trip-hop

Fu il Periodo Blu: La recensione del debutto di River X

  • Fu il Periodo Blu – River X
  • 12 Luglio 2024
  • River X

In “Fu il Periodo Blu”, EP di debutto di River X, al secolo Luca Carnevale, l’elettronica avvolge una ovattata e cupa visione di angoscia e precarietà. Mai nome fu più azzeccato di questo. Chi ascolta musica in inglese, sa quanto il colore Blu rappresenti una chiave di lettura molto importante per i testi. Esprime la tristezza come nessun’altra parola riesce a fare, crea atmosfera e, in qualche modo, contribuisce a renderci parte di ciò che stiamo ascoltando. 

In “Fu il Periodo Blu”, in realtà, la chiave di lettura principale non è proprio questa, o meglio è più articolata di così. L’EP prende il nome dal Periodo Blu di Picasso. Durante i primi anni del 900, l’artista utilizzò proprio il colore blu, come parte preponderante dei sui lavori, per raccontare una Spagna cupa, dolorosa e precaria. In questo progetto non ci sono prostitute, mendicanti, e ubriachi, ma nonostante ciò è ricco di similitudini con quella fase artistica del pittore spagnolo. 

Fu Il Periodo Blu

“Fu il Periodo Blu” è un diario di bordo – uno scatolone dove intrappolare i brutti ricordi. Un attimo di lucidità per fare un’autoanalisi sul proprio passato. L’unico modo possibile di spogliarsi di un po’ di quel blu che avvolge, chi più, chi meno, ognuno di noi. 

Ad aprire l’EP è “Presa di coscienza”. Lungo poco meno di due minuti ci ritroviamo immersi in un ambiente sfocato, quasi onirico. Persino le tracce vocali appaiono sbiadite, avvolte da una strumentale che fa della melodia la protagonista, intenta a cullarci con note dolci prima di catapultarci in balia della tempesta. E la tempesta arriva nell’autoanalisi di “Vernissage”. Tra sovrapposizioni di percussioni africane e stratificazioni di samples e sintetizzatori, la voce di Carnevale appare ancora avvolta dalla melodia, le linee vocali si trasformano quasi in sussurri, mentre il cantautore si guarda dentro. 

I vocal chops di “Le api ci diranno” aprono la porta a un brano più canonico, in cui l’artista si concede un rap fuori dagli schemi. Con “Manifesto”, traccia di chiusura di Fu il Periodo Blu, ci spostiamo in ambienti sonori ancora diversi. Elettronica e breakbeat si fondono in una traccia dal ritmo rallentato, che strizza dolcemente l’occhio al trip-hop.


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Lunar Dreams: La recensione di “Touched the Ground”

  • Lunar Dreams – Touched the Ground
  • 30 Aprile 2024
  • ℗ Diffuse Reality

Sonorità Elettroniche e ritmi Downtempo si intrecciano in “Touched The Ground”, il primo EP dei Lunar Dreams. Il duo, composto dal produttore/musicista Chris Blakey e l’artista italiana Ilona Dell’Olio, nasce a Fuerteventura, nelle Isole Canarie. Questo è un punto chiave nel panorama sonoro dei loro progetti, perché tra le influenze vocali a metà fra Portishead e Massive Attack, si incrociano produzioni elettroniche che arrivano proprio dai paesaggi vulcanici e rocciosi di quella zona, che non sembrano di questa terra. Se Ilona Dell’Olio è, relativamente, una nuova scoperta in ambito musicale, nel caso di Blakey, la situazione è un po’ diversa. Il produttore inglese, ha collaborato con artisti molto importanti nella scena britannica, passando dai Death In Vegas a Nick Cave e Warren Ellis. 

Touched the Ground
Foto di Ettore Maragoni

In “Touched the Ground” l’elettronica si fonde all’arte, altro tassello fondamentale del duo, importato da Ilona Dell’Olio, pittrice che ha collaborato con diverse gallerie tra Olanda e Italia. Ad aprire il disco è la title-track. “Touched the Ground” è un delicato tappeto di melodie di piano, sfarfallii di sintetizzatore e suoni ambientali, che avvolgono in maniera perfetta le calde voci dei due artisti. Prima che i breakbeat entrino da protagonisti su questa traccia, Blakey si districa fra linee vocali, pesantemente radicate nell’ambiente indie-rock britannico. “The Flames” è la ricetta perfetta del Trip-Hop. L’apertura su cui sono impilate delle strutture percussive esotiche se confluiscono nel breakbeat principale su cui le stratificazioni vocali trovano il punto perfetto per svilupparsi, in quella che è probabilmente la traccia più forte di questo disco. 

