Tom Yorke

How To Disappear Completely: Storia di una canzone perfetta

  • Radiohead – How To Disappear Completely 
  • 2 Ottobre 2000
  • ℗ XL Recordings Ltd.

Se tu scomparissi domani, c’è una canzone con cui vorresti essere ricordato? È forse l’eterno dilemma di ogni musicista, ma forse più che di ogni musicista è l’eterno dilemma di ogni essere umano. Forse non per una canzone, ma ognuno di noi, in piccolo o in grande, vive per restare inciso nei ricordi di qualcuno. Tom Yorke non era (e non è) poi così diverso da tutti noi. 

A quella domanda, il frontman dei Radiohead, ha risposto in un’intervista per la BBC nel 2000. E ha dato una risposta estremamente chiara, una cosa non da poco quando tu e il tuo gruppo siete all’ennesimo gran disco della vostra carriera.  Ciò che rende così importante questa traccia è proprio quell’intervista, che riesce a fartela “guardare” sotto un’altra prospettiva. 

Prima di andare avanti occorre però fare un piccolo passo indietro. È il 1997 e il gruppo si sta preparando a sconvolgere il rock alternativo in maniera massiccia, non come ai tempi di “The Bends” e “Pablo Honey”, no. Questa è una vera e propria rivoluzione. “Ok Computer” è completamente diverso da tutto ciò a cui erano ed eravamo (anche se io ancora non c’ero) abituati. Quando il disco uscì, i Radiohead furono catapultati sul tetto del mondo. Erano delle superstar. E tutto era successo da un momento all’altro. Un giorno vendi a malapena 400 biglietti per una data del tuo tour europeo e quello dopo sei davanti a 40.000 persone. Sei headliner al Glastonbury. Tutti vogliono il tuo autografo, la foto, sapere cosa ne pensi di quel film o libro, o che marca di birra bevi. Tu vorresti solo scomparire. 

How to disappear completely

Il primo punto di rottura per Yorke era arrivato durante le registrazioni di “Ok Computer”, ma dopo Glastonbury, il malessere del cantante riesce a crescere solamente. Il concerto fu un disastro sotto tutti i punti di vista. La band non riuscì a creare contatto col pubblico e i problemi di natura tecnica furono solo la ciliegina sulla torta. Terminò lo spettacolo, dopo essere stato convinto a restare sul palco da O’Brian. Alla fine del set per Tom Yorke arriva il punto di svolta. 

Forse le luci della ribalta non fanno per lui, i concerti, i tour, la musica, non fanno per lui. È una cosa difficile da mandare giù se sei un’artista, ma lo è ancor di più se sai che stai per iniziare un tour di un anno. Yorke si spense. Fu come uscire dal proprio corpo. Passo tutto il Tour di OK Computer come se non esistesse e alla fine, nel 1998, né usci in uno stato mentale pessimo. Quando la fama arriva così però, spesso c’è un prezzo da pagare. Fai un disco per andare in tour, dopo il tour scrivi un altro disco e poi vai di nuovo in tour. E così via finché non sei più in grado di poterlo fare. Per Yorke questo era troppo. 

La spirale depressiva in cui si era ritrovato nel ’98 e il blocco dello scrittore misero a dura prova la stabilità del gruppo. Le sessioni di scrittura non portavano a nulla. Ogni idea veniva scandagliata allo sfinimento, fino a quando non si arrivava al punto di renderla inutilizzabile. I Radiohead arrivano al punto in cui l’unica soluzione sembra quella di sciogliersi. Poi qualcosa cambiò. Un’idea si insinuò lentamente all’interno della band, si fece sempre più grande fino al punto in cui plasmò un nuovo modo di vedere la musica. “La melodia è morta, il ritmo è il re”. Nasce KID A. 

Uscito all’inizio del secolo, il disco portò i Radiohead verso una direzione che nessuno si aspettava. Gli Anthem che potevano aver caratterizzato “OK Computer” e “The Bends”, ma anche “Pablo Honey”, basti pensare semplicemente a “Creep” erano completamente spariti. Con loro avevano portato via le chitarre e anche gran parte degli strumenti tradizionali. Al loro posto, sintetizzatori, drum machine e, per Johnny Greenwood, un Ondes Martenot (quello che possiamo classificare come il primo sintetizzatore della storia). Era sicuramente una scelta insolita, visto che fino a quel momento Greenwood era il Lead Guitarist della band. Il fatto è che non avendo più bisogno di tracce di chitarra, il suo ruolo nella band doveva spostarsi altrove. 

Ci furono più fattori positivi che negativi, in questo cambio di rotta, per lui. Greenwood era l’unico del gruppo ad avere una vera e propria formazione musicale. Questo gli permise di prendere solo il meglio dal suo nuovo ruolo nei Radiohead. Si cimentò nella scrittura delle linee orchestrali e nella composizione, sia di strumenti analogici che digitali e, insieme a Godrich iniziò alla prima stesura degli arrangiamenti. Il risultato? Erano troppo complessi per il resto dei componenti. Nel disco viene ridotto tutto all’essenziale. Qualsiasi cosa non sia indispensabile va eliminata. In effetti “Kid A”, non ha particolari sezioni orchestrali, o espressioni strumentali barocche, salvo per una traccia. La quarta. 

