Sonic Youth

Kim Gordon: La recensione di “The Collective”

  • The Collective – Kim Gordon
  • 8 Marzo 2024
  • Matador Records

The Collective è la seconda tappa della carriera solista di Kim Gordon, rocker che non avrebbe bisogno di presentazioni, ma è doveroso ricordare che è stata co-fondatrice di una delle band alternative rock/noise più note del pianeta: i Sonic Youth.

Anni e anni passati a masticare rock ruvido e non solo, perché è un’artista poliedrica che ha lasciato un segno anche nell’arte visiva, nel cinema e nella letteratura. Dopo l’avant-noise di No Home Record ci si poteva aspettare che a settant’anni la signora Gordon avrebbe fatto riposare le orecchie per darsi magari al folk rock minimale, un po’ come Pj Harvey in “I inside the Old Year Dying”. Invece no, perché The Collective è il riflesso di Kim Gordon stessa, ovvero sperimentazione e avantgarde allo stato puro.

Prodotto da Justin Raisen e Anthony Paul Lopez, l’album è stato registrato a Los Angeles, terra natale della musicista. Nessun frammento melodico, niente di confortante o rassicurante: è il racconto di una realtà che sembra lontana da noi, un futuro freddo e disgregato, che in effetti si colloca nel presente. Proprio per questo è un lavoro difficile da assorbire, per svariati motivi in realtà, fosse solo per lo schiaffo diretto al mainstream e per la capacità di spogliare le nostre vite e metterle a nudo davanti alla desolazione e al disagio. Per farlo l’ex Sonic Youth usa un linguaggio sonoro rugginoso e “futuristico”, un codice che distorce il formato canzone e lo contamina con la trap e l’industrial.

The Collective

Iniziando gli ascolti con BYE BYE ci si ritrova a riempire una valigia spuntando una lunga lista di cose da portarsi appresso, inclusa una base trap su cui si scagliano chitarre noise dopo l’ultimo “bye bye”. Uscito come singolo, questo pezzo è diventato popolare tra i più giovani grazie a TikTok, un risvolto interessante considerando che non è facile accorciare le distanze tra generazioni così diverse. Da qui in avanti il percorso per arrivare alla fine non è una passeggiata, bisogna essere disposti ad accettare di inoltrarsi in sentieri oscuri e claustrofobici. C’è una collezione (appunto) di “short movies”, di mini film trasformati in canzoni, ma si va oltre le canzoni, infatti ha affermato di considerarsi “un’ artista visuale che suona o che scrive” e questo approccio si percepisce in tutte le tracce.

Ognuno di questi episodi è l’espressione dell’“assoluta pazzia che sento attorno a me in questo momento”, un ritratto generale del “sense of paranoia” dove “nessuno sa realmente qual’è la verità”. Guardandosi quindi attorno e passeggiando nel quotidiano l’artista si rende conto che “L.A is an art scene” e che c’è disagio ed emergenza per le strade di Los Angeles. Tutto questo compone Psychedelic Orgasm. Tornano invece tematiche femministe in I’m a Man, in cui la cantante incarna ironicamente la figura maschile, sgretolando dall’interno il concetto di superuomo.

In tutto il disco la voce familiare di Kim Gordon interviene spettrale e decadente proprio per marcare quel senso di paranoia generalizzato e per evidenziare la mancanza di verità assolute in un mondo virtuale che allontana le persone e mette in discussione il lato umano. Questo è uno dei pensieri dominanti. Nelle recenti interviste ha rivelato anche cosa l’ha spinta a concepire concettualmente The Collective. Leggendo il libro Candy House di Jennifer Egan (titolo tra l’altro di un brano del disco) ha trovato nella trama un collegamento con il nostro presente e quindi il filo conduttore di un’opera che ha definito come distopica e sci-fi.

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Tornando alla musica in senso stretto, la sintesi sonora è un contenitore industrial-hip hop, trap ed electro-dark che mette in serie delle tracce che si sfregano l’una con l’altra, un loop ossessivo che gira su se stesso e che non fa trovare via d’uscita dall’alienazione. Quindi non dovrà stupire una certa ripetitività di suoni, perché probabilmente sarà stata studiata per mantenere una coesione concettuale.

