Recensione

Max Richter: la recensione di In a Landscape

  • Max Richter – In a Landscape
  • 6 settembre
  • Decca Records

Il suono sta alla vita come Max Richter sta alle colonne sonore, e non solo. Dal 6 settembre è possibile ascoltare In A Landscape, la naturale evoluzione sonora del musicista, realizzato mettendo in pratica la formula applicata da molti artisti contemporanei: rispolverare il passato per tradurre in termini attuali concezioni universali e personali della vita. Richter è solito riservare un approccio minimale e sperimentale ai lavori da solista.
Per questo nono capitolo in studio ha deciso inoltre di immergersi totalmente in uno stato meditativo registrando per la prima volta nello Studio Richter Mahr, uno spazio minimalista ed ecosostenibile progettato con la coniuge e artista visiva Yulia Mahr.


Di conseguenza è riuscito ad avvicinarsi al suo celebre The Blue Notebooks, che al suo interno contiene On the Nature of Daylight, brano che fa parte delle soundtracks del film Shutter Island (è per contributi come questi che la sua musica ha fatto il giro del mondo grazie ad oltre 1 miliardo di ascolti in rete). A tal proposito, l’artista ha affermato che: “La musica di questo disco è una connessione o una riconciliazione tra opposti. È una dinamica che ho iniziato a esplorare nel 2004 con l’album ‘The Blue Notebooks’, con cui questo nuovo progetto condivide molte tematiche”.

In a landscape


E in quello studio personale ed intimo circondato da 12 ettari di foresta ha preso forma ‘In A Landscape’. Le strumentali del compositore tracciano una linea narrativa influenzata dalla lettura di libri a lui cari, in cui è possibile riconoscere alcune sfaccettature familiari a Brian Eno e Philip Glass.
La riconciliazione tra opposti è data dall’alternarsi bilanciato tra tracce suggestive e “Life Studies”, 9 bozzetti sperimentali che racchiudono registrazioni sul campo, suoni urbani e modulati.
È molto facile immedesimarsi e farsi assorbire dagli ambienti sonori di questi Studies, tra intermezzi della vita domestica e camminate misteriose nei boschi, in riva al mare (Life Study I) o nel caos urbano. I suoni naturali dialogano con quelli ossessivi e minimali del compositore ma si può rimbalzare anche su delay industriali ipnotici (Life Study IV).


L’immaginario di Max Richter prende forma traccia dopo traccia, offrendo agli ascoltatori “scene che possono sentire” o viceversa. Ognuno può sentire e immaginare ciò che vuole, pescando naturalmente dalle infinite combinazioni emozionali offerte dalla natura umana. A questo punto, in Life Studies V qualcuno potrebbe anche aprire una porta a strapiombo sull’ignoto, e meravigliarsi nel vedere una stanza galleggiante in mezzo al mare.
La suggestività invece dell’altra metà dell’album è data dall’esperienza maturata da  Richter, che cuce una ricca gamma di sensazioni su trame sonore in cui ognuno può riconoscere la proprio storia o il proprio personaggio.


L’ipnotica e riverberata Only Silent Words è un ottimo esempio di avanguardismo dell’epoca con gli occhi del presente, che sconfina nella già citata Life Studies V preparandole oggetti di scena, luci e suoni. Le restanti tracce sono in bilico tra classico e moderno, orchestrazioni e minimalismo.
È difficile rimanere indifferenti quando già dall’inizio si ha un picco emozionale in They Will Shade Us WIth Their Wings, che nel finale si consuma lentamente come un dolce imbrunire.
Romantiche e struggenti, malinconiche e drammatiche, trascinano nello stesso stato meditativo dell’autore, a volte con semplici note al pianoforte (Andante), altre volte orchestrando a dovere la scena (And Some Will Fall).
E se un brano come A Colour Field (Holocene) ha una progressione di accordi che ti fa immaginare un featuring con Thom Yorke, è con Movement, Before All Flowers che si ha la risoluzione di un processo emozionale complesso, che finalmente raggiunge toni più sereni ed ottimisti.

Tra i lavori più riusciti dell’artista, In a Landscape potrebbe essere anche un omaggio all’omonimo album di John Cage registrato nel 1948, ma per il momento possiamo considerarlo come un nuovo punto di svolta per una visione rinnovata delle sue tematiche tradotte in musica.

/ 5
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Nick Cave & The Bad Seeds: la recensione di Wild God

  • Nick Cave & The Bad Seeds – Wild God
  • 30 agosto 2024
  • ℗ Bad Seed Ltd / Play It Again Sam

Il superamento delle avversità porta a confrontarci direttamente con le nostre emozioni. Reagiamo tutti in maniera soggettiva e differente: c’è chi, ad esempio, risponde alla delusione con la determinazione e chi invece con la malinconia, oppure c’è chi scrive canzoni per combattere e contrastare i dispiaceri della vita. Uno su tutti è di certo Nick Cave che con i suoi Bad Seeds ha fatto uscire lo scorso 30 agosto l’ultimo disco Wild Gold per la P.I.A.S. Recording.

Si tratta di un album che si discosta molto da quello precedente, Ghosteen: Cave passa dall’affrontare in modo struggente la perdita del figlio Jethro e della ex compagna e parte storica della band Anita Lane, all’elaborazione del dolore attraverso lo stupore della semplicità terrena, di perdono e redenzione. È molto chiara, sia nei testi che nella produzione, la presenza di un’evocazione positiva della serenità d’animo, racconti epici che sembrano venire da lande sperdute, destreggiandosi fra sacro e profano.

wild god

Grazie a Song of The Lake, la sensazione iniziale è quella di assistere ad una liturgia guidata dalle novelle di un pastore, in cui la voce decisa si fa spazio fra i cori di un matrimonio orchestrale. Con “once upon a time” solitamente iniziano le fiabe, e proprio come le fiabe in Wild God Nick Cave continua i suoi racconti temporali e divini: un Dio antropomorfo in cerca dell’amore perduto sulla terra, immerso in un sound che ricorda “spaghetti western” ma in chiave australiana e moderna.