How to Disappear Completely è la prima è unica traccia di Kid A a contenere una chitarra acustica. Ed è l’unica canzone del disco ad essere in qualche modo più vicina alla classica forma-canzone. Sin dalle prime note ti rendi conto di quanto tutto suoni fuori posto. E no, non è un caso. Tutto suona fuori posto perché deve suonare così. E più la canzone cresce più questa peculiarità assume un ruolo di importanza. Passi i quasi sei minuti di durata, senza capire minimamente che cosa la band stia suonando e dove stia portando la canzone. Le melodie di Greenwood sono incredibilmente dettagliate, non stanno mai ferme, si spostano fra le tonalità e si ingrandiscono a proprio piacimento. Le strutture di “Archi” sono forse quello che rende questa traccia così incredibile. 

A ribilanciare le pesanti strutture dell’arrangiamento, un Tom Yorke più morbido e mai visto fino a quel momento. How to Disappear Completely è il tentativo di Tom di esorcizzare quei demoni che si erano impossessati di lui durante il tour di Ok Computer. Ci sono riferimenti al Glastonbury. Il ritornello stesso è l’esatta frase che il suo amico Michael Stipe gli aveva detto prima di partire per il tour: “Non sono qui” / “Questo non sta succedendo”. 

Il disastro tecnico di Dublino rimane al centro della traccia e sembra incastrarsi perfettamente nei testi di Yorke. Quello che rende davvero incredibile ogni verso è proprio la sensazione che la traccia riesca a riflettere esattamente i sentimenti che il frontman aveva provato in quei giorni del ’97. L’evoluzione continua delle strutture orchestrali in continuo sviluppo e in continuo mutamento, trascinano le liriche sempre di più, fino a che, all’apice della tensione, tutto scompare. Come un uragano che si porta via qualsiasi cosa trovi sul suo cammino. 

La cosa peggiore è che lui sa di non poter fare nulla. Si, può lamentarsi, può piangere, ma non può fare nulla di concreto per cambiare la situazione in cui si trova. Almeno finche tutto non finisce. Ad un certo punto eccolo lì. Emergere da chissà dove un piccolo puntino luminoso, che si ingrandisce sempre di più. È la luce infondo al tunnel. All’improvviso tutto è tornato al suo posto, mentre gli archi arrivano ad uno stato di tensione straziante, prima della fine del brano. 

How to Disappear Completely, non è una traccia leggera. È scritta e arrangiata in maniera tale che ogni suo componente sia estremamente pesante. È un brano che mette in guardia dai pericoli che nuotano sotto la superficie della fama. Quelli che tutte le superstar dovrebbero conoscere. Purtroppo non c’è però una scuola che ti insegna ad essere una super star. Ti ritrovi in balia degli eventi e l’unica cosa che puoi fare, è mantenere la calma. È un avvertimento su cosa può accadere quando spingi un artista fino, e oltre, al punto di rottura. È l’altra faccia della medaglia, quella che ti spiega perché anche la cosa più ambiziosa, il grande sogno di ogni musicista, può diventare un incubo in pochi minuti. 

Finalmente i Radiohead sono di nuovo 5 musicisti che vogliono solo fare musica. Una storia di ossessioni, una storia di “non scendere a compromessi”, ma dopo tutto, una storia con un lieto fine. 

5,0 / 5
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Tuesday Music Revival: Radiohead – In Rainbows

  • Radiohead – In Rainbows
  • 10 Ottobre 2007
  • ℗ LLLP LLP / XL Recordings Ltd.

Più attuale che mai è il dilemma dell’importanza che riconosciamo alla musica. Ad oggi, per esempio, è sempre più sicuro che Spotify alzerà il prezzo dell’abbonamento per poter usufruire del suo catalogo musicale. È l’ennesimo rialzo degli ultimi due anni e, tra lo scontento generale, viene da farsi una domanda. Al di là delle piattaforme di streaming, qual è il valore della musica dal punto di vista degli ascoltatori?

Questa è una domanda vecchia, risalente forse al momento in cui al centro del ring, non c’erano Spotify e gli artisti, ma le etichette discografiche e i download illegali da PirateBay. Già allora le persone tentavano di poter avere la maggior quantità di musica possibile, spendendo il meno possibile. Nella maggior parte dei casi scaricandola illegalmente. Anche li qualcuno iniziò a porsi la medesima domanda. I Radiohead cercarono di arrivare ad una risposta. Il 10 ottobre del 2007, la band della contea di Oxford, pubblicò “In Rainbows” sul web, senza etichetta e dando agli utenti la possibilità di scegliere quanto pagare il disco (anche zero). Il risultato? Una buona parte degli utenti (circa il 60% stando a quanto riportato dalla società di monitoraggio dati ComScore) ha deciso di scaricare l’album gratis. 

