shoegaze

Diiv: La recensione di Frog in Boiling Water

Ci sono artisti che col passare del tempo mutano e sperimentano suoni, per perdersi in nuovi stimoli e poi ritrovarsi a proprio agio in altre vesti. Nel caso dei DIIV non si tratta di un cambio di abito ma tuttalpiù di colori. Infatti, con l’ultimo lavoro “Frog in Boiling Water”, uscito lo scorso 24 maggio per la Fantasy Records, la band è passata da immaginari più astratti ed eterei ad altri più pragmatici e viscerali, sedimentando al contempo il sound che li ha fatti diventare il punto di riferimento della scena shoegaze.

Rispetto agli scorsi tre album pubblicati, quest’ultimo ha avuto un parto tutt’altro che semplice, dovuto principalmente ai tumulti pandemici e al passaggio di etichetta, dalla Capture Tracks alla Fantasy. Inoltre, la svolta sulla produzione musicale e lirica, non più solo in mano a Zachary Cole Smith ma in buona parte a tutto il resto del gruppo, ha creato un’interazione espressiva che rende il nuovo lavoro sicuramente più maturo e diversificato rispetto ai precedenti.

Frog in Boiling Water

Il nome dell’album è un richiamo esplicito al romanzo The story of B. di Daniel Quinn e implicito al principio della rana bollita del filosofo Noam Chomsky, in cui viene descritta l’incapacità dell’essere umano moderno di reagire prontamente alle avversità, se non quando è ormai troppo tardi, proprio come una rana messa a bollire a fuoco lento che non si accorge dell’epilogo della propria inesorabile sorte. Frog in Boiling Water presenta difatti continui messaggi socioeconomici attuali e più o meno diretti, rivolti ad un mondo sempre più devoto al capitalismo e al consumismo imperante.

In Amber è la prima traccia e con essa ci si immerge in atmosfere inquietati, con distorsioni che inglobano quasi totalmente la voce del cantante, il quale nel frattempo esprime la rassegnazione per un futuro già scritto, il desiderio di sparire e ritrovarsi alla fine del tutto come un fossile di ambra.

Proseguendo nell’ascolto arriva in Raining on Your Pillow, traccia energica colmata dall’acutezza dell’arpeggio di chitarra, tappeto sonoro che riempie il pezzo per tutta la sua durata, insistente come le piogge invernali, pungenti, fredde, quasi fastidiose. Il senso di inadeguatezza si spezza con l’avvento di Everyone Out ed i suoi armonici battenti sulle corde metalliche, dove il senso di dolore si tramuta in consapevolezza delle proprie azioni passate ma soprattutto su quelle future di emancipazione – “Try and stop me know, I’m ready for my rise”.

Con Somber The Drums si ha la crasi dei tre album precedenti: l’altalena sonora di “Deceiver”, la linea melodica di “Is The is Are” e il climax perpetuo di “Oshin”, un insieme di elementi dosati e missati perfettamente per un risultato quasi perfetto.

L’immaginario di cui sopra viene completamente sviscerato con Soul-Net: si ha di fronte una società fittizia neanche troppo lontana dalla realtà, resa ancora più grottesca dall’omonimo soul-net.co, un sito web zeppo di contenuti complottistici e psicotici, creato appositamente per alimentare il concept di critica e collasso sociale.

Con queste dieci tracce e con non poche difficoltà la band è riuscita a superare l’impulsività e l’hype dei primi anni, arrivando in poco più di una decade a consacrare la propria bravura e determinazione artistica. Un sound che strizza l’occhio ai giganti del genere come Slowdive e My Bloody Valentine ma che rimane nell’atteggiamento indie che li ha da sempre contraddistinti. Al quarto album i DIIV continuano a dire la propria senza mai discostarsi troppo dal nido shoegazer, approfittando della loro crescita e maturità. Seppur trattandosi di un buon lavoro, con un ottimo imprinting non solo musicale ma anche sociale, forse sarebbe giunta l’ora per i quattro di Brooklyn di allontanarsi dal solito vestiario e indossare indumenti nuovi, differire dalla rana e saltare via dall’acqua bollente, si con il rischio di fallire, ma almeno con la consapevolezza di averci provato.