Mentre i suoni di “The Flames” si inacidiscono, aprono il passaggio a “Dissolve”. La traccia rallenta ancora di più rispetto alle precedenti, trasformandosi in una ballad dai suoni sfocati. Su “Collate” gli echi nelle voci di Dell’Olio, esplodono in ampie strutture di percussioni che sembrano uscire da “Protection” dei Massive Attack. La sezione ritmica ne esce ancora una volta da protagonista, i breakbeat e la corposa linea di basso trasformano tutto il resto in superfluo, eccezion fatta per la voce, che si muove squisitamente tra gli acidi accenti di synth e le batterie elettroniche. Il progetto rimane sulle sonorità trip-hop della prima metà degli anni novanta anche sulla traccia di chiusura. “The Framework” è intrigante e calda. I suoni cadenzati creano un’atmosfera quasi cinematografica, mentre le voci malinconiche di Dell’Olio giocano a nascondino con la strumentale, prima di unirsi a quelle di Blakey sul finale. 


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MTVoid: la recensione di “Matter’s Knot, Pt.1”

  • Matter’s Knot, Pt.1 – MTVoid
  • 10 Novembre 2023
  • Lobal Orning Records

Un intro futuristico di oltre sei minuti, con suoni provenienti da altri pianeti e rumori indefinibili, aprono il criptico e quanto mai sfuggente nuovo album degli MTVoid. La band crea un tappeto industrial, contaminato da sonorità arabeggianti, accenni post rock, echi trip hop, con schitarrate metal a condimento del tutto. Incredibile quanto una mistione di generi e sonorità diverse sia stata partorita da solo due menti, seppure artisticamente sopraffine, creando un trip sonoro ipnotico. Questo mix di contaminazioni viene esaltato appieno in “Matter’s Knot, Pt.1”, che prosegue quanto già proposto dieci anni prima dalla band.

È piuttosto inconsueto che l’unico pezzo totalmente strumentale sia il primo ed il più lungo, ed è ancor strano che nonostante tale preambolo “Death Survives” giunge come la meno “musicale” delle sette tracce complessive. Se questi sono i presupposti, non c’è che da mettersi comodi e prepararsi a molte turbolenze.

Ed eccoci quindi a “Lilt”, che accompagna l’ascoltatore verso un insolito connubio: gli albori dei Nine Inch Nails incontrano le terre orientali, una mistione tanto stravagante quanto azzeccata. Chanchellor e Mohamed si aggiudicano il secondo round a pieni voti.

L’Arabia si fa da parte in “Propagator”, a beneficio di echi post rock ed accenni prog, grazie anche al featuring di Aric Improta alla batteria. Interessante, ma con minor impatto rispetto al precedente.

La voce di Isabel Munoz-Newsome trasforma il duo negli ultimi Archive, ricordando in particolar modo “Numbers”. Lo stile della band però rimane molto marcato in “Drop-out”, con rumori e suoni che si intrecciano in un trip proiettato al futuro. L’asticella continua ad alzarsi.

Si giunge al momento di introspezione assoluta: il basso di Justin Chanchellor mostra il suo lato tooliano, in un riff ipnotico, perfetto per un testo criptico ed enigmatico. “They are scanning your soul” viene ripetuto, come un monito sussurrato, un suggerimento velato. “Scanner Void” risulta complessa, intricata ma di certo non scontata.

“MaBeLu” arriva a rilento, per poi esplodere nella voce di Peter Mohamed. Si mantiene lo stile costante dell’intero album, in bilico tra l’industrial metal e il trip hop. Troppo breve per lasciare un solco nell’anima del pubblico, troppo incisivo per passare inosservato o, meglio, inascoltato.

L’album si chiude con “Magmaficent”, un gioco di parole che racchiude al meglio il sound di questo piccolo supergruppo. Un tappeto trip hop, con note sospese e testo parlato, che traghetta verso la riva dopo un viaggio piuttosto burrascoso. Degno finale di un’opera ermetica.

È difficile descrivere a parole quanto gli MTVoid riescono a fare con la musica. Non è di certo un ascolto leggero, spensierato, ma nemmeno troppo astruso, al punto di evitarne l’approccio. Bisogna prepararsi bene, predisporre l’animo, rilassarsi a dovere ed accettare un viaggio di mezz’ora in mondi distopici, spesso non troppo lontani dal nostro quotidiano più intimo.

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