The National

Taylor Swift: La recensione di “Folklore”

  • Taylor Swift – Folklore
  • 24 Luglio 2020
  • ℗ Taylor Swift / Republic

Un sodalizio in parte inaspettato, quello con Aaron Dessner, principalmente tenuto in piedi tramite video call, ma nonostante tutto incredibile. Per quanto possa sembrare strano, in realtà, il chitarrista dei National, non è poi così lontano dalla linea di pensiero di gran parte dei dischi di Taylor Swift. Lo abbiamo visto l’anno scorso, quando abbiamo recensito Good Riddance di Gracie Abrams. 

Amore, perdita e il passare del tempo. Una ricetta immortale che funziona sempre e in tutte le salse. Anche (e soprattutto) nel periodo indie-folk dell’artista della Pennsylvania. Non si può mai sapere cosa succederà poi, ma ad oggi, il momento che intercorre tra Folklore e Evermore, è il punto più alto che la carriera di Taylor potesse toccare. 

Uscito a sorpresa il 24 luglio del 2020, a poco meno di un giorno dall’annuncio sui social, Folklore ha segnato, seppur in maniera poco duratura una svolta epocale nella carriera dell’artista. L’allora trentunenne poteva evitarlo, e mantenere il primato di popstar, eppure ha scelto di esplorare. Certo, non si apre a particolari sperimentazioni, e gran parte delle sonorità cercate, erano viste e riviste, eppure, l’aura che si è creata dietro il suo ottavo disco, è riuscita ad essere qualcosa di diverso. Swift ha deciso di abbandonare i suoni di Lover e, quello che probabilmente è il suo peggior disco, Reputation, per abbracciare un suono più intimo e acustico.

Questa presa di posizione ha creato una palette di tematiche completamente diverse. Folklore sembra quasi un libro di fiabe. Attraverso storie e personaggi immaginari vediamo un lato di Taylor più “maturo” (completamente disintegrato in The Tortured Poets Department, ma questo è un altro discorso).

Complice la pandemia, molti artisti hanno dovuto interrompere le loro “routine creative”, molti altri invece, hanno utilizzato quel momento di isolamento per espandere i loro orizzonti. Swift è una di loro. Con la collaborazione non solo di Dessner, ma anche di Bon Iver e Jack Antonoff, con cui aveva collaborato anche per il disco precedente, ha iniziato la lavorazione del disco in pieno Lockdown. Dessner ha fatto forse il lavoro più pesante, co-scrivendo e producendo undici delle sedici tracce del disco. Quello che è veramente importante nel lavoro del chitarrista dei National è però ben altro. È riuscito ad arricchire il suono di Taylor con la sua influenza indie-folk, a metà fra malinconia e momenti di riflessione. 

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L’intero disco è in bilico fra realtà e finzione, con un mosaico di esperienze umane, non più solo personali e autobiografiche, come era stato nel caso di Lover. La scelta stessa del titolo è il riflesso di questa nuova direzione: miti e racconti popolari reinterpretati dagli occhi della Swift.  

Il disco si apre con The 1, brano dai tratti nostalgici. È costruito sulle macerie di un amore finito e una melodia orecchiabile, tra le riflessioni di Taylor su ciò che sarebbe potuto essere. Cardigan è la traccia di punta del disco, una ballata emotiva segnata dal destino. Vulnerabilità e forza di volontà si intrecciano ad uno storytelling perfetto che racconta di amori perduti e poi ritrovati.

In The Last Great American Dynasty i ritmi iniziano a velocizzarsi. L’arrangiamento è minimale, regola che come tutti i dischi folk, bisogna imparare ad accettare. Tutto ciò che non è essenziale non ti serve. Quella raccontata qui dentro è una storia vera. È la storia di Rebekah Harkness, la precedente proprietaria della casa di Taylor a Rhode Island. Con Exile, arricchita dai corposi toni vocali di Justin Vernon tocchiamo uno degli apici di questo disco. Un duetto struggente a piedi nudi sui cocci di una relazione finita. Il contrasto tra la profondità della voce di Vernon e la dolcezza della voce di Swift è qualcosa di incredibile. 

In My Tears Ricochet la cantante torna a parlare dei momenti difficili della rottura con la sua ex etichetta discografica, mentre su Mirrorball la vediamo intenta ad esplorare fragilità e resilienza, nella metafora di una sfera stroboscopica che cerca di riflettere la luce, nonostante le sue crepe interiori. Le atmosfere eteree si polverizzano sui suoni ovattati di piano in Seven. L’innocenza dell’infanzia incastonata in ricordi sbiaditi, è perfetta sul semplice e delicato arrangiamento, alla ricerca di un legame emotivo. Le strumentali tornano a caricarsi in August fra triangoli amorosi inventati e cottarelle estive non corrisposte. L’organo di This Is Me Trying crea un ambiente perfetto per una Taylor annegata nei riverberi che cerca di migliorare sé stessa. Il brano altro non è che uno sguardo onesto sulle sfide e sul desiderio di crescere, nonostante le difficoltà. 