Lo stupore per le cose semplici si palesa in Frogs, un mantra psichedelico di suoni ipnotici che accompagnano lo stupore di Cave alla vista di rospi che saltano durante la pioggia domenicale. Il vero momento sacrale però si raggiunge in Conversion, dove la voce straziante e le tastiere che riempiono i vuoti esplodono in una processione corale, trasmettendo un senso di risoluzione, quella che si prova anche dopo i momenti più bui della nostra esistenza. La consapevolezza del dolore e dell’essenza umana viene testimoniata alla fine dell’album con O Wow O Wow (How Wonderful She Is), dedicata ad Anita Lane: una canzone di glorificazione e non di lutto, solenne esaltazione per la “meravigliosa” persona che è stata.  

La canzone d’amore deve essere triste, come se la tristezza fosse il rumore stesso dell’amore” afferma Nick Cave In una lezione pubblica tenuta al South Bank Centre di Londra nel 1999.  Potrebbe sembrare un ossimoro, ma in realtà senza quella malinconica bramosia d’animo che coinvolge tutti prima o poi nella vita, le canzoni amorose non avrebbero carattere, risulterebbero piatte e false.

In un mondo così veloce, soggetto a continui stimoli, le emozioni faticano ad essere vissute nella loro completezza. Siamo affamati di serotonina e ci saziamo di costanti impulsi quotidiani. Nel poco tempo che ci rimane siamo costretti a guardarci dentro e lo stesso mondo che prima ci sembrava svelto ad un tratto rallenta drasticamente e si incupisce. Solo nel momento in cui accettiamo e affrontiamo le negatività che ci si presentano possiamo essere in grado di accogliere al meglio la purezza dell’amore e di questo, ancora una volta, Nick Cave insegna e si erge a profeta.  

4,5 / 5
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Mercury Rev: La recensione di Born Horses

  • Mercury Rev – Born Horses
  • 6 settembre 2024
  • ℗ Bella Union

Quando pensi alla neo psichedelia degli ultimi tre decenni non puoi di certo dimenticare i Mercury Rev, che dopo 9 anni sono tornati a far parlare di sé con Born Horses.
Carriera singolare la loro, che diversamente da molti rockers che si sono lanciati nel mondo delle colonne sonore dopo molto tempo (ricordiamo Trent Reznor e Atticus Ross oltreoceano, oppure i Verdena e Andrea Laszlo De Simone in Italia), sono partiti da sperimentazioni cinematografiche a basso costo, per poi diventare una band vera e propria alla fine degli anni ‘80.
C’è un nome importante dietro la loro nascita: Tony Conrad, uno dei maggiori esponenti del minimalismo, annusò le potenzialità della formazione, incoraggiandoli a debuttare come gruppo nel ricco panorama musicale. Dopo gli esordi più ruvidi e psichedelici, Jonathan Donahue e soci hanno toccato vette importanti con Deserter’s Song per poi consolidare la loro personale formula dream rock.
E oggi, parlando del loro nuovo disco, i Mercury Rev hanno citato proprio Tony Conrad tra le influenze. Ma non è tutto, perché hanno raccontato di simpatizzare per la dimensione eterea delle musiche di Blade Runner e di apprezzare lo stile poetico di Patti Smith. Inoltre è la prima volta che Donahue si abbandona al cantar parlato, facendo incontrare la narratività sonora tipica del grande schermo con la poesia.
E quella voce soffice ma incisiva arriva come due ali che si sfregano delicate, come il canto liberatorio di un uccello, eletto ad animale guida/voce interiore (“When I opened my voice to sing on this record, this was the bird that sang. It’s just the bird that wants to sing”).
Questi riferimenti al volo sono centrali nell’album, anche se il cantante si era concentrato sul tema già in altre occasioni (si consiglia l’ascolto di Funny Bird, una perla contenuta nel già citato Deserter’s Song).

born horses

A cosa si va incontro, quindi, se ci si imbatte nel nuovo lavoro dei Mercury Rev?
È appunto una colonna sonora in rime divisa in otto tracce e immersa nell’immaginario sognante e lucido che sembra proiettato in un futuro lontano, ma visto con lo sguardo del passato, come guardare Blade Runner, appunto, ma senza visione distopica. Inoltre Born Horses è caratterizzato da tocchi più jazzati rispetto al solito, rendendo omaggio a Chet Baker e Miles Davis, altri due grandi apprezzati dalla band di Buffalo. Si capisce subito, dalle prime note di Mood Swings, con Donahue che sussurra al microfono appoggiandosi ad un jazz fumoso e scivoloso. La tromba si perde tra i delay, come un incontro nel deserto tra gli Arab Strap e la versione rallentata e semplificata degli Ozric Tentacles, un brano che ispira tonalità viola/grigie.
Questi signori sono maestri delle sonorità dreamy. Nel dark-bossanova di You and I c’è un chiaro intervento di chitarra che puntualmente trascina giù l’ascoltatore, facendolo sprofondare nelle pieghe sognanti di un quadretto visionario.
Dove sono le ali? In Your Hammer, My Heart l’interpretazione del cantante pare suggerire all’uccello di spiccare il volo dopo le parole “my heart”, passaggio dopo il quale il brano raggiunge vette di epicità con l’aiuto di fiati, cori ed una scala discendente al pianoforte, come a dire che, se non fosse per la gravità, saremmo già lievitati per la potenza onirica liberata dagli strumenti.
Dopo le sfumature dream-pop ballad di Patterns arriva il brano “più cantato”, A Bird Of No Address, con un’altra analogia sul volo e l’evolversi finale su “fly on”.
Il passaggio più rappresentativo e identitario di questa nuova fase del gruppo lo troviamo con Born Horses, dove emerge la volontà di “fluttuare via dal presente” per recuperare la semplicità del passato (“I had a dream we were born horses/ And not human beings/ With more time to run/ And less time for things”).
Attenzione, perché l’energia sognante ormai è in circolo e viene sprigionata al massimo in Everything I Thought I Had Lost, raggiungendo l’apice dopo ogni “I keep finding again”, momento in cui si può immaginare l’uccello roteare a razzo verso l’alto, attraversando a gran velocità un fascio di luci e suoni (qui non c’è gravità che tenga). È l’unico episodio in cui sembra tornare un certo piglio post rock. 
 There’s Always Been a Bird In Me è la consacrazione finale colorata di new wave, la consapevolezza di aver avuto le ali da sempre (“There’s always been a bird in me”).