In definitiva Kim Gordon si conferma icona-non icona che a settant’anni è ancora capace di scuotere gli animi e spingersi oltre i confini del rock usando un linguaggio che arriva anche alle nuove generazioni.  Tuttavia, più di qualcuno potrà storcere il naso e non essere d’accordo con sperimentazioni di questo genere, ma forse è ancora presto per fare previsioni sull’eredità culturale che lascerà nel tempo The Collective. 

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Errorr: La recensione di “Self Destruct”

“Self Destruct” è il debutto in studio degli Errorr, un viaggio intriso di
contaminazioni oltre tempo. La console della Delorean lampeggia “Alternative
scene 80-90”. Sonic Youth, Pixies, la scena grunge di Seattle, My Bloody
Valentine, sono solo alcuni dei traghettatori di questo lungo (circa 40min) trip.
Un album sincero, che non tradisce mai le sue origini, ma anzi ne va fiero,
dando sfoggio di un muro di suono avvolgente, compatto e caloroso.

Per chi è addentro alla scena alternative-underground contemporanea, il nome
Leonard Kaage dirà sicuramente qualcosa. Polistrumentista svedese che si è
distinto per le sue molte collaborazioni, fra cui The Underground Youth (cui
ricopre il ruolo di produttore e chitarrista), Kristof Hahn (membro degli SWANS),
Holy Motors, The Brian Jonestown Massacre, e molti altri. I progetti citati, che
vanno dal dream pop, all’ambient, all’indie-rock, al post-punk, allo shoegaze,
metteranno le fondamenta per gli Errorr, progetto lanciato dallo stesso Leonard
nel 2019. I primi demo, prodotti ed arrangiati interamente dall’artista svedese,
sono stati sviluppati nel suo studio, nei ritagli di tempo dai progetti cui sopra, fra
lavori di registrazioni e tour in Europa, Asia e Stati Uniti. Con il tempo l’organico
si è ampliato, inglobando anche Nick Mangione, André Leo (frontman dei
Medicine Boy) e Adriano Redoglia, rispettivamente al basso, chitarra e batteria.

“Self Destruct” uscito il 3 marzo 2023 per Anomic Records (etichetta
underground berlinese) è un debutto sofferto, che si può definire un “quasi”
lavoro solista del polistrumentista svedese. Interamente scritto e prodotto da
Leonard, che presta la sua arte con ogni strumento (guitar, drum, bass, organ,
piano and vocals), oltre al suo seminterrato per la registrazione. André Leo
imbraccia la chitarra in più di metà album, dando manforte a Kaage, producendo
un suono crudo e diretto. Il tutto impreziosito da un basso fuzzy, suonato in
alcune tracce da Nick Mangione. Nota a pié di pagina: alcuni beat sono
dell’ingegnere del suono berlinese Mathew Johnson. Il mixaggio, ad opera
(sempre) di Kaage assieme a Oskar Lindberg, è stato effettuato allo Svenska
Grammofon Studio (SGS) di Göteborg (Svezia), studio di grande prestigio che
ha ospitato in passato giganti, quali Rolling Stones, Miles Davis, David Bowie,
Led Zeppelin, Stevie Wonder, ecc. Il mastering non è da meno, si parla di
Frederic Kevorkian, figura legata a The White Stripes, Beyonce, Iggy Pop e molti
altri.