Voto 7,5

5,0 / 5
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Naturamorta: La recensione di Luna

  • Naturamorta – Luna
  • 26 Giugno 2024
  • ℗ Naturamorta

Naturamorta è il nome di un progetto freschissimo, nato al tramonto dello scorso anno, ma non per questo meno interessante, da Manuel Di Pierro, musicista torinese già attivo da qualche anno nella scena alternative italiana. Prima di arrivare a questa forma, Di Pierro, aveva messo la sua voce nel gruppo torinese, da lui stesso fondato, insieme a Samuel Nobile. Le tinte indie-rock di quei primi lavori, rimangono nello scheletro di questo nuovo progetto e uno dei motivi è probabilmente attribuibile alla formazione di Naturamorta. Per questo nuovo progetto, Di Pierro si è portato dietro dai Millais Flower Honey, Samuel Nobile, chitarrista, e Manuel Crova al basso, appoggiati poi da Emanuele Campiglia come chitarrista secondario e Davide Soranzio alla batteria. 

Naturamorta

Se è vero che da una parte Naturamorta mantiene una punta dell’indie-rock del progetto precedente, dall’altra riesce a evolversi in maniera piuttosto interessante. “Luna”, terzo singolo, uscito a cinque mesi di distanza dal doppio “Fiori Morti/Nero”, ne è un ottimo esempio. Nei quasi cinque minuti di traccia, la formazione si avventura verso strade insolite, mescolando allo shoegaze, soluzione sonora preponderante del brano, a batterie elettroniche che strizzano l’occhio ai pattern ritmici complessi della Drum N’ Bass. Nonostante questo tipo di scelte siano qui a ricordarci che le contaminazioni sonore sono la salvezza della musica, la band tira fuori il meglio quando si trova nella sua zona di comfort. Quando sulle sonorità elettroniche e a tratti darkwave, si schiantano muri di distorsioni e chitarre graffianti, a sostegno delle sottili linee vocali di Manuel. 

A conti fatti, Luna prosegue su quegli oscuri sentieri calcati su, “Fiori morti” e “Nero”, introducendo il gruppo a nuove scelte sonore e preparando il trampolino di lancio per il loro primo EP, in uscita questo autunno.


Se ti è piaciuta Luna, potrebbe interessarti: Give Vent, Calma Ora.

4,8 / 5
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Blue Rev: la recensione del terzo disco degli Alvvays

Il destino di Molly Rankin era già scritto alla sua nascita. La figlia di John Morris Rankin, della band canadese, The Rankin Family, è nata con la musica nel sangue. La frontwoman degli Alvvays, però si è ben presto allontanata dall’educazione folk che le terre rurali della Nova Scotia le avevano instillato, pur mantenendo un amore speciale per il genere. Dopo una breve carriera da solista, in cui ha pubblicato un solo EP, l’artista delle “terre del nord” fa la sua conoscenza con Alec O’Hanley (attualmente chitarrista del gruppo). Il chitarrista dei Two Hours Traffic sporcherà gli elementi folk e Twee Pop di Molly con indie rock, dream pop e shoegaze. Insomma, gli Alvvays sono un successo non solo prima di Blue Rev, ma addirittura prima di nascere. 

Dopo il successo dei due dischi precedenti “Alvvays” e “Antisocialities”, la band si è trovata nel vortice dei revival musicali che hanno caratterizzato la seconda metà degli anni ’10. A differenza di tanti altri, Rankin e Soci hanno surfato divinamente su quell’onda shoegaze che ha trovato il suo culmine nel corso del 2023. 

Molly e Alec, hanno iniziato a scrivere “Blue Rev” nel corso del 2017, subito dopo Antisocialities, ma una serie di problematiche non di poco conto, quella della pandemia prima fra tutte, hanno ritardato le sessioni di registrazione del disco. Una volta arrivati in studio, affidate le tracce a Shawn Everett (Brittany Howard, The War On Drugs, Beyoncé), il quintetto ha portato Alvvays ad un passo successivo, un nuovo livello di grandezza. Blue Rev entra di diritto nella lista dei più grandi dischi del genere, attraverso un’analisi dettagliata nelle radici di pop e rock. 

Sebbene il disco sia profondamente innovativo, e in questo Everett è stato un maestro, la cosa davvero brillante è la sensazione di familiarità che trasmette, dalla prima all’ultima traccia. 

Blue Rev

Le melodie filtrate esplodono in chitarre ruggenti nella nostalgica apertura. Pharmacist riporta a galla vecchie relazioni finite, tra ricordi e accettazione, non tanto della relazione in sé, quanto dei cambiamenti. Su Easy On Your Own?, gli strati scricchiolanti di Synth, fanno da tappeto perfetto per una Molly che riflette sul modo in cui le scelte influiscano sulle nostre vite come, ad esempio, l’abbandono dell’università per inseguire un sogno. “In quei giorni non ti avrei mai lasciato a pezzi” – canta nella Morisseyiana After The Earthquake, a metà fra punk e morbido indie rock. 