Bentornati Mercury Rev, in volo tra passato e futuro, in perenne sospensione, esplorando i confini tra sogno e realtà, vivendo nel mezzo sdraiati su morbide nuvole sonore.

4,0 / 5
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Beabadoobee: La recensione di This Is How Tomorrow Moves

  • BeabadoobeeThis Is How Tomorrow Moves
  • 9 agosto 2024
  • ℗ Dirty Hit

Nel 2017, Beabadoobee, pseudonimo della cantautrice britannico-filippina Beatrice Kristi Laus, ha fatto il suo debutto con uno stile grunge e lo-fi, ispirato all’indie rock degli anni ’90. L’artista ha catturato l’attenzione con il singolo Coffee, un brano indie-folk intriso di malinconia e speranza che ha risuonato tra gli ascoltatori grazie al suo fascino. Cresciuta in un contesto multiculturale, nata nelle Filippine e trasferitasi a Londra durante l’infanzia, Beabadoobee ha trasformato le sue esperienze di vita – segnata da razzismo e stereotipi – in un’opera musicale che unisce shoegaze, ballate minimaliste e grunge, esemplificata nel suo album di debutto Fake It Flowers del 2020.

Con il successivo Beatopia nel 2022, Laus ha approfondito la sua estetica nostalgica, ma con tocchi contemporanei, esplorando un suono più variegato che ha unito l’indie-rock degli anni ’90 a elementi di jazz-pop e influenze più moderne. Brani come The Perfect Pair e Glue Song hanno consolidato la sua capacità di fondere stili apparentemente differenti, creando pezzi che parlano alla nuova generazione senza dimenticare le radici del rock alternativo.

L’album più recente di Beabadoobee, This Is How Tomorrow Moves, pubblicato il 9 agosto 2024, rappresenta un nuovo capitolo nella sua evoluzione musicale. Prodotto da Rick Rubin nello studio Shangri-La a Malibu, l’album è una riflessione sul dualismo tra l’ascesa alla fama e il desiderio di autenticità e intimità personale. Rubin, noto per la sua capacità di scavare nell’essenza di vari generi musicali, ha aiutato l’artista a mantenere il cuore attitudinale del rock anni ’90, ma con un tocco che risponde alle tendenze musicali odierne. Il disco offre una gamma sonora che spazia dal grunge al pop, con influenze jazz e indie, riflettendo un panorama sonoro ampio e inclusivo.

L’album è ricco di fusioni inaspettate: ritmi bossa nova, atmosfere “zoomer-gaze” e omaggi ad artisti iconici come Elliott Smith, mostrando la crescita di Beabadoobee come artista capace di creare strutture complesse in brani che esplorano temi di amore, perdita e identità.

This Is How Tomorrow Moves

Take a Bite, brano di apertura, cattura l’energia degli anni ’90, con chitarre distorte e produzioni dense che richiamano The Smashing Pumpkins. È caratterizzato da un mix di grunge e pop degli anni 2000, riflettendo le tensioni e le sfide adolescenziali dell’artista. Il tono è rilassato ma determinato, con testi che esplorano le contraddizioni del crescere. California è una traccia tributo all’alt-rock degli anni ’90, con influenze di band come i Pavement. La traccia riflette il “sogno americano” dal punto di vista di una giovane outsider che cerca di trovare il suo posto in un mondo complesso e disorientante. Le sonorità malinconiche e i testi riflessivi enfatizzano un desiderio di fuga e una ricerca di identità.

One Time è un brano che si ispira allo stile di Elliott Smith, con una melodia morbida e sognante. Il ritmo in tempo di valzer aggiunge un tocco nostalgico, mentre i testi esplorano la vulnerabilità e il desiderio di autenticità. È un pezzo che mescola delicatezza e introspezione, con influenze Beatlesiane, mentre su Real Man ci scontriamo con sincerità e genuinità, a confronto con vulnerabilità e disillusione. Beabadoobee utilizza una narrazione personale, descrivendo la sensazione di innamorarsi troppo facilmente per poi rimanere inevitabilmente delusa, comunicando la sua aspirazione a relazioni vere e sincere.

Tie My Shoes riflette sulle relazioni giovanili e la dipendenza emotiva, con una melodia dolce e arrangiamenti minimalisti. I testi evocano immagini di innocenza e intimità, creando un’atmosfera rilassata e contemplativa. La traccia rispecchia le sonorità più delicate di Beabadoobee, con una produzione semplice e diretta. Attraverso una melodia piano-voce, Girl Song affronta con una dolcezza disarmante le difficoltà riscontrate dalle ragazze al giorno d’oggi, sfiorando i temi del giudizio rispetto all’apparenza fisica, il tentativo di rientrare negli stereotipi di bellezza quasi perdendo di vista la propria identità, con una sensazione di dover sempre provare qualcosa alla società che è sempre costante parte della quotidianità.