In Rainbows
Foto di Gie Knaeps

Non erano certo i primi ad aver preso in considerazione questa scelta, che nel loro caso si è dimostrata una manovra di marketing eccellente, ma sono stati sicuramente quelli che hanno influito di più, complice la loro grande copertura mediatica. Parlando di musica però, ciò che colpisce in “In Rainbows” è il ritorno della band di Tom Yorke, alle proprie sonorità iniziali. Dopo “The Bends”, dal 1995 in poi, il gruppo aveva messo da parte le gran parte dei suoni che avevano forgiato i primi due dischi, in favore di sperimentazioni elettroniche. Sempre in maniera magistrale, ogni lavoro, da “Ok Computer” fino a “Hail to the Thief”, sembrava essere concepito per superare i confini raggiunti in ogni disco precedente. Ha funzionato divinamente in tutti gli album, sparando la band in universi post-apocalittici, fatti di sonorità sci-fi.

Arrivati al 2007, però i Radiohead sembrano ormai stanchi per le sperimentazioni. Con In Rainbows, è ora di tornare dove tutto è iniziato. Più o meno. E dico ciò perché nonostante tutto, l’utilizzo delle componenti elettroniche non abbandonerà mai più la band, ricavandosi il suo posto perfetto, in un progetto inciso profondamente nella storia della musica. Liberati dal fardello dell’innovazione, complice anche il percorso da solista di Tom Yorke, tornano a suonare, recuperano il senso della melodia e una forma-canzone più chiara, pur mantenendo la loro natura eclettica, che farà da vero e proprio collante per le 10 tracce del disco. 

Il cambio di direzione non è immediato. Il primo minuto di “15 Step” suona come se la traccia fosse appena uscita da una delle sessions di “Kid A”. Gli scrosci e le drum machine sembrano i padroni incontrastati della traccia, ma quando il basso e la chitarra dei fratelli Greenwood fanno capolino, la band cambia volto immediatamente. Sembrano suonare nuovamente come un quintetto. Questa sensazione si assapora ancora di più nei suoni sporchi di “Bodysnatchers”, dove la potente rappresentazione della monotonia, si scontra con un arrangiamento fuori da ogni schema. Non sentiremo mai un alternarsi di versi/ritornelli. Tutto si svilupperà su un crescente stato di tensione. Al culmine, un assolo esplosivo, prima che la traccia si dissolva nel nulla.

Loop in reverse, vocalizzi e strati di Synth, creano un’atmosfera strappa-cuore in “Nude”. Torniamo ad alcune soluzioni sonore lasciate indietro ai tempi di “Pablo Honey, ma se una volta sarebbero spuntati, prima o poi, dei powerchords graffianti, qui è tutta un’altra storia. I suoni sono soffici e le voci di Yorke, talmente leggere da sembrare quasi sussurrate. Gli swing di batteria crescono appoggiati ai cambi di ottava sugli arpeggi di chitarra di “Weird Fishes / Arpeggi”, confluendo nel post-rock di “All I Need”. La conclusione del primo lato di questo disco è qualcosa di incredibile. Il vero protagonista della traccia è il rumore. Esso aumenta e diminuisce ripetutamente, mentre le melodie, il piano e i suoni di Glockenspiel, danzano insieme alle voci di Tom. Ma il rumore resta li, intrappolato fra riverberi e synth acidi, pronto a tornare protagonista, ogni volta che smetti di prestargli attenzione.

“Faust Arp” elimina ogni accenno di componenti elettronici. Gli arpeggi di chitarra giocano dolcemente con orchestrazioni maestose, in una traccia che mai ti saresti aspettato in questo disco, in cui la cupezza delle strofe si apre in intermezzi colmi di brillantezza. Negli spunti jazz della sezione ritmica di “Reckoner”, Yorke crea delle intricate linee vocali, mentre parla a cuore aperto al mondo. Sulla morte, sulla ricchezza, su tutto ciò che non si può evitare. Sono sfaccettature, trattate anche in “Weird Fishes” e “15 Step” che in un certo senso contribuiscono a legare il disco. La sporcizia e la dolcezza si equivalgono negli accordi di “House of Cards”. Tra lunghi riverberi e vocalizzi, la traccia disegna uno spiraglio di dolcezza che ancora non si era visto su “In Rainbows”, prima di scomparire nelle profondità riverberate del disco.

In “Jingsaw Falling Into Place”, il cielo si scurisce mentre la band affonda il piede sull’acceleratore. Entriamo in contatto ancora una volta con una struttura d’arrangiamento che è ormai diventata lo standard del disco. Un crescente stato di tensione su una traccia priva di ritornelli e in costante sviluppo. Tornano a farsi sentire anche i sintetizzatori…e sono più forti che mai. E poi, Click. Tutto si spegne. Gli ampi ambienti si restringono.

Ci sono solo Tom Yorke e un piano. A poco a poco entreranno anche tutti gli altri componenti, ma il primo momento di “Videotape” è un qualcosa che non si sentiva dai tempi di “The Bends”. È un momento di autoanalisi. Yorke sa che quando tutto si spegnerà, quando anche lui dovrà morire, ciò che resterà sulla terra non sarà altro che una videocassetta (e una sfilza di capolavori). Mentre la sua voce si allontana, la sezione ritmica prende il sopravvento, conducendo la traccia, e il disco, verso la fine. 


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