Sufjan Stevens

Tuesday Music Revival: Sufjan Stevens – Carrie & Lowell

  • Sufjan Stevens – Carrie & Lowell
  • 31 marzo 2015
  • Asthmatic Kitty Records

Fino al momento del concepimento di “Carrie & Lowell”, l’evoluzione artistica di Stevens era stata un’incredibile montagna russa, che l’aveva visto passare dalla semplicità dell’indie folk, fatto di strumenti tradizionali, agli spunti elettronici del suo disco precedente, “The Age of Adz”, uscito nel 2010. Eppure, ci sono momenti che non hanno bisogno di immense strutture sonore, o ostentazioni di virtuosismo, per essere raccontati. Questo è uno di quei momenti. L’artista statunitense appende al chiodo, almeno in parte, le componenti elettroniche, tornando nella sua zona di comfort, forse perché solo in quel posto può riuscire ad affrontare la mole emotiva che contraddistingue questo disco. Com’era? Quattro accordi e la verità, no?

Carrie & Lowell, che prende il nome dalla madre e dal patrigno di Sufjan, è un ritratto di famiglia, sbiadito dal tempo, colmo di sbavature e di momenti non sempre gioiosi. A dirla tutta, sono per la maggior parte tristi spaccati di vita quotidiana. Ci sono situazioni filtrate da visioni di infanzia. Sono queste ultime a rappresentare gli unici riflessi di gioia in questo disco. C’è lo schianto con la cruda realtà dei fatti, quella che ti ricorda che prima o poi anche tu perderai qualcuno. Nel caso di Stevens, la perdita che da inizio a questo racconto (perché questo disco è a tutti gli effetti un racconto), è quella della madre.

Lungi dall’essere un genitore modello, complice la sua schizofrenia e un elevato abuso di sostanze, sono molteplici i momenti in cui l’artista parla dei momenti bui di Carrie Stevens, e di come si siano insinuati dentro di sé. Eppure non lo vedremo mai parlare di sua madre in maniera negativa. Neanche quando, in “Should Have Known Better”, racconta di quella volta in cui abbandonò lui e suo fratello in un negozio di film. Per tutti i 43 minuti di questo disco Sufjan tenderà invece a dare maggiore importanza ai momenti in cui c’è stata, perché, in un certo senso, da conforto sapere che seppur un abbandono volontario sia doloroso, non lo è come uno in cui non si ha possibilità di scelta (in questo caso la morte). 

Rimane in un certo senso un piccolo spazio anche per piccole situazioni dal gusto ironico che, nonostante tutto, non riescono a stemperare il costante clima di tristezza del disco, anzi, se vogliamo, contribuiscono ad ingigantirlo.  È il caso di “Eugene” o “All of Me Wants All of You”. 

Proprio “Should Have Known Better”, si trasforma in quella che probabilmente rappresenta la traccia più forte di questo progetto. Nei leggeri accordi di chitarra, che danzano insieme a sottili produzioni elettroniche, Stevens incanala ricordi e rimpianti di una vita. Anche qui, ci scontriamo con un modus operandi, che l’artista riproporrà in tutte le salse, non solo nel continuo del disco, ma nei suoi prossimi progetti. “The Only Thing” ne è la conferma. La delicatezza negli arrangiamenti e nei testi, quasi sussurrati, nasconde una delle più strazianti composizioni che abbia mai scritto.

Proprio mentre annega nei rimpianti (avrei voluto salvarti dal tuo dolore), la traccia esplode in un vortice di emozioni. C’è una visione piuttosto pessimista (per quanto reale) della vita, in cui Stevens non si nasconde. “Sappiamo come andrà a finire”, canta all’inizio. Ci mette sei canzoni per dirci come va davvero a finire. “Moriremo tutti”, è il mantra ridondante di “Fourth Of July”. Verso la fine gioca con parole e sospiri, in “No Shade in the Shadow of the Cross”, lasciandoci costantemente col fiato sospeso, in bilico tra perdita e speranza. 

E poi tornano loro, piccoli momenti felici, quasi dimenticati. Durano poco, il tempo di accorgersi che non torneranno. E di nuovo tutto si ingrigisce. Torna sua madre, la sente, in ogni cosa che fa, con tutti i suoi difetti. “Il mio piccolo falco / La mia piccola lucciola”. Non le attribuisce colpe, ma d’altra parte smette di interrogarsi su come farla tornare da lui. La chiusura si dissolve in suoni ambientali e sottili stratificazioni di sintetizzatore, mentre i ricordi tornano ad essere solo ricordi, e i dubbi resteranno ancora dubbi.

Carrie & Lowell è un reminder importante per tutti: prima o poi moriremo. Per Stevens potrebbe essere molto di più, potrebbe essere un tentativo, col senno di poi con poco margine di successo, di chiudere un capitolo. Mettere tutti i ricordi, quelli belli e quelli meno belli in una scatola, per mai più riaprirla. Col presente dalla mia, Stevens non è riuscito a tenerla chiusa a lungo, ma d’altronde, chi ci riesce.

/ 5
Grazie per aver votato!

Sufjan Stevens: La recensione di “Javelin”

  • Sufjan Stevens – Javelin
  • 6 Ottobre 2023
  • ℗ Asthmatic Kitty Records

Nonostante il suo ultimo disco solista risalga al 2020, negli ultimi tre anni il musicista di Detroit, ha lavorato a altri tre progetti, prima di annunciare “Javelin”. Nell’ultimo disco, il più atteso dai tempi di “Carrie & Lowell”, Stevens riscopre una forte vena cantautoriale contaminata da suoni sperimentali. 

“Javelin” è un disco intimo, e profondo, nato da un periodo difficile in cui all’artista è stata diagnosticata una malattia autoimmune. Il background di 21 dischi in poco più di vent’anni confluisce tutto in quest’ultimo lavoro, in cui le voci sussurrate tornano ad incontrare intricate strumentali folk, per descrivere situazioni di perdita, bellezza e dolore.

Il disco nasce quasi completamente dalle mani di Stevens, con l’aiuto di Bryce Dessner dei “National”, che lavora agli arrangiamenti di chitarra. Il disco nel suo risultato finale è un collage di storie, sensazioni e atmosfere diverse, legate insieme dallo stesso filo conduttore: la perdita. Nonostante il tema della perdita sia un argomento ostico, attraverso le orchestrazioni e le sperimentazioni elettroniche o i semplici arrangiamenti di chitarra, Stevens fa di tutto per portare l’ascoltatore da un’altra parte. In una bolla di bellezza e tranquillità.

Il disco si apre con la morbida melodia di piano di “Goodbye Evergreen”, che culmina in un intricato arrangiamento di suoni sperimentali. Pattern strumentali e cori guidano le parole d’addio di Stevens. Nel fingerpicking di “A Running Start”, l’artista ritorna ad atmosfere più vecchie e semplici. La semplicità di questa traccia non trattiene Sufjan dall’entrare dentro il cuore dell’ascoltatore per poi spezzarlo. ‘Qualcuno mi amerà mai?’ chiede nella midtempo “Will Anybody Ever Love Me?”. La traccia è composta da un insieme di linee melodiche di strumenti tradizionali, che torna, ancora una volta, a sonorità che Stevens aveva abbandonato da tempo. 

La palette sonora “limitata” sembra non avere molta importanza nella stesura di questo disco, in cui il cantautore riesce comunque a trovare spunti interessanti, come nel caso di “So You Are Tired” e “My Red Little Fox”. In entrambe le tracce, Stevens ripone la sua fiducia artistica nei morbidi accenti di pianoforte. La title-track è la dimostrazione che la complessità di questo disco non risiede negli arrangiamenti sfarzosi, ma nelle tematiche dei testi. In poco meno di due minuti l’artista analizza la solitudine causata dalla morte di un suo caro. 

“There’s a World”, celebre canzone del più grande disco di Neil Young, fa calare il sipario su uno dei migliori lavori di Sufjan. Sotto la superfice di Javelin si nascondono dinamiche di vita piuttosto complicate, dubbi esistenziali e domande a cui, probabilmente, nessuno mai saprà rispondere.

Voto: 8.2/10

/ 5
Grazie per aver votato!