Coming Home, scritto durante un soggiorno a Los Angeles, è un brano caratterizzato da un’atmosfera tranquilla e contemplativa, con arrangiamenti acustici e uno stile che richiama, ancora una volta, Elliott Smith. La canzone è una porta aperta sulla vita di convivenza, descrivendo tutte quelle piccole azioni quotidiane e le faccende domestiche che si incastrano con il tentativo di trovare tempo per la relazione. Ever Seen è una traccia con una nuova energia, dinamica e vibrante, attraverso la quale viene descritta l’importanza e la potenza emotiva di una relazione riflessa negli occhi di entrambi i componenti della coppia. In A Cruel Affair si fondono elementi indie e bossa nova, creando un’atmosfera particolare che parla di una relazione complicata e non del tutto delineata. Con una melodia leggera e ritmi caldi, il brano cattura la complessità delle relazioni moderne, mantenendo una leggerezza melodica.

Post presenta elementi pop che passano attraverso un filtro “zoomer gaze”, fondendo shoegaze e dream pop. Esplora temi di amore e perdita, utilizzando suoni eterei e riverberi per creare un effetto avvolgente e sognante, ispirato alla produzione pop di Taylor Swift. Beaches è una traccia più vivace che evoca immagini di spensieratezza e libertà tipiche della stagione estiva. La melodia è orecchiabile e incalzante, con testi che parlano del desiderio di fuga e di trovare pace ed equilibrio, richiamando un’estetica estiva senza tempo. Everything I Want può essere identificata come un “seguito spirituale” di Glue Song. Questo brano è estremamente romantico, con testi dolci e una melodia accattivante. Esprime la crescita di Laus nella comprensione delle relazioni, cercando di fare le cose “nel modo giusto questa volta”.

The Man Who Left Too Soon è una riflessione malinconica sulla perdita e il ricordo di qualcuno scomparso troppo presto. Musicalmente minimalista, la canzone mette in risalto la voce emotiva di Beabadoobee, con un arrangiamento semplice che accentua l’atmosfera intimista. Il brano è stato scritto pensando al suo ragazzo che, intorno ai vent’anni, ha subito la perdita del padre. This Is How It Went, il brano di chiusura dell’album, riflette sul processo creativo e sul ruolo della musica come forma di espressione che viene utilizzata per guarire e non per ferire. La canzone esplora il potere catartico della composizione, con testi che rivelano l’introspezione dell’artista e chiudono l’album con una nota sincera e riflessiva.

This Is How Tomorrow Moves è un album in cui traspare chiaramente la capacità dell’artista di fondere passato e presente, rimanendo fedele alla sua identità musicale pur sperimentando nuove direzioni. Con questo album, Beabadoobee dimostra di essere una voce interessante e versatile nel panorama musicale contemporaneo, capace di catturare e rispecchiare le emozioni di una generazione in costante evoluzione e sottoposta a una costante critica.

/ 5
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AcomeandromedA: La recensione di Omissis

A distanza di dodici anni da Occhio Comanda Clori, disco di debutto non che unico progetto, gli AcomeandromedA ritornano con “Omissis”. Questo contenitore di nove nuovi brani, pubblicati per Dischi Uappissimi (Buckwise, Bouvier, Lazzaretto), è una lente di ingrandimento sulla società moderna e sulla qualità della vita. 

La band, composta da Vito Indolfo (voce, flauto traverso), Willy Elefante (tastiere), Andrea Manghisi (chitarra), Matteo Simone (basso, synth) e Michele Manghisi (batteria), ha visto la luce per la prima volta all’inizio del 2008. Occhio Comanda Colori era si un progetto profondamente radicato nel rock, ma con decine di sfaccettature diverse. Il progressive si perde in una terra di confine a metà fra tempeste strumentali e strizzate d’occhio al pop. Da lì iniziano una serie di spettacoli live, non solo sul territorio italiano, intavolano collaborazioni con artisti internazionali e ampliano la loro visione di musica. Purtroppo tutto ciò non basta, perché gli AcomeandromedA si prederanno successivamente una lunga pausa, almeno fino a oggi (in realtà al 2022).

Messo in cabina di regia Giulio Ragno Favero, bassista del Teatro Degli Orrori, il gruppo ricomincia da dove si era fermato circa dieci anni fa. Con Omissis il quintetto pugliese, trova finalmente il modo di approcciarsi alla musica elettronica, tanto cercato prima del periodo di pausa, costruendo una palette sonora a metà fra Afterhours e Bluvertigo. 

omissis

L’album si apre subito con una delle tracce più interessanti. Le voci di Indolfo, immerse in ampi riverberi, galleggiano su stratificazioni di suoni sintetizzati e beat sincopati in Cosmiconica. La morbidezza dei primi minuti si schianta su assoli squillanti fill di batteria e suoni Industrial. Con Il racconto del passero, l’elettronica viene sovrastata da ritmi cadenzati e enormi distorsioni di chitarra prima che, su Tina, si torni alla leggerezza. Alla terza traccia capiamo quanto, ogni volta che droni, melodie sintetizzate o batterie elettroniche entrano a contatto con questo progetto, la band trovi uno spazio infinito per sperimentare, trovando in questo caso spazio per sax e archi.

Inizialmente pensato nel 2013, dopo un incontro con Max Casacci dei SubsonicaSalveremo il Mondo ha visto la luce oggi, dopo più di dieci anni, come singolo di punta di Omissis. Tornano graffianti stratificazioni di chitarra, che fanno da vere protagoniste del brano. Con La perfezione di una lacrima, la band si concede atmosfere acustiche, anche se per solo una manciata di secondi. La Title-track strizza l’occhio al pop e all’indie italiano. Omissis è un brano caldo, dove questa sono gli arpeggi di chitarra acustica ad uscirne protagonisti, prima di tornare alle sonorità che rendono questo album davvero interessante. Sto parlando Andrearitmia, dove noise e shoegaze danzano sotto le rauche voci di Indolfo.