Come anticipato precedentemente, “Self Destruct” è sincero. Già dalla prima
traccia ci possiamo già farci un’idea di quale direzione prenderà il disco.
Direzione mai del tutto sconvolta (salvo rari casi), addolcita solo con le pillole
che hanno fatto grandi gli esponenti dell’alternative a cavallo fra ’80 e ’90. Il
feedback dei Sonic Youth. La dinamica dei Pixies. La chitarra graffiante del
grunge americano. Il muro di suono di Kevin Shields. In “Innocent” Kaage parla
di controllo sulle menti altrui. “Sono solo un soldato e metterò in pratica i tuoi
comandi / obbedirò alle tue religioni / forse dovrei tenere un’arma / forse dovrei
premere il grilletto”. “Sixxx” ti fissa dall’alto verso il basso, ostentando una
sicurezza che in realtà maschera una debolezza di fondo. “tu pensi di avere una
sorta di dote divina / ma sei soltanto sei piedi sotto tutti noi”. La saturazione ha
un maggior sustain rispetto all’inizio. In “Just Another” si intravede un cambio di
ritmo, un beat più lineare accompagnato da una linea vocale leggermente
melodica. Distopia di un sistema malato, che pur essendo ormai prevedibile,
risulta inarrestabile. “Ho già visto il disegno che stai cercando di dipingere / ho
già visto il sistema che stai cercando di creare”. “Deep Blue” tira il freno, per poi
esplodere sul finale. Un tuffo alla ricerca di sé stessi. “Non riesco a vedere la
terraferma attraverso la tempesta / non riesco a dire cos’è vero / non riesco a
vedere davanti a me attraverso le bottiglie vuote / non riesco a vedere sopra la
mia testa, in fondo al mare”. “Paranoia” riaccende il gain. L’intero brano suona
come un estremo grido di aiuto. “Ho bisogno di qualcuno che mi scuota / ho
bisogno di qualcuno che mi mostri cosa è reale”. “8 hours, 5 days” è forse la
canzone più vera del disco. Veicola un messaggio tanto semplice, ma
estremamente attuale nella nostra epoca. “Non dovrei avere ragioni per esser
pazzo / ringrazio tutti i privilegi che ho / ma in tutta la mia vita non riesco a capire
/ perché il duro lavoro dovrebbe rendermi libero”. È pura rabbia, feedback,
dissenso, ribellione, distorsione. Una vera perla. “Heroine (got to let go)” si
mantiene sulle strutture già viste nel corso dell’ascolto. Quando si parla di droga
è difficile non cadere nel cliché, e gli Errorr ci affossano entrambi gli scarponi.
“So che lei ti manca e non è la stessa cosa / senza la sua eroina”. Forza Kaage
puoi fare di meglio. 56 anni fa New York cantava “Non so proprio dove vado /
ma proverò a aggiungere il regno se ci riesco / perché mi sento un vero uomo /
quando infilo l’ago in vena”. “Not Even Bored” è l’ennesimo brano alternative
tradizionale, senza fronzoli, non sono d’accordo con il titolo. “Dimmi tutti i tuoi
segreti / e non sarò più annoiato”. Gli Errorr hanno ancora gli scarponi
impantanati. Con “Something” inizia una sezione dell’album più moderata, se
così possiamo definire, che abbraccia atmosfere più morbide e smussate
rispetto ai muri di suono. In un sistema in cui i politici disquisiscono sul niente,
l’artista svedese ci propina una tiritera che ci ripete che “qualcosa accadrà”. Il
groove del brano si fa sempre più sinuoso. Kaage è un disperato che ti fissa
diritto negli occhi, ripetendoti allo sfinimento che “something’s gonna happen”.
Ciliegina sulla torta, dei passaggi di chitarra in background che ricordano molto

le chitarre di “I’m only sleeping”, quando i Beatles giocavano a riprodurre i nastri
al contrario. “Makeshift Happy” ha una strofa che fa tanto “Definitely Maybe”, sia
per l’arrangiamento sia per il modo di cantare di Leonard. “Vorrei poterti leggere
/ ma sono senza parole. / Vorrei poterti liberare / ma tu preferisci restare. /
Qualsiasi cosa ti renda felice / per sempre sogni improvvisati”. Un simile testo
me lo sarei aspettato, ad esempio, da un artista della scena mainstream italiana,
oppure come testo proposto ad una competizione poetica delle scuole medie. In
ogni caso non fa differenza, il peso è lo stesso. La musica salva ancora una
volta in corner gli Errorr. Dalla scuola media possiamo al cimitero. “With Love
from the Grave” ci setta di nuovo su onde sinistre, atmosfera Black Sabbathiana
per questa penultima traccia. L’oscurità ci pervade. Pervade la stanza. Pervade
il cantato di Leonard. Ian Curtis è in mezzo a noi. Siamo in una tomba. “Guardo
dal basso verso l’alto / e qui aspetto”. In mezzo alla terra sporca aspetto, sopra
la mia testa un cielo nuvoloso. Non c’è spazio per la speranza. Arriviamo al
finale acustico di “I don’t feel like talking” che rimanda ad una Screamdelica
ricamata di riverberi. Un finale alla “Disraeli Gears”, alla “Happy Trails”. Un
brano inaspettato, che conclude un viaggio sonoro intenso.

“Self Destruct” è un titolo coerente con la retorica proposta da Kaage, che
tuttavia qualche volta ricade nel cliché. Mancanza sopperita dall’ottimo lavoro di
mixaggio in studio. Non siamo sicuramente di fronte ad una novità, ma ad un
disco della scena alternative contemporanea suonato molto bene, con dinamica,
qualche pizzico di fantasia, e tanto gain. “Self Destruct” brilla della luce riflessa
di “8hour, 5days” miglior pezzo del disco. Forse gli Errorr avrebbero dovuto
approfondire di più questo raggio di luce.