Con Illicit Affair si torna su ballate leggere, guidate da arpeggi di chitarra e accordi di piano. È una storia alla Romeo e Giulietta, sulla complessità e il dolore di una relazione clandestina. In Invisible Strings vediamo una Taylor per la prima volta veramente ottimista, prima di cadere in un vortice di rabbia e frustrazione su Mad Woman. Le esperienze del nonno dell’artista durante la Seconda Guerra Mondiale si incontrano con il lavoro degli operatori sanitari durante la pandemia, in uno degli arrangiamenti più belli del disco in Epiphany, mentre su Betty si ritorna al triangolo amoroso introdotto in August

Peace potrebbe essere una traccia che interessa molto la Swift, costantemente sotto la luce dei riflettori. La traccia analizza le difficolta delle storie d’amore quando la vita pubblica minaccia di invadere la sfera privata. Anche qui ci troviamo difronte a una Taylor profondamente ottimista, che promette amore e fedeltà, pur riconoscendo le difficoltà che il suo stile di vita comporta. Questo cammino nei sentieri oscuri di Folklore si conclude con Hoax. Malinconica, disillusa e allo stesso tempo speranzosa, l’ultima traccia del disco ci lascia con una nota di riflessione: “come fai ad andare avanti se il dolore della distanza supera quello della relazione stessa?”. 

/ 5
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The National: La recensione di “Laugh Track”

  • The National – Laugh Track
  • 18 Settembre 2023
  • ℗ The National / 4AD Ltd.

Arriverà un momento in cui vorrò sapere che sono stato qui

Il ritorno della band di Cincinnati, a distanza di solo 5 mesi dall’ultimo lavoro, suona più rumoroso e allo stesso tempo intimo, rispetto a ‘First Two Pages of Frankenstein’. Il disco nasce da un soundcheck a Vancouver, divenendo a tutti gli effetti il capitolo di chiusura del loro disco precedente. 

I componenti della band, affiancati da John Leventhal, Tony Berg e Tucker Martine, hanno lavorato minuziosamente al disco dagli inizi di Giugno. Insieme hanno contribuito a confezionare un progetto morbido, delicato e intimo. A rendere più forte tale intimità sono sicuramente i featuring di questo disco. Phoebe Bridgers, Rosanne Cash e ultimo, ma non per importanza Bon Iver, sembrano incastrarsi alla perfezione nelle tracce che interpretano. Nonostante la delicatezza di questo disco, la band, è riuscita a trovare, in maniera quasi perfetta, il modo di incastrare comunque momenti più brillanti e pattern di batteria reali, a differenza delle drum machine di ‘First Two Pages’, più movimentati fra le tracce di “Laugh Track”. 

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Nell’apertura del disco, “Alphabet City”, veniamo investiti dalle note profonde della voce di Berninger. “Sarò ancora qui quando tornerai dallo spazio”, canta mentre sotto la sua voce galleggiano chitarre processate, strati di synth e ritmi minimali. In “Deep End (Paul’s In Pieces)” la profondità percepita nella voce di Berninger si converte in parole. “Sto annegando all’interno del suono” canta. Il lavoro del batterista Devendorf non ha sbavature, il ritmo corre mentre Matt ripercorre il passato. “Weird Goodbyes” con Bon Iver, mescola sovra incisioni vocali a ritmi minimali e sporchi di batterie elettroniche e orchestra. 

Il percorso buio intrapreso da Matt nel disco precedente è stato riproposto su Laugh Track, ma c’è qualcosa di diverso. È più lucente, anche negli attimi più oscuri come in “Space Invaders” o in “Turn Off The House”. Ed è proprio in quest’ultima che emerge quel luccichio, perché mentre la band suona in un’atmosfera, disordinata e frenetica, Berninger sembra volerci rassicurare. “Quando la tua mente lascia il tuo corpo” lascia andare tutto. “Ora sei libero”. 

La title track è un indie-folk che calza perfettamente sui tratti artistici di Phoebe Bridgers. I ritmi riecheggiano in ambientazioni infinite, tra chitarre riverberate e le voci di Phoebe e Matt che danzano insieme. 

“Coat on a Hook” è una disperata ricerca di qualcuno a cui aggrapparsi. Le sezioni ritmiche sincopate mantengono la tensione alta per tutta la durata della canzone, mentre Berninger è alle prese con l’ennesima persona che l’ha abbandonato. “Le Amicizie si stanno sciogliendo”, “Le promesse perdono importanza”, manche qui, da qualche parte sembra esserci speranza. 

“Tour Manager” e “Smooke Detector” chiudono il secondo e ultimo capitolo, di un viaggio iniziato solo 5 mesi fa con testi parlati e suoni psych-rock. 

Voto: 7.5/10

/ 5
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