- The Smiths – The Queen Is Dead
- 16 Giugno 1986
- ℗ Rhino / Warner Music UK
Una regola non scritta, nel mondo della musica, prevede che ogni artista, ad un certo punto della sua carriera, arrivi a produrre il suo capolavoro solitario, di gran lunga migliore dei lavori precedenti e impossibile da replicare nei lavori successivi. Per i “The Smiths”, quel capolavoro è “The Queen Is Dead”. Nonostante il gruppo non la pensi così, l’album era destinato già dalla sua uscita, il 16 Giugno del 1986, a cambiare i connotati al rock britannico.
The Queen is Dead è lo specchio della società britannica al giro di boa degli anni ottanta, e lo si può intuire dal titolo del disco, che sembra quasi voler chiudere il cerchio aperto dai “Sex Pistols” nel 1977 con “God Save the Queen”. La vena provocatoria dei “The Smiths” non è solo mirata alla famiglia reale, l’album attacca anche una classe politica giudicata non all’altezza, un sistema discografico che guarda solo alle classifiche e lo stesso pubblico, che vive in una realtà patinata e finta. Durante l’ascolto, ci si rende conto che, in realtà, il pubblico di cui si parla nel disco, non è solo composto dai non ascoltatori della band, ma da tutti, fan compresi, che secondo Marr avrebbero, prima o poi, scelto anche loro la strada più semplice, quella della realtà sopracitata, lasciando i dischi dei “The Smiths” in uno scaffale a prendere polvere.
La scrittura del disco, ad opera di Johnny Marr, chitarrista ed autore di tutte le tracce dell’album, inizia durante il tour del 1985. Ai testi vengono poi aggiunte le melodie di basso di Andy Rourke le sezioni ritmiche di Mike Joyce e, una volta ottenuta la versione embrionale delle tracce, Morrissey, con la sua voce inconfondibile, da il tocco finale alle tracce. L’album intero è un concentrato di allegria, malinconia, solitudine, vita, morte e amore non corrisposto, impreziosito da infiniti suoni di chitarra che galleggiano tra progressioni country e melodie scintillanti, al limite fra il semplice ed il complesso.
Il disco si apre con la traccia che da il titolo all’album. “The Queen Is Dead” da il primo segno di totale disprezzo di Morrissey per la monarchia inglese, la chiesa e il mainstream. I The Smiths non sono i primi a tirare in causa questi temi, ma l’ironia e la apparente leggerezza che Morrissey ha mentre canta, da una percezione diversa, che fa arrivare il messaggio in maniera diversa. “Frankly, Mr. Shankly” è un attacco ad una parte dell’industria discografica che ha più interesse nel fare soldi che nel fare musica. Tra questi vi è anche “Rough Trade”, etichetta con cui il gruppo aveva pubblicato tutti i lavori precedenti, The Queen Is Dead compreso, prima di passare ad EMI. Il verso “Give us your money” rende perfettamente il senso della canzone. La terza traccia è “I Know It’s Over” e racconta la fine di una storia. L’ironia delle tracce precedenti lascia spazio ad un’amara tristezza. La ripetizione finale di “Mother, I can feel the Soil Falling Over my Head / Sento la terra cadermi sopra la testa”, da la sensazione di come Morrissey cerchi di risvegliare il protagonista di questa storia da una situazione di apatia, per poter tornare al punto di partenza, ma al fianco di qualcun altro.
“Never Had No One Ever” fa sfumare l’apatia di “I Know It’s Over” in un lento scivolare nell’oblio tra confusione, incubi e solitudine. “Cemetry Gates” è un avvertimento a non appropriarsi di quello che non si possiede. Ispirandosi a John Keats e Oscar Wilde, Marr e soci tirano fuori una canzone allegra che strizza l’occhio al pop. La sesta traccia, prosegue sulla scia pop lasciata dalla sua precedente. “Bigmouth Strikes Again” è una traccia più movimentata rispetto alle sue precedenti, questo potrebbe essere uno dei motivi per cui è diventata una delle canzoni più famose, non solo dell’album, ma dell’intera discografia dei “The Smiths”. “The Boy With the Thorn In His Side”, inizia con una progressione di chitarra semplice ma efficace, accompagnata dalla morbidezza del basso di Rourke. Qui Morrissey torna a parlare d’amore, con la storia di una relazione finita ancor prima di incominciare. In “Vicar in Tutu” il vero spirito guida è la batteria di Mike Joyce, che piano piano lascia spazio alla voce di Morrissey. I testi si spostano ancora una volta sull’ironia e sullo scherzo. Questa volta tocca alla chiesa.
A questo punto si arriva alla vera punta di diamante di questo disco. “There Is a Light That Never Goes Out”. È davvero difficile trovare qualcuno a cui non piaccia questa canzone. È una canzone d’amore dai tratti oscuri, in cui Morrissey supplica il secondo personaggio della storia di non essere riportato a casa. Preferirebbe stare in qualsiasi posto, ma non in una casa che lui stesso non considera tale. Nel ritornello della canzone fa breccia la tipica ironia che ha caratterizzato tutto l’album. Morrissey sostiene che morire investiti da un camion in un momento bello come quello sarebbe un privilegio. Tra le righe sta dicendo una cosa che, non sembra poi essere molto lontana da quello che pensa veramente, “meglio morire in un momento felice come quello, che da solo schiacciato dalla rabbia e dall’ansia di un mondo che non riconosce”. L’ultima traccia di questo disco è “Some Girls are Bigger Than Others”. Il testo mantiene la vena ironica e da prova di un’ottima abilità da parte di tutti i musicisti. Appare diversa rispetto al resto delle tracce, soprattutto se si considera che è la canzone che chiude l’album. Ma non per questo è meno all’altezza delle altre.
A distanza di quasi quarant’anni, questa perla della musica, rimane ancora attuale. Fa parte di uno di quei progetti in cui gli artisti guardano alla vita di tutti i giorni con cinismo e amara ironia, ma se si scava sotto la superficie si trova un mondo caratterizzato da inquietudine, malinconia e scelte melodiche fantastiche.