Flauti e corde di nylon portano il disco alla chiusura, in una traccia messa insolitamente alla fine del disco. Intro viene sporcata da sonorità folk, a tratti quasi orientali, insinuandosi direttamente sull’outro di Omissis. Mello Mello è un’altra delle canzoni più longeve di questo progetto. Rilasciata inizialmente nel 2014, con il nome di Sleeping Lotus, dall’artista taiwanese Waa Wei Ruxuan, il brano trova una nuova energia sul finale dell’album.

/ 5
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Fontaines D.C.: La recensione di Romance

  • Fontaines D.C. – Romance
  • 23 Agosto 2024
  • ℗ XL Recordings

Sta succedendo di nuovo, vero?

“Di nuovo nell’oscurità” – sono queste le parole che Grian Chatten, frontman della band, ha utilizzato per aprire Romance, il nuovo disco dei Fontaines D.C. a due anni di distanza da Skinty Fia.  Eppure, saranno i richiami allo “Shining” di Kubrick nel video di Romance, o le lucenti melodie di Favourite, ma questo disco sembra apparire tutt’altro che oscuro.

Da quel debutto, Liberty Belle, uscito nel 2017, ne è passata di acqua sotto i ponti. Il quintetto è stato consacrato a salvatore del post-punk con Dogrel nel 2019. Ha sfiorato il Grammy nel 2021 dopo aver pubblicato A Hero’s Death. Lo switch vero e proprio arriva però nel 2022, quando la band tira fuori dal cilindro il suo terzo disco. Skinty Fia è la cosa più completa che abbiano mai fatto, uno dei migliori dischi irlandesi dal 2000 ad oggi e un classico istantaneo. 

Ora la domanda sorge spontanea: Per quale motivo siamo tornati indietro così tanto per parlare del nuovo album? La risposta è nei fili conduttori. Gli scorsi tre dischi erano legati a doppio filo dalla stessa identica visione. Un morboso attaccamento verso la loro terra natia. Mentre su Dogrel Chatten si era scagliato sull’Irlanda – e in particolare su Dublino – sul terzo disco, uscito dopo il loro trasferimento a Londra, la band appariva come tormentata da un insaziabile senso di colpa per aver lasciato quella terra che aveva contribuito a formarli come persone e come artisti. Bene, tutto questo sembra essere solo un lontano ricordo. Ora i Fontaines D.C. sono liberi da quel tarlo, liberi di andare oltre, di esplorare e sperimentare. Su Romance tutto questo è espresso all’ennesima potenza. 

Romance

Come sonorità possiamo dire che la band sembri ripartire dai tratti Shoegaze espressi su Skinty Fia, ma la verità – anche in questo caso – è molto più articolata. Mentre facevano da spalla agli Arctic Monkeys durante il loro tour, tutti i membri del gruppo hanno avuto modo di condividere gli uni con gli altri i generi e gli artisti più disparati. Si passa da Sega Bodega agli OutKast, dai Deftones ai Korn. Spunti sonori che vanno dall’Hip-Hop al Metal, hanno influenzato pesantemente i processi creativi dei cinque membri.

Si sono presi anche del tempo per loro stessi. Grian si è trasferito a Los Angeles e ha fatto uscire il suo disco di debutto da solista. Con Chaos For The Fly si è completamente staccato dalle sonorità cupe dei Fontaines, rifugiandosi nei toni caldi del Pop Barocco e del Folk. Ha scoperto un nuovo modo di scrivere e ha portato la sua voce verso orizzonti che non aveva mai sperimentato. Deegan, il bassista, si è trasferito a Parigi, mentre O’Connell, che insieme a Chatten rappresenta una delle menti più creative del gruppo si è spostato in Spagna. Ha contribuito, insieme a Peter Perrett (The Only Ones) ad alcune sue produzioni, ha esplorato l’arte di arrangiare gli archi e, nel mentre, è pure diventato padre. Poi, come in un film, il disco ha chiamato, e i cinque ragazzi di Dublino hanno risposto. 

Romance è il cambio di rotta più incredibile che una band potesse intraprendere dai tempi di Tranquillity Base Hotel & Casino dei Monkeys e – in un certo senso – ci sono delle sensazioni simili. Non a caso, concluso il sodalizio con Dan Carey, il gruppo si è rivolto a James Ford (Depeche Mode, Arctic Monkeys, Gorillaz), per la produzione. Lui più di tutti sa cosa vuol dire intraprendere un percorso di cambiamenti radicali e, più di tutti, sa come farlo mantenendo intatta l’identità artistica. Tra gli scricchiolii distorti dell’alt-rock anni ’90 e estetiche di primi anni 2000, i Fontaines D.C. suonano come la miglior band a cui potessero mai ispirarsi, loro stessi.

Messo da parte il senso di identità dei lavori precedenti, la band non riesce però a mettere da parte la costante sensazione di degrado in cui si sente immersa. Solo che, invece di abbandonarsi completamente ad essa, questa volta sceglie il distacco. Il disco si sposta verso orizzonti astratti, a metà fra ciò che è reale e ciò che è finzione. Grian e gli altri si tengono in equilibrio fra i due mondi come dei funamboli. E mentre questa pressione, e questa sensazione di degrado sembrano non scrollartisi mai di dosso, la band ci trova dell’amaro Romanticismo.

“Forse il romanticismo è un luogo” – canta Chatten tra inquietanti crescendo e imponenti melodie nella title-track. Su Starburster arriva uno dei momenti più sperimentali del gruppo, dove sezioni ritmiche propulsive e stridenti melodie di Mellotron, fanno da bozzolo per tematiche autodistruttive, prima di abbandonarsi a orchestrazioni barocche. Nato da un litigio tra Chatten e O’Connell, Here’s The Thing schiaccia il piede sull’acceleratore (o sui pedali delle distorsioni). Il brano è ansiogeno eppure alla costante ricerca di un briciolo di desiderio. Desire resta su questo ridondante gioco di ritmiche, delle montagne russe che oscillano fra ritmi narcotizzati e frenetici, abbandonati a tinte shoegaze e sonorità sensuali. 