Le atmosfere movimentate si perdono nei riverberi di Tom Verlaine, traccia dedicata al Cantante/chitarrista dei Television. Ritornano con più forza in Pressed, colma di sonorità prese in prestito da Johnny Marr. Tutto il disco si muove ciclicamente fra post-punk, indie rock e Shoegaze, e lo fa dannatamente bene. Many Mirrors si tuffa nell’autostrada dei ricordi, con tastiere scintillanti e sonorità soffici, ricorda i primi Alvvays.

I ricordi pandemici riaffiorano su Very Online Guy. Tra ritmiche sporche e sovrapposizioni vocali, la traccia racconta la vita (in questo caso una frequentazione), filtrata dai pixel, dai followers e dai filtri stessi. Le liriche ironiche esplodono in un turbine di malinconia in Velveteen. “Chi è lei?” / “Perché non posso essere io?” – canta Molly tra assoli squillanti e crescendo di arpeggi sintetizzati nell’ennesima storia andata in frantumi. Eppure le melodie sono così soffici che sembra quasi impossibile riuscire a vedere quei nuvoloni neri, colmi di tristezza che spesso troviamo nei testi. 

Ancora amori, e ancora amori andati male. Tile By Tile si colora di suoni barocchi: dalle chitarre, spogliate di tutti gli effetti, alle orchestrazioni, agli organi che occupano il punto centrale nell’arrangiamento. La band torna con una dose massiccia di irriverenza, nell’energico inno punk Pomeranian Spinster, prima di muoversi su una delle tracce di punta di Blue Rev. Le sonorità anni ’80 sull’intro di Belinda Says sono solo l’apri pista per un arrangiamento impeccabile. Il brano è una ballad nostalgica piena di dubbi e incertezze: “Troverò la mia strada” / “Avrò un bambino” / “Cambierò Città”. Sembrano tutte più domande che affermazioni, in una composizione che cerca di dare un volto al dover crescere.

Bored in Bristol si ripulisce da ogni schizzo di nostalgia, portando il disco verso un attimo di spensieratezza, per spegnere il cervello e non pensare. Dura davvero poco, perché, mentre le dita di Kelly MacLellan toccano dolcemente i tasti del piano elettrico, Molly si affida a Kate Bush, per far fronte alla sua solitudine. La chiusura del disco (Fourth Figure), a metà fra requiem e Baroque Pop, mette il sigillo finale ad uno dei dischi migliori che il 2022 abbia regalato. Il brano dura a malapena un minuto, ma questo non ha impedito agli Alvvays di creare un arrangiamento complesso e magistrale, in cui la spettralità diventa un tutt’uno con la quiete.

/ 5
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May Eyes Love: La recensione di “Letters To A Dead Friend”

  • May Eyes Love – Letters To A Dead Friend
  • 17 Novembre 2023
  • ℗ Coypu Records / Dear Gear / Shore Dive Records

I May Eyes Love, aprono le danze con il loro EP di debutto, dal titolo “Letters To A Dead Friend”, una miscela di Shoegaze e Dream Pop. Il quartetto è nato durante Aprile di quest’anno, dall’incontro degli ex membri degli You, Nothing e Silvia Lovicario.  I tre musicisti, Federico Costanzi alla chitarra, Giulia Cinquetti al basso e Nicola Poiana alla batteria, hanno trovato in Lovicario, voce e chitarra, il tassello mancante per il loro nuovo percorso artistico, nato sotto l’ala dell’etichetta inglese Shore Dive Records.

Muri di noise, suoni processati e il connubio perfetto fra Dream Pop e Shoegaze, sono solo il punto di partenza delle sonorità della band, che in tre canzoni sperimenta con contaminazioni capaci di spaziare dal post-punk all’indie rock, incastonate in strutture melodiche morbide e tematiche cupe: perdita, fragilità e differenze. 

La prima fase concettuale dell’EP è arrivata molto presto, ancora prima che i May Eyes Love fossero realmente una band e ancora prima della scelta del nome. Quello che forse emerge in maniera più forte da questo progetto è proprio la transizione, da ciò che le entità del gruppo erano a quello che sono diventati, maturità e unione, tutto consolidato in tre tracce. Dopo la fase embrionale, la band si è trovata al Gypsy Studio dove insieme a Cristiano Tommasini e Gianluca Bianco hanno lavorato alla produzione e post-produzione del disco. 

