco, e forse della sua carriera. 

I rintocchi inquietanti del piano di “Runaway”, mai farebbero immaginare cosa in realtà è la traccia in sé. Ancora una volta la strumentale, che vede la collaborazione di Pusha-T, rimane morbida, mentre Kanye sputa barre stonate. Ancora una volta torna sulla questione di Taylor Swift e dei VMAs, mentre Vocoder e corposi bassi sintetizzati danno un tocco di acidità alla traccia. Acidità che pervade anche l’intro di “Hell of a Life”, in cui Kanye attacca la corruzione che si avvinghia alla fama, a colpi di voci melodiche e arpeggi di sintetizzatore. 

“Blame Game” vede John Legend protagonista, mentre sussurra il ritornello sulla melodia di piano di “Avril 14th” di Aphex Twin. Tra le rime di Ye si nasconde un’altra storia d’amore maledetta, quella con la fama. 

Man mano che ci si avvicina alla fine del disco, i beat iniziano a farsi più fini, mentre sezioni percussive quasi orchestrali prendono il loro posto. 

“Lost in The World” altro non è che una visione di Kanye sulla traccia “Woods” contenuta nel disco Blood Bank di Bon Iver, è anche la traccia in cui quest’ultimo ha un ruolo più importante, insieme all’apertura. Ma Mr. West non si accontenta, perché, nella traccia che più descrive il suo stato d’animo nel periodo che ha generato la nascita di questo disco, torna a campionare i vocalizzi di POWER, inserisce come interpolazione il famosissimo “ma ma se ma ma sa ma ma ma co sa” di Wanna Be Startin’ Somethin e catapulta la traccia verso la chiusura del disco “Who Will Survive In America” una stratificazione di percussioni afro che aumentano l’intensità emotiva finchè il “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” non scompare lasciando spazio a un solo applauso. 

Se l’obbiettivo di Kanye West per questo disco era far ricredere tutti i detrattori, quasi sicuramente è riuscito a colpire nel segno. Non solo perché questo disco gli è valso un Grammy, ma perché ogni sua sfaccettatura l’ha reso iconico e gli ha conferito il posto che si merita nella lista dei migliori dischi rap di tutti i tempi.

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D.Worthy: La recensione di “Time Will Tell”

  • D.Worthy  – Time Will Tell
  • 1 Marzo 2023
  • ℗ D.Worthy / Blow Up Kids

Svolta alternative hip-hop nel sesto album in studio di D.Worthy, rapper originario di Vancouver. Le strumentali, spaziano da combinazioni di sezioni ritmiche trap e approcci melodici Old School a produzioni più moderne sotto tutti i punti di vista. La troppa diversità fra le tracce però, rappresenta un problema, non riesce a stabilire un unico filo conduttore che traghetta l’ascoltatore dalla prima all’ultima traccia del disco. 

L’album si apre con “Sleep Walking”, primo degli unici due featuring di questo disco. La traccia è costituita da una sezione melodica composta da vocalizzi e campionamenti, trasportati da una ritmica abbastanza scarna.  Reverse e 808 distorti guidano “Festival”, mentre tracce come “Peace Of Mind” e “Tantrum” si affidano a stili trap, senza altri tipi di sperimentazione. Sono tra le tracce più deboli del disco. A dare una nuova spinta, dopo la battuta d’arresto che il disco subisce con “Pomergranate Forces” subentra il feat. Con “Rahn Harper”. “Goodspeed” torna sui binari della traccia di apertura, aggiungendo a vocalizzi e campionamenti, una sezione vocale quasi R&B, sullo stile del primo TheWeeknd. Con l’ultima traccia dell’album, non che title track, il disco subisce il colpo di grazia. Sicuramente non un capolavoro, ma comunque un progetto che offre degli spunti interessanti da cui partire.

Voto: 6/10

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