Le influenze losangeline si avvinghiano a In The Modern World. Tra suoni fortemente ispirati allo slowcore di Lana Del Rey, il brano si addentra in tematiche fortemente politicizzate, che raccontano di un mondo decadente, del fallimento del capitalismo, e della lotta politica sotto un triangolo amoroso nell’occhio del ciclone. La cosa ironica è che non esiste niente di più romantico di tutto ciò. Su Bug emergono le influenze folk che hanno caratterizzato tutto il debutto solista di Chatten, con uno strumming che ricorda vagamente I Love You. L’acusticità viene polverizzata da orchestrazioni e chitarre squillanti, mentre il frontman danza fra due mondi, uno influenzato dai R.E.M. e l’altro dall’era più pop degli Smiths.

Loop e scricchiolanti chitarre acustiche guidano il sentimentalismo di Motorcycle Boy. Ciò che colpisce a questo punto di Romance è ancora una volta il testo. Grian non ha più paura di parlare di sentimentalità, non importa in che ottica. Nonostante il lavoro squisito di tracce come A Couple Across The Way, lo stesso Chatten aveva più volte detto di trovarsi in gravi difficoltà quando doveva scrivere di sentimenti. Bene, sembra aver trovato la sua strada. Sundowner è un’ode all’amicizia scritta e cantata da Conor Curley, mentre su Horseness Is The Whatness tornano, come ai tempi di Dogrel, i riferimenti a Joyce. Essenzialità e Orchestrazioni sono le due parole chiave di questo brano. Il battito cardiaco della figlia di O’Connell (che ha scritto e arrangiato la traccia), si unisce a un crescendo malinconico e allo stesso tempo caldo e avvolgente. 

Death Kink ancora una volta assorbe scelte sonore dai dischi precedenti, salvo poi trasformarle in strutture apocalittiche a sostegno di un testo che analizza in lungo e in largo il risveglio da una relazione guidata dalla manipolazione in un mondo che farebbe rabbrividire Orwell. 

E poi? Forse è meglio non svegliarsi mai del tutto. Il disco si chiude con il jangle-pop a tinte shoegaze di Favourite. Dite la verità, vi siete spaventati quando questa canzone è stata rilasciata come singolo. Avete pensato che i Fontaines D.C. fossero l’ennesima band venduta a chissà quale sistema discografico. Solo dopo aver ascoltato questo disco nella sua interezza realizziamo il suo vero significato. Perché a volte si può trovare del bello anche negli attimi di tristezza. Perché a volte ti è concesso solo arrenderti in balia degli eventi. Come l’amaro Romanticismo di due innamorati che si concedono l’ultimo bacio, mentre il mondo esplode.

5,0 / 5
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Un viaggio nella penombra di Cellophane Memories

  • Chrystabell & David Lynch – Cellophane Memories
  • 2 agosto 2024
  • ℗ Sacred Bones

“Chiunque, persino un deficiente, può prendere una canzone e ficcarla in un film. Per me la cosa si fa interessante quando il pezzo non se ne sta solamente lì appiccicato. Deve possedere degli ingredienti che siano davvero adatti a far parte della trama”.

Questa dichiarazione di David Lynch mette subito in chiaro cosa ha sempre fatto il maestro del noir durante la sua carriera. La musica non è quindi un elemento a sostegno o a supporto, ma è un personaggio fondamentale che partecipa alla storia. Non a caso il terzo capitolo di Twin Peaks (2017) ribadisce questa filosofia,  oltre a riproporre nelle scene molti musicisti, tra cui Eddie Vedder e i Nine Inch Nails (in passato anche David Bowie).
Forte di questa convinzione ancora oggi, l’artista ha rilasciato Cellophane Memories in collaborazione con la sua musa Chrystabell (anche lei nell’ultimo Twin Peaks).

Arrivati al terzo lavoro insieme, il duo ha consolidato gli esperimenti sonori di This Train e Somewhere in the Nowhere, firmando dieci tracce ispirate da una “passeggiata notturna attraverso una foresta di alberi alti”.

Cellophane Memories

Il regista è solito andare oltre il superficiale per immergersi nei meandri oscuri del visibile e dell’invisibile, cercando con tutte le forme artistiche che padroneggia (ricordiamo che, oltre ad essere regista, è sceneggiatore, attore, musicista e pittore) un barlume che dia senso alla battaglia tra luce e oscurità.
L’opera è uniforme, concettuale, suddivisa in formato canzone ma amalgamata da una trama sonora da soundtrack in cui la voce di Crystabell si scioglie calda e sensuale, riflettendosi nel panorama onirico raccontato dai sintetizzatori.
Sullo sfondo di questo panorama ci sono sempre una figura maschile ed una femminile, come si intuisce nel primo episodio. Ed è proprio in She Knew che il cantato sembra subito scivolare morbido sulle note.

Da questo momento in poi converrebbe ascoltare l’album senza nessuna distrazione, per entrare nell’immaginario proposto dai musicisti.
Le voci della cantante si rincorrono ma senza fretta, i suoni sono dilatati, così come lo spazio e il tempo. Il risultato è un’ambientazione in cui perdersi e, a tal proposito, Crystabell ha dichiarato di immaginarsi “molte porte lasciate aperte per meravigliarsi, vagare e sentirsi sconvolti”.
In So Much Love, ad esempio, ci si rispecchia alla perfezione con la visione di Lynch. I sussurri e le note incantate di Crystabell si annodano alle tastiere. È tutto così intenso che sembra di essere ovunque e da nessuna parte.
A livello compositivo si distingue leggermente The Answers To The Questions, che in realtà ricorda i passaggi blues-western del Lynch solista.