La prima cosa che colpisce durante l’ascolto è la semplicità dei testi. La band taglia fuori ogni struttura “barocca”, riducendo tutto al minimo indispensabile. L’apertura, “Our Long Goodbye” esplode in pattern ritmici veloci, e arrangiamenti di chitarra che strizzano l’occhio ad atmosfere post-rock, mentre la voce di Silvia galleggia verso gli orizzonti post-punk dell’attacco di basso in “Why Everything We Care About Is Falling Apart?”. Ciò che è veramente importante nella composizione del disco è che nonostante vengano inseriti diversi elementi esterni alle ambientazioni principali, restano sempre nel contorno delle tracce, senza mai far distogliere l’attenzione dal genere principale. La traccia di chiusura, “Broken Lily”, rallenta il ritmo, i muri di distorsioni si assottigliano e il Dream Pop prende il sopravvento, con le morbide stratificazioni sonore che cullano la voce di Lovicario.

/ 5
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Mad Honey: La recensione di “Satellite Aphrodite”

  • Mad Honey – Satellite Aphrodite
  • 22 Settembre 2023
  • ℗ Deathwish Inc. / Sunday Drive

Lo Shoegaze fa parte del mondo della musica da oramai circa quarant’anni e, anche dopo tutto questo tempo, trova sempre nuovi punti per evolversi. I Mad Honey, quintetto di Oklahoma City, sono solo l’ennesima conferma dell’incredibile evoluzione di uno dei generi più rivoluzionari della musica moderna. 

I “Mad Honey” entrano a gamba tesa nell’industria musicale con “Satellite Aphrodite”, album d’esordio, dopo aver colpito il pubblico con una serie di singoli negli scorsi tre anni. Tutto il processo creativo, dalla scrittura dei testi fino alla produzione, opera del bssista Lennon Bramlett, prende forma e si concretizza tra le fila del gruppo. 

La malinconica traccia di apertura “Tuff’s Last Satand” crea, attraverso i suoni sporchi e riverberati l’atmosfera perfetta per un disco con pochissime sbavature. Tutto il disco è invaso da un’aurea anni 90, in particolar modo su “Lakpur”, “Havier Still” e “Psycho”, in cui i Mad Honey, riescono a ricavarsi lo spazio per combinare il dream-pop a pesanti strati di distorsioni e vocalizzi. 

In questo, la cantante e frontwoman Tiff Sutcliffe è una vera esperta. La cantante gioca con vocalizzi intrisi di riverbero, armonie vocali e testi malinconici di stampo Mazzy Star.

“Fold” è il vero banger di questo LP. Le chitarre squillanti si mescolano a sintetizzatori pastosi, riuscendo a plasmare l’atmosfera per le linee vocali della Sutcliffe, che rimangono in secondo piano, senza mai far distogliere l’attenzione da una strumentale quasi perfetta. Ognuna delle undici tracce che compongono questo disco è nel posto giusto al momento giusto. 

La tensione cresce continuamente nelle tracce successive. La batteria sincopata di Austin Valdez da a “Eileen” un’ultraterrena, e fredda, mentre in “E.T.Y.N.”, la band gioca con suoni cavernosi e sporchi e sentimenti.

L’apice della tensione di questo disco si raggiunge con “Concentration”, penultima traccia. Il secondo banger di “Satellite Aphrodite” tocca sonorità stile Slowdive. La strumentale si spoglia di tutti i suoni in eccesso, lasciando il comando alla cantante sulle strofe e ritorna pesante e stratificata sui ritornelli, creando montagne russe emotive per tutti i suoi tre minuti e mezzo. 

La tensione si dissolve nella calma traccia di chiusura, nonché titletrack. “Satellite Aphrodite” è anima, spirito e atmosfera allo stato puro. Se quella del disco di debutto è una delle prove più dure da superare, i Mad Honey hanno battuto tutte le aspettative, dando al pubblico un disco intriso di magia. 

Voto: 7.9/10

/ 5
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Slowdive: La recensione di “Everything is alive”

  • Slowdive – Everything is alive
  • 1 Settembre 2023
  • ℗ Dead Oceans

Ritorna lo shoegaze, e lo fa nel migliore dei modi. “Everything is Alive”, quinto album della band, nasce sotto la tempesta in cui il quintetto di Reading si è ritrovato dopo il precedente disco. La morte della madre di Goswell e del padre di Scott, avvenuta nel 2020, i fantasmi della rottura con Creation Records, un pubblico non più abituato al loro stile e i vari progetti solisti si incanalano all’interno del flusso creativo di questo disco. 

“Everything is Alive” è un flusso continuo di emozioni profonde rivestite con suoni scintillanti ed eterei. Sebbene il gruppo mantenga in parte il suo stile, questo disco viaggia verso orizzonti sonori diversi rispetto a “Slowdive”, che costituiscono il binario perfetto per tutte le esperienze vissute negli ultimi sei anni. 