Voto: 7.5/10

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Yonic South: La recensione di “Devo Challenge Cup”

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  • Yonic South – Devo Challenge Cup
  • 03 Febbraio 2023
  • ℗ Wild Honey Records

Dall’ultima uscita, in piena pandemia, i “Yonic South”, tornano con un nuovo EP intitolato “Devo Challenge Cup”. Nati all’interno di una Citroen, la band potrebbe ricordare “vagamente” il nome di un altro gruppo di New York di primi anni ’80. Ma questo non è l’unico riferimento, nel nuovo EP della band bresciana ci sono citazioni ai “Devo”, in particolare a “Mark Mothersbaugh” “Blink-182” e come in gran parte dei lavori precedenti, ai “Twix” (Si, le barrette di cioccolato). Nonostante i riferimenti alla Pop Culture e alle band punk di primi anni ’70, possano far pensare ad un disco mediocre e con testi poco incisivi, “Devo Challenge Cup” ha superato le mie aspettative. A differenza del lavoro precedente uscito per “La Tempesta Dischi”, quest’album esce sotto “Wild Honey Records”. I Yonic South hanno lasciato da parte le sperimentazioni noise e psichedeliche di Twix & Drive, portando il progetto sul garage punk: riff suoni metallici e spigolosi e testi brevi.

L’EP si apre con “The Helmet”. Delle progressioni arabeggianti si accostano a suoni metallici e distorti, la voce del cantante, presa in prestito a “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson, ci introduce in un mondo dalle atmosfere deliranti. A bordo di una Citroen Picasso per “gareggiare in una gara che non possiamo vincere”. Prima ancora di rendersi conto, si piomba alla traccia successiva. Mr. Fliptop sembra un festino anni ’70 a base di acidi, la voce assume delle punte irriverenti e si ritrova un tema attuale, riguardo la Russia. Sulla stessa scia ritmica delle due tracce precedenti, veniamo introdotti a “Girl U Want”. È la storia di una ragazza bella e dal profumo inebriante, ma inarrivabile. Non mancano i riferimenti alla cultura pop, come detto in precedenza. Nella canzone troviamo citazioni a Miss Peach e gli immancabili Twix. Fill di rullante e distorsioni compatte aumentano l’intensità fino a condurci verso la quarta traccia del disco. “Drums Hero” crea atmosfera per ciò che verrà dopo. Aumenta il patos con un’ambientazione da duello western mista ad un rullante da plotone d’esecuzione. Mentre il batterista da sfoggio delle sue abilità ci si ritrova catapultati nella traccia più forte dell’EP, scelta come singolo. “Mark Mothersbaugh Alterego” ha un’andatura più alta, come se a bordo di quella Citroen qualcuno abbia premuto il pulsante del turbo. “Ti troverai in un luogo impossibile da descrivere” dice il cantante, un mondo dove il reale e l’irreale si mescolano. Un mondo dove, se riesci ottenere ciò che hai sempre voluto dovrai prenderti carico anche di tutte le cose che non avevi considerato. L’alter-ego di Mark Mothersbaugh chiede ai ragazzi di scegliere la canzone che preferiscono, loro lo fanno e si dirigono verso la traccia finale dell’EP. “All The Small Twix” è una citazione alle già ampiamente discusse barrette di cioccolato e una vera e propria cover (tanto che il gruppo ha dovuto dare i crediti a Mark Hoppus e Tom DeLonge), alla “All The Small Things” dei Blink-182 contenuta in “Enema of the State”. Il delirio di questo EP si consolida verso metà traccia, dopo che il gruppo canta la prima strofa della canzone dei Blink, ritornano tutti quei suoni psichedelici e noise, che per le cinque tracce precedenti erano stati evitati.Ora traiamo delle conclusioni. Questo EP non è sicuramente un capolavoro, ha diversi punti deboli, che risiedono per la maggior parte nella stesura dei testi e nelle argomentazioni, un’altra pecca è legata principalmente al costante richiamo alla cultura pop, che va in netto contrasto con quello che il genere vuole trasmettere per definizione. Oltre queste piccole sbavature il disco è sicuramente interessante, soprattutto dal punto di vista produttivo e dalla scelta della palette di suoni che è stata utilizzata.

Voto: 6/10

/ 5
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