E se con With Small Animals si ha la sensazione di trovarsi all’interno dell’universo musicale di Blade Runner, in Reflections In A Blade c’è la descrizione in musica e parole di un incubo, un cortometraggio dell’inconscio riproposto in formato soundtrack.
Una carezza noir carica di paura e di sollievo al momento del risveglio.

Nel video di presentazione della ending track Sublime Eternal Love, il regista cerca di catturare la teatralità della cantante triplicando la sua immagine ed esaltando il suo magnetismo.
Che sia un sogno, un incubo, una visione crepuscolare o notturna, a 78 anni David Lynch dà prova in Cellophane Memories, ancora una volta, di riuscire a creare storie in cui ci si può immergere totalmente. Storie in cui perdersi e ritrovarsi, ascoltando il buio e cercando la luce, consolandosi nella penombra.


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Mezzosangue: la recensione di “Musica Cicatrene”

  • Musica Cicatrene – Mezzosangue
  • 19 Luglio 2024
  • Sony Music Entertainment

Uno sguardo al passato con gli occhi futuri. Da un’idea, un progetto, un mixtape nato dodici anni fa, ad un album, il quarto di una già brillante carriera. L’atmosfera è la stessa, la maturità è diversa. I suoni, nonostante la volontà di rimanere fedeli all’originale, si sono evoluti in un nuovo riarrangiamento degno del Mezzosangue che apprezziamo oggi. Per chi lo conosceva dai suoi esordi sicuramente queste tracce non saranno una novità, per chi invece l’ha scoperto da poco o lo ascolta per la prima volta di certo comprenderà come tali parole, seppure vecchie più di una decade, sono tremendamente contemporanee. Ciò che cambia è la profondità data dalle nuove sonorità, con l’aiuto di DJ Shocca e il featuring di Gaia.

L’uscita di questo “ritorno al passato” è stata anticipata dalla riedizione del singolo “Capitan Presente”. Il testo è sempre lo stesso, quanto mai attuale, ma la musica è più intima, quasi in contrasto con la violenza delle parole, il tutto anticipato dall’ormai noto discorso fatto per il rap contest “Capitan Futuro”, dove tutto ha avuto inizio.

I pezzi non sono stati stravolti, ma aggiustati, rivisti e resi più moderni, a partire dall’intro, leggermente più lungo del precedente, con dei piccoli dettagli musicali che esaltano al meglio le parole. Ma è con “Esistenzialismo” che si evidenzia ancora di più questo cambio di passo: la base è completamente diversa, più moderna e strutturata, ed esalta al massimo le varie fasi del pezzo, anche durante gli intermezzi del discorso tratto dal film Matrix. Nessuna rivoluzione, ma un restyling ad hoc di un pezzo che già era storia.

Più “tradizionale” invece l’ottima “Still Proud”, ma anche qui i dettagli fanno la differenza, con l’intervento di DJ Shocca, che concede piccoli tocchi di dubstep ad una base già funzionante di suo. Una canzone che assume un carattere diverso, più forte e memorabile della precedente versione. Altro esame ampiamente superato.

Nel caso di “Soldierz” viene stravolta anche la durata, quasi dimezzata, togliendo una buona parte della coda finale ed aumentando leggermente i bpm. Ennesima prova di maturità del rapper romano. Con “Piano A” si arriva alla vera hit dell’album. In questo caso il pezzo funzionava molto bene già dodici anni fa e ha solo tratto beneficio dalle piccole rifiniture aggiunte nella traccia. Parafrasando il brano, a Mezzosangue non serve mai un piano B.

L’impatto della “vecchia” versione di “Mezzosangue” era sicuramente più forte e diretto, mentre all’interno dell’album l’irruenza, seppur mantenuta nel testo e nella voce, è stata attenuata a beneficio di una maggiore attenzione alla sonorità. Questo è forse l’unico pezzo in cui la prima versione, se non migliore, è al pari del suo re-edit.

Nevermind” ha mantenuto il suo sapore iniziale, dolce e amaro, come è giusto che sia. Un pezzo violento e poetico al contempo, collocabile in qualsiasi epoca senza sfigurare mai.

A poco meno di undici minuti dalla fine di questo “viaggio nel tempo” si arriva al vero capolavoro: “Secondo Medioevo” è un diretto in faccia, senza preavviso, dove si contrappone una voce urlata ad una musica più lieve e quasi orchestrale. Il balzo in avanti qui è clamoroso e la nuova produzione la rende perfetta, dall’inizio alla fine.

Quello che potrebbe essere definito una sorta di intermezzo per via della sua durata, risulta molto diverso nelle due versioni: più in linea col resto del mixtape prima, una piccola perla nella nuova opera. Meglio la prima “Shylock” o l’attuale? Ai posteri l’ardua sentenza, si parla semplicemente di gusti soggettivi.

L’intimità raggiunta nella penultima traccia di questo nuovo album toglie tutti i dubbi su quale sia la migliore versione: “Musica Cicatrene” viene esaltata da una produzione di mirabile fattura, che la rende quasi cinematografica.

Al posto di “Incazzato Nero (outro)”, dove veniva lasciato spazio ad un monologo favoloso tratto da Quinto Potere, Mezzosangue ha preferito un saluto più romantico e ottimista, con l’ausilio della splendida voce di Gaia. L’irruenza dei vent’anni viene sostituita dalla maggiore saggezza dei trenta e “Piove Musica” è un degno ringraziamento a quello che salva tutti i musicisti, nonché il giusto finale di un’opera più completa e importante della precedente.

È anche la sua versione live, che ho potuto apprezzare al Superaurora Festival a Roma, non ha deluso le aspettative. Immerso nel suo pubblico, Mezzosangue ha dato il meglio di sé, come sempre.

mezzosangue

Chi conosce Mezzosangue sa che il suo percorso ha avuto un’evoluzione costante, ma l’occhio al passato ci ha fatto riscoprire un incipit che veramente pochi possono vantare. In attesa dei prossimi inediti, ci godiamo questi nuovi ricordi.

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Ramco: La recensione di Pròto

  • Ramco – Pròto
  • 20 luglio 2024
  • ℗eRRe 

Ramco è il titolo del progetto “solista” di Marco Franceschelli. Inizialmente partito come chitarrista dei Fronte della Spirale (2016), con cui ha pubblicato un disco nel 2019, e come membro di punta dei Blind Ride, progetto a cui ha dato anche la voce, il musicista di Campobasso ha virato verso sonorità completamente diverse, quando nel corso del 2023 ha dato vita al suo progetto da solista. 

L’idea dietro Ramco è sempre stata quella di sviluppare un’entità, più che un artista, che potesse abbracciare non solo l’espressione musicale di Franceschelli, ma anche quella di tutte le personalità artistiche che hanno orbitato attorno al progetto (e ce ne sono diverse) durante la sua stesura. Registrato inizialmente con un’ottica DIY, il progetto, che più avanti diventerà Pròto, inizia a svilupparsi maggiormente con la partecipazione di Domenico Simonelli, che contribuirà a creare un connubio perfetto tra acustica ed elettronica con l’aggiunta delle sezioni di Drum Machines. I brani subiscono mutazioni per svariato tempo, fino a quando, nel dicembre dello scorso anno, con l’ingresso di Fulvio Gramegna (basso), inizia il processo di produzione vero e proprio. Le registrazioni vere e proprie di Pròto cominciano in realtà durante febbraio 2024 a Bologna, presso “Lo studio Spaziale”, sotto la supervisione di Roberto Rettura. 

Pròto

Il disco si apre con Right the Other Side. La prima cosa che emerge durante l’apertura è che ogni ritmica repentina, ogni distorsione massiccia e in generale i più canonici tratti punk dei precedenti progetti di Franceschelli qui vengono ridotti all’osso, per far spazio a riverberi, sintetizzatori e suoni ambientali. My Names is Nothing è la prima traccia di Pròto ad aver visto la luce del sole lo scorso aprile. È un brano più dolce rispetto al suo precedente in cui le strutture di chitarra, profondamente ispirate ad un indie-rock di matrice britannica di primi anni ’90, fanno da protagoniste.

Il pesante pattern ritmico di Your Life apre ad un arrangiamento cupo e minimale, che avvolge le traballanti linee vocali di Marco. Ego’s Lie è caotica. Le voci si consumano lungo gli strumming squillanti di chitarra, per poi perdersi negli ampi riverberi del brano. L’EP si chiude con The Last Hope, brano che in qualche modo torna al punk del primo periodo, pur con una connotazione sonora completamente diversa. 


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Clauscalmo: La recensione di Passo Monteluna

  • Clauscalmo – Passo Monteluna
  • 19 aprile 2024
  • ℗ La Tempesta Dischi

Clauscalmo si presenta come un progetto intimo e stratificato, nel quale l’autrice investe musicalmente per creare un genere ibrido che riunisca un ascolto retro e una potenza atavica. Il progetto solista di Clara Romita, artista e batterista salentina classe 1994, giunge dopo vari episodi musicali pubblicati sporadicamente a un vero e proprio album, due anni dopo l’ep Record e varie collaborazioni (72-Hour Post Fight, Any Other, Montag, Vipera). Il suo particolare stile, che nei live del suo progetto la vedono cantante e allo stesso tempo percussionista, è arricchito da uno stile musicale complesso ma anche lineare, onirico e ritmico insieme. 

Passo Monteluna, un nome ispirato dalla serie videoludica “Star Fox”, esprime in poco più di una mezz’ora le idee creative della sua autrice. La nuova produzione, condotta insieme a Niccolò Cruciani (C + C = Maxigross), esce per La Tempesta Dischi il 19 aprile 2024. Le undici tracce inserite nel disco sono anticipate da due singoli presenti nell’album, Il nome del capitano e A metà

Passo Monteluna

La musica di Clauscalmo viaggia tra un’epoca e l’altra, che tocca un cantautorato vintage e subito dopo svolazza verso la musica contemporanea e i suoi sperimentalismi. Un soffice motivo di chitarra apre il disco, in cui si inseriscono con dolcezza gli altri strumenti e il cantato (Casca la terra). L’atmosfera del disco è stata appena messa sul piatto, e prosegue lungo tutta la sua spina dorsale. La voce accompagna sottile, avvolta bene nelle trame delle composizioni; i ritornelli sono invitanti ed efficaci, e spesso sublimano l’insieme degli strumenti presenti nei brani.

Il singolo A metà incatena chi ascolta in un ritmo gentile, esordito dalle pennate di una chitarra elettrica, e cresce progressivamente fino a una sorda esplosione. Se lui non viene incalza l’ascoltatore fino ai due interludi centrali del disco, Reprise e Niente da fare, e approda all’armoniosa ed evocativa Un brutto sogno si ripete spesso. Infilato tra due tracce di raccordo, le quali abbracciano un ensemble di strumenti, c’è Patti chiari, che unisce un elaborato songwriting a dritte sezioni musicali. Ora io vado via è una giusta fine del viaggio, un brano lungo e conclusivo, che certifica e porta a compimento l’ambiente uditivo che è stato impalcato finora.

Clauscalmo lascia l’ascoltatore in balia di un lento viaggio dentro un sapere intimo e circoscritto, in cui le riflessioni musicali gli fanno da padrona. È un viaggio di maturità e coscienza, per un disco d’esordio dal sound riconoscibile e che ispira una pregevole sicurezza artistica. L’ascolto del disco ispira coerenza e confidenza, riuscendo ad aprire le porte del mondo ben illustrato e a dare l’idea che definisce lo stile musicale di Clauscalmo. 


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