Slowdive - More than a legacy band | RNZ

Il disco è capace di passare da situazioni più sporche a palette sonore eteree e pulite, colme di echi ed effetti, a supporto di lunghe e stratificate scie di sintetizzatori. 

È proprio con questi synth che si apre il disco. Con i quasi sei minuti strumentali di ‘Shanty’, la band ci introduce ad un disco che fa delle sperimentazioni sonore il suo cavallo di battaglia, rischiando non poco. La palette sonora di questo disco è azzeccata in ogni suo riverbero, o in ogni sfarfallio dei synth modulari. Il gruppo non si priva però nemmeno di canzoni più movimentate, che strizzano l’occhio ad atmosfere più pop, come nel caso di “kisses” o “alife”. Tracce che, a differenza di quasi tutte le altre, funzionano in maniera impeccabile anche se ascoltate singolarmente. 

I sussurri di Halstead si perdono tra le chitarre e i sintetizzatori eterei di “andalucia plays”, creando una atmosfera intima. In “Skin the Game”, le distorsioni incontrano batterie elettroniche, sperimentazioni lo-fi, che formano il letto perfetto su cui si adagiano le voci in questo caso estremamente processate, dei due cantanti. 

“The slab”, traccia di chiusura del disco, è un’insolita miscela di ritmi elettronici, distorsioni e progressioni orchestrali. La traccia si sgonfia e gonfia per tutta la sua durata. Le voci di Halstead e Goswell vengono schiacciate dai potenti strati di suoni, rendendo difficile la comprensione del testo, prima che la canzone scompaia nel nulla. 

Le otto tracce di “Everything is alive” creano tutte insieme un’aura di bellezza e emozioni profonde. È un disco triste, poi felice, poi ancora triste e poi grato, a volte sperimentale, altre volte più canonico, ma sempre curato nei minimi dettagli

Voto: 8.4/10

/ 5
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Crushed: La recensione di “Extra Life – EP”

  • Crushed – Extralife – EP
  • 24 Febbraio 2023
  • ℗ Funeral Party

L’EP di debutto del duo statunitense è un incrocio tra Shoegaze di fine anni ’80 e Dream Pop, con punte di pop anni ’90 e temi incentratiti principalmente sull’amore e sulla malinconia. Il duo nasce a Los Angeles, dalla fusione di Breanna Morell, cantante dei “Temple of Angels”, e Shaun Durkan, produttore e membro dei “Weekend”, una band originaria di “San Francisco”, grazie a conoscenze comuni. 

“Extra Life” non cade negli errori di molti altri progetti, non replica mai fedelmente le palette di suoni figlie delle epoche musicali di cui abbiamo scritto in precedenza, ma tende a convertirle in qualcosa di nuovo, non è un progetto ambizioso, ed anche se non sembra, questa è una cosa positiva per un EP di debutto, aiuta a tastare il terreno, come quando entri in acqua poco alla volta per abituarti.

“Waterlily” si apre con suoni di drum machine sporchi e filtrati, voci rallentate e distorte, synth anni ottanta e effetti presi in prestito alla seconda ascesa dell’hip-hop. “Coil” riporta le menti indietro a vecchie sitcom di fine anni ’90, tra chitarre crunchy e l’impossibilità di lasciarsi certe situazioni alle spalle. La canzone termina con suoni a otto bit a metà strada fra una campana e un piano forte. “Milksugar” rallenta notevolmente ed imposta una nuova andatura per il resto dell’EP. Il duo fa i conti con la realtà e, tra esperienze passate e destino, il disco vira verso un’atmosfera più cupa.

“Bedside” si districa fra chitarre clean e synth brillanti, mentre Morrel canta dei “migliori giorni delle loro vite”. Le drum machine lasciano spazio a suoni di batterie acustiche sporcati da distorsioni e rumori Lo-fi. “Respawn” inizia con sezione ritmica, basso e rumore di fondo di quello che sembra un vecchio vinile. La traccia è caratterizzata da un arrangiamento semplice per quasi l’intera durata. Il culmine arriva verso la fine, quando tutti gli strumenti che ci erano stati introdotti in precedenza si mescolano sotto la voce di Morrel, che canta di come vorrebbe stare accanto ad una persona. In “Lorica”, traccia finale dell’EP, tutti gli strumenti profondamente stratificati si dissolvono in un’atmosfera di suoni metallici e voci parlate.

 Voto: 7/10

/ 5
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