Synth-pop

The Weeknd: La recensione di “After Hours”

  • The Weeknd – After Hours
  • 20 Marzo 2020
  • ℗ XO / Republic Records

1500 giorni. È il tempo che è trascorso da quando l’artista canadese ha settato un nuovo standard sulla scena mainstream mondiale. L’avevamo visto salire alla ribalta nel 2011 con una trilogia di mixtapes e poi altri tre (quattro se si vuole considerare “My Dear Melancholy,”) dischi tra il 2013 e il 2016. Tutti accomunati dalle stesse sfaccettature. Un’atmosfera noir consolida un immaginario che ha come protagonista un’oscura personalità in balia degli eventi, perso nell’abuso di sostanze e completamente distaccato dal resto del mondo. 

In “After Hours”, la situazione sembra non essere cambiata poi così tanto. L’artista si butta nell’ennesimo dramma, caratterizzato dai soliti problemi dei progetti precedenti. Una continua sensazione di Dejà Vu, in cui fa sempre gli stessi errori. Insomma la solita solfa. L’abbiamo pensato tutti al primo ascolto. E tutti abbiamo sbagliato la prospettiva da cui questo disco andrebbe visto.  

L’avevamo guardato sorridere e ballare fra i neon e le luci della città nel video di “Heartless” alla fine del 2019, salvo poi ritrovarlo, due mesi più tardi, in quelle stesse strade, con il naso spaccato e grondante di sangue. Forse per capire il senso di “After Hours” occorre partire da qua. Perché è proprio in questo punto che l’artista fa incontrare i suoi due mondi. Il disco riesce per la prima volta ad unire la spettralità dei suoi primi lavori alla sfarzosità di un’America (e una Los Angeles) ormai troppo lontana. Quella del Sunset Blvd colmo di luci al neon, del Dream pop vecchio stile, dell’R&B. Nel trovare il suono giusto l’hanno aiutato nomi importanti, da Illangelo, suo produttore di lunga data a Max Martin, fino a addirittura Tame Impala e Oneohtrix Point Never.

Ma il contrasto non è solo sonoro. “After Hours” è un duello, tra Abel e The Weeknd. È una spirale di intimità, accettazione (persino di sé stesso) e distrazione emotiva, nascosta sotto lo sfarzo. 

Abuso di sostanze e cupezza danno il via al disco, con “Alone Again”. Il lavoro di produzione è magistrale e si percepisce in particolar modo nel momento in cui i sintetizzatori incontrano la sezione ritmica. Lungo tutto il corso di questo disco, il vintage e il nuovo si incastrano alla perfezione. “Too Late” inietta lentamente un cambio di stile che culminerà solo nella traccia successiva, “Hardest to Love”. È quello della Drum n’ Bass. I complessi pattern di batterie elettroniche in contro tempo creano un’atmosfera sfocata in cui Tesfaye analizza la rottura di una relazione. Si assume le sue responsabilità arrivando persino ad interrogarsi sul perché qualcuno possa voler stare con lui. Con “Scare To Live” il disco inizia ad assumere una connotazione sempre più synth pop.

In “Snowchild” Abel assume una consapevolezza completa del suo personaggio, spostandosi verso sonorità attribuite alla nuova scena Hip-Hop. Stesse sonorità riproposte in “Escape from LA”, “Heartless” e “Faith” in cui le atmosfere cupe prendono il sopravvento, mentre il disco inizia a spostarsi verso i tre banger che da tre anni a questa parte non hanno ancora fatto il loro corso. “Blinding Lights” è la definizione perfetta di synth pop. È un cambio di direzione che va a braccetto con il costante aumento della sensazione di rammarico e dolore che nessuno si aspettava da un personaggio come The Weeknd.

In “In Your Eyes” cambia i connotati alla Disco Music, dando una chiara risposta a tutti quelli che in passato l’avevano etichettato come erede di Michael Jackson. E la risposta è una sola: La musica non ha bisogno di eredi. Il luccicante assolo di sax, defluisce verso “Save Your Tears”. L’artista affronta ancora una volta le relazioni passate. Il rammarico e la nostalgia vengono disintegrate da una profonda sensazione di vergogna. Abel tenta di redimersi, pur non nascondendo in alcun modo il suo lato più oscuro. “Se ti ho spezzato il cuore è perché qualcuno l’ha fatto a me”. 

L’interludio “Repeat After Me” è un magistrale esercizio di stile di Tame Impala e Oneohtrix Point Never. Mentre il disco inizia a volgere al termine Tesfaye torna su sfocate atmosfere cinematografiche nella Title-Track e “Until I Bleed Out”.

A trasformazione completata, Abel ricorda che, nonostante i passi avanti fatti in questo disco, non è in grado di essere la versione migliore di sé stesso (se non dal punto di vista artistico). Nonostante le ballads anni ’80 le belle voci e le sensazioni erotiche e romantiche di Abel, dentro avrà sempre quel vortice di malinconia e assuefazione di Weeknd.

/ 5
Grazie per aver votato!

Klaus Johann Grobe: la recensione di “Io Tu Il Loro”

  • Io tu il loro – Klaus Johann Grobe
  • 22 marzo 2024
  • Trouble in Mind Records

Dad-rock o musica senza tempo? Ballate kraut-romantiche o groove ondeggianti? Gelo mitteleuropeo o calore mediterraneo? I Klaus Johann Grobe riescono a tenere insieme tutte queste dualità nel loro quarto lavoro in studio per Trouble In Mind Records.

Il sinergico duo svizzero formato da Sevi Landolt e Daniel Bachmann continua a tracciare la parabola evolutiva avviata con i tre dischi precedenti. Partendo da una vocazione neokraut dall’atteggiamento espressionista e dalle atmosfere oniriche, sono passati per l’elettronica ossessiva influenzata dai Kraftwerk fino ad approdare a suoni multicolori tratti dal synth-pop più psichedelico. Il disco “Du Bist So Symmetrisch“, pubblicato nel 2018, era tutto questo. La parabola però continua a curvare: in “Io tu il loro” si decide di esplorare una scrittura più cinematografica, in cui le ritmiche sono meno aggressive e la vocalità morbida di Landolt e Bachmann emerge pienamente. Scopriamo così una grande cura negli arrangiamenti, che in questo disco si avvalgono più che mai di suoni analogici.

Il timbro vintage dell’organo elettrico dialoga con i synth dal gusto un po’ più acido (“Highway High”). Alcuni dei brani trovano la loro forza in un groove funkeggiante (“Getting Down To Adria”, “Never Going Easy”), mentre altri rientrano nei meno rischiosi canoni del soft rock per dare luogo a brani che somigliano a sgualcite cartoline in bianco e nero (“Io sempre di tu”, “You Gave It All”). A tenere tutto insieme c’è l’accompagnamento ritmico della chitarra acustica, che stabilisce un sottotesto intimo e dolcissimo per tutta la durata del disco.

Come accadeva anche nei lavori precedenti, in “Io Tu Il Loro” il tempo non esiste. La palette di suoni richiama atmosfere che riconducono ad un passato mai accaduto, fatto di stratificazioni provenienti da almeno quattro decenni diversi. Ma questa operazione è portata avanti con un senso estetico attualissimo, consapevole di quel gusto retrò che si è ormai affacciato pienamente anche nel mainstream. Il duo rivela questa sensibilità, inconsapevolmente postmoderna, che sembra funzionare come una spugna: assorbe influenze fino a che non riesce più a trattenerle. Chissà se il processo creativo, durato due settimane dopo una pausa di sei anni dall’ultimo album, non sia andato proprio così.

Ma oltre a cogliere lo spirito del tempo, il progetto dei Klaus Johann Grobe riesce ad esprimere anche lo spirito dello spazio. In qualche modo, il sound sembra restituire le esatte coordinate geografiche di un luogo mitteleuropeo, ma a contatto quasi diretto con i luoghi più a sud del continente. Per la prima volta nel percorso artistico di questa formazione, la vocazione krautrock ed elettronica entra in contatto con delle sonorità incredibilmente ariose, tipiche del passato musicale dei primi anni ’80 nel mediterraneo. Si tratta di richiami estetici quasi subliminali: alcune intro (“When You Leave”) riportano con i loro fraseggi sul lungomare partenopeo all’ora del tramonto, altre (“Getting Down To Adria“) sembrano uscite da un fantomatico Volume 3 di Napoli Segreta.

E del resto che cos’è l’assolo di organo di “Highway High”, se non una versione un po’ più fredda, nebbiosa, romantica del fulgido assolo di “In alto mare” della Bertè? L’inserimento di qualche frase in italiano pronunciata con evidente accento anglosassone conferisce un ulteriore tocco di “dolce vita”. Lo scirocco, che scompiglia i capelli e profuma di salsedine, sembra soffiare fin sulle alpi svizzere.

L’esperienza di ascolto dell’intero lp risulta un po’ monotona, ma l’estetica proposta dai Klaus Johann Grobe ci consente di perdonarli. Questo disco è infatti un’eccezionale colonna sonora per i momenti più melanconici della vita di ogni fan dei Kraftwerk, degli Stereolab, dei Moon Duo, dei Secret Machines, ma anche – perché no? – di Pino Daniele. Attendiamo il prossimo lavoro dei Klaus Johann Grobe per sapere quali gusti verranno aggiunti a questo particolarissimo mix.

/ 5
Grazie per aver votato!

Future Islands: la recensione di “People Who Aren’t There Anymore”

  • People Who Aren’t There Anymore – Future Islands
  • 26 gennaio 2024
  • 4AD

I Future Island sono ritornati con il loro settimo disco, People Who Aren’t There Anymore. Il fortunato progetto synth-pop e post-wave di Gerrit Welmers, William Cashion, Samuel Herring e Michael Lowry si presenta in una veste matura e riflessiva con un album che parla di perdita.

Il disco è nato all’indomani della pandemia da Covid-19 a seguito della rottura della relazione a distanza di Herring. L’evento ha rappresentato un’occasione di riflessione e introspezione sui vuoti lasciati dalle “persone che non ci sono più”, in cui la pandemia e i lockdown fanno da sfondo (“The sickness came in like a freight train/Ad swept us up into small towns/The curfews pushed us to a sundown/And we were caught in two places/I, I had to wach it fall apart from here” – The Sickness).

Da un punto di vista musicale, ascoltare un disco dei Future Island vuol dire non dover mai fare i conti con citazionismi posticci o brani sconnessi. Il gruppo ha un’estetica e delle sonorità molto ben definite, sviluppate a partire dal diversissimo background dei componenti ma sempre orientate alla new wave e al synth-pop. Un esempio? Il brano “Iris”, portato avanti da un fantastico groove disco dall’andatura africaneggiante. La ricerca di suoni “etnici” è parte della storia degli anni ’80 e della new wave – lo hanno fatto i Dead Can Dance, David Byrne, David Sylvian – ma i Future Island ne restituiscono la loro personale versione integrandola con discrezione nel loro sound.

Allo stesso tempo, non si tratta di un disco particolarmente sperimentale: la tracklist risulta abbastanza omogenea, con l’eccezione di qualche brano che si stacca dallo sfondo. È il caso di “Peach”, luminoso singolo rilasciato in anteprima, in cui il suono energico e delicato accompagna un’appassionata dichiarazione di resilienza. È interessante il ruolo del basso in “Say Goodbye”, utilizzato in modo da ottenere suoni più alternative. Anche la traccia di chiusura dell’album, “The Garden Wheel”, rappresenta uno stacco caratterizzato da sonorità più morbide e indie, adatte a mettere un punto alle pesanti riflessioni cantate lungo tutto il disco.

people who aren't there anymore

Il vero punto di forza di People Who Aren’t There Anymore, allora, è proprio il racconto. Il disco nasce da un profondo bisogno espressivo, e si sente: le liriche partono da esperienze collettive, come i continui lockdown del 2020 e la perdita di persone care, arrivando all’ascoltatore in modo estremamente diretto. Sono testi potenti, enunciati e valorizzati da una voce all’apice della sua maturità. Con solo qualche parola (“Another quiet night/Back in my old city” – Corner of My Eye) la scrittura è in grado di trasportare chi ascolta in scenari allo stesso tempo personali e condivisi. “The Sickness” e “Corner of My Eye” sono splendide ballate dall’anima dolceamara che ci ricapiterà di sentire quando cercheremo qualcosa con cui emozionarci.

/ 5
Grazie per